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Tasha

Nick è fuori casa da un paio d’ore. Non so dove sia andato, ha detto che voleva schiarirsi la mente. L’appello verrà trasmesso durante i telegiornali della sera, quindi è probabile che da quel momento in poi non avremo un attimo di tregua. Ho scoperto solo dopo averlo registrato che non sarebbe andato in onda subito. Immaginavo che l’avrebbero mandato in diretta su tutti i canali di news. Ogni secondo è importante, e far arrivare il messaggio a tutti quanto più in fretta possibile è fondamentale, per quel che mi riguarda.

La polizia ci ha spiegato che bisogna essere cauti e assicurarsi che certe informazioni vengano trasmesse nel modo e nell’ordine giusti. Non ho capito bene cosa intendessero, ma posso solo immaginare che abbiano una qualche pista da seguire e che vogliano usare l’appello ai media a tale scopo. Mi sento quasi ferita al pensiero che non condividano con noi certi dettagli, soprattutto visto che a essere scomparsa è nostra figlia. Non ho idea di cosa sappiano o credano di sapere, ma pensavo che mettercene al corrente fosse una loro priorità. A meno che non siamo tra i sospettati.

Non posso dire che la possibilità non mi sia mai passata per la mente. È ovvio. Se ci si riflette in maniera razionale, c’è da aspettarselo. Quanto a me, però, io provo solo un’assoluta disperazione. Gli agenti dovrebbero aiutarci a riportare Ellie a casa. Ci hanno ripetuto più e più volte di lasciare che se ne occupassero loro. Sono loro gli esperti, dicono. Eppure, se sprecano anche solo l’uno percento del loro tempo a sospettare di noi o a indagare sulle nostre vite, lo stanno sottraendo al compito di scoprire chi ha veramente rapito Ellie.

È stupefacente come ogni cosa cambi quando succede una tragedia del genere. Tutto quello che credevi di sapere viene messo in discussione. Di norma, non sono una gran conversatrice. Come Nick, tengo a tenermi dentro ogni sentimento. Nessuno dei due si è mai davvero aperto con l’altro. Non credo che questo sia stato un problema, finora, ma da quando Ellie è scomparsa sento il bisogno di avere mio marito accanto a me. E se non lui, qualcun altro. Come se mi fossi tenuta tutto chiuso dentro troppo a lungo, e adesso ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a tirarlo fuori. Qualcuno che, di recente, mi abbia mostrato un minimo di affetto, di attenzione. Una donna. Che non sia un’agente di polizia.

Decido di chiamare Emma. Si è fatta sentire un paio di volte, di recente, e sa che sto soffrendo perché mi ha aiutata a prendere appuntamento con la dottoressa. Sembra sia sempre pronta a dare sostegno, sempre disponibile al telefono. Una persona sulla quale so di poter contare. E, sulla scia di queste considerazioni, mi sento in colpa perché non sono stata una così buona amica per lei. Siamo rimaste in contatto, certo, ma era uno di quei legami da auguri di Natale e chiacchierate occasionali. Il tipico rapporto di amicizia dell’età adulta, immagino. Non siamo mai state molto intime, ma al momento non ho alternative.

Emma trasuda pacatezza sin dall’istante in cui risponde al telefono. Questa è una delle sue caratteristiche che mi piace di più: è sempre calma e rassicurante. Mi chiede subito come ce la passiamo io e Nick, e se ci sono notizie riguardo a Ellie. Le rispondo che non ce ne sono. Con la sua prontezza, ci mette poco a capire che qualcosa non va.

«Cosa ti angustia?», chiede, dando subito per scontato che ci sia qualcosa. Non sono il tipo di persona che telefona per fare due chiacchiere.

«Un bel po’ di cose», rispondo, quasi con sarcasmo. Perché in realtà mi angustia tutto.

«Sai che con me puoi parlare, vero?», dice Emma. «Magari non siamo più unite come un tempo, ma se hai bisogno, io sono qui».

«Lo so», confermo. «Grazie». E ha ragione. All’università eravamo molto legate. Eravamo in quattro. Tutte riconducibili a un qualche stereotipo. Io ero la capobanda, la ragazza forte e sicura che attirava gran parte delle attenzioni maschili; Emma era la giovane tranquilla e modesta, un po’ hippy, convinta a frequentare l’università dai genitori ma decisa a laurearsi solo per farli felici; Cristina era quella che beveva troppo e spariva a metà serata, per tornarsene a casa con qualcuno o per finire a casa di qualcun altro; e Leanne era quella sportiva, non beveva, badava molto alla salute, ma era comunque capace di divertirsi. Io stavo coi miei genitori, visto che l’università era a poco più di cinque chilometri di distanza. Emma veniva da Droitwich, Cristina dal Galles e Leanne dal Devon. Il nostro gruppo sembrava davvero compatto. Tutte restarono in zona dopo l’università, e questo ci portò a credere che saremmo rimaste amiche per sempre. Credo sia stata proprio questa certezza a dividerci, alla fine.

Cominciammo ad allontanarci una dall’altra già verso la fine dell’ultimo anno accademico. Io avevo da poco conosciuto Nick. Ci eravamo incontrati all’associazione studentesca, anche se lui non frequentava l’università. Aveva diversi amici nell’ateneo, perché era del posto anche lui, e all’inizio ci vedevamo più che altro per chiacchierare. E, anche allora, non credo che si aprì mai per davvero. Non gli chiesi se aveva una fidanzata, quale fosse la sua storia, niente. Io non ero una da fare domande, lui non era uno da fare confessioni. I primi tempi non dicemmo a nessuno che stavamo insieme. Eravamo partiti con una semplice frequentazione, poi era nata l’amicizia, e poi era successo il resto. Non sentimmo mai il bisogno di annunciarlo agli altri. Non ci fu neanche un vero spartiacque, nella nostra relazione. Ricordo solo che mi sentivo sempre più attratta da questo giovane artistoide che pareva sbattersene di tutto e di tutti, sempre felice e sicuro di sé. C’è qualcosa di molto sexy in un uomo la cui autostima resta tale e non tracima mai nell’arroganza.

«Se devo essere sincera, si tratta di Nick», confesso, coprendo il telefono con una mano anche se non c’è nessuno in casa. «Sta peggiorando la situazione perché pensa solo a sé stesso. È il suo comportamento… mi preoccupa».

«Ti preoccupa? Perché?»

«Per un paio di motivi», rispondo, sforzandomi con tutta me stessa per trovare il modo giusto di esprimermi. «Lo sai com’è fatto. Non riesco a capirlo».

«Perché? Che sta facendo?», chiede Emma.

Deglutisco. «Non so se mi è permesso parlartene, ma nemmeno me l’hanno vietato. Ce l’aveva a morte col tizio che abita qui di fronte. Si è convinto che abbia qualcosa di losco. Per via della dichiarazione che ha rilasciato alla polizia, sostenendo di non aver visto Nick mettere Ellie in macchina. In ogni caso, è andato a casa sua e l’ha affrontato. Era convinto che sapesse dov’era la nostra bambina. L’ha spaventato a morte, Em. Gli ha messo a soqquadro la casa. La polizia ha dovuto portarlo via con la forza».

Emma sospira. «Cristo santo».

«E poi se ne torna qui e ci sono gli agenti, ovviamente, e cominciano a fargli domande. Viene fuori che anni fa è finito nei guai con la legge per aver rapito la sua fidanzata dell’epoca e averla legata a un albero, mentre erano entrambi ubriachi e drogati».

«Porca miseria. Ed è successo prima che vi conosceste?», domanda lei.

«Già. A quanto pare è per questo che beve meno possibile. So che prima che ci mettessimo insieme era abituato a fumare erba e cose del genere, ma ai tempi di quel fattaccio faceva ben di peggio. E a me non ha mai detto nulla. Come fai a nascondere una cosa del genere così a lungo? Come se l’avesse del tutto dimenticato».

«Non lo so», risponde Emma. «Ma la gente fa spesso così. Avresti cambiato idea su di lui, se l’avessi saputo prima?».

Sospiro. «Dipende da quanto prima. Se all’inizio se ne fosse venuto fuori con qualcosa tipo: “Ciao, mi chiamo Nick e ho rapito la mia ex fidanzata”, con ogni probabilità non l’avrei più rivisto».

«Magari non era recente neanche all’epoca», azzarda lei. «Forse era già successo anni prima».

«Forse», ammetto. «Non lo so. Non conosco i dettagli. Non gli ho mai chiesto niente sulle sue ex. Voglio dire, chi mai lo fa?». Mentre lo dico mi rendo conto che in realtà so davvero pochissimo del passato di Nick. Le cose di base, dov’è cresciuto, chi erano i suoi genitori, dov’è andato a scuola. Ma nessun vero dettaglio. Neanche un aneddoto. Nessuna storia che gli stesse a cuore, nessun ricordo.

«Scusa se mi permetto», interviene Emma, «ma a me pare che tu abbia dei dubbi sul conto di tuo marito».

«Non lo so. Davvero. Immagino sia per via dello stress. Sono venuta a sapere di quel reato e da allora è tutto più difficile. E adesso lui ha cominciato a uscire sempre più spesso, dice di aver bisogno di spazio. Non so dove sia, cosa stia facendo. E neanche sono sicura di volerlo sapere».

«Posso fare qualcosa?», mi chiede lei dopo qualche secondo di silenzio.

«Non direi. Avevo solo bisogno di sfogarmi. C’è questa detective della polizia, Jane, ma con lei non me la sento di aprirmi per davvero. Mi sembra sempre che mi osservi, che mi tenga d’occhio, in attesa che dica o faccia qualcosa di sbagliato».

«Tipico della polizia. Immagino facciano semplicemente il loro mestiere. Non mi preoccuperei più di tanto. E ogni volta che hai bisogno di parlare, chiamami, va bene? Ci sarò sempre».

«Grazie», rispondo, perché non so che altro aggiungere. Credo che se provassi a dire qualsiasi altra cosa, rischierei il tracollo completo.