33
Nick
Non ero mai stato al Talbot Arms. Abito in questa città da quando sono nato e il pub è qui da sempre, ma non credo di conoscere qualcuno che ci sia mai andato. In parole povere, è il classico locale da quartiere malfamato; una mostruosità di cemento, coperta di croci di San Giorgio e striscioni di Sky Sports. C’è sempre almeno una finestra coperta di tavole di legno, e si sente la puzza di sigarette e piscio stantio anche passandoci davanti in macchina.
Il parcheggio è tutto cosparso di mozziconi e lattine di birra, ma ci sono davvero poche automobili. Sono a qualche centimetro dalla porta d’ingresso quando a un tratto mi chiedo cosa cavolo sto facendo. Sto per compiere un gesto irrevocabile.
Il fatto che il rapitore vuole che me ne occupi io invece di assumere qualcun altro mi fa capire che desidera far soffrire anche me, e questo implica che ce l’ha sia con me sia con Tasha. Cosa che rende ancor più difficile capire chi possa essere. Chi mi dice che non sia tutta una trappola? È senza dubbio possibile, ma le probabilità sono esili rispetto al rischio di non rivedere mai più Ellie se non vado fino in fondo. In ogni caso, cosa c’è di male in una chiacchieratina in un pub?
Apro la porta ed entro. I piedi si appiccicano subito alla moquette e mi sento gli occhi di tutti addosso. Non è il tipo di posto dove entrano spesso facce nuove, e di sicuro sembrerò una mosca bianca. Ho i capelli, tanto per cominciare.
Vado verso il bancone con tutta la naturalezza e la tranquillità di cui sono capace, e ordino una birra. Il gestore mi guarda per un secondo di troppo, poi comincia a versare. «Mi sono appena trasferito», dico. Dio sa perché. Prendo la mia pinta e la pago. Il proprietario si siede su uno sgabello a circa un metro da me, lanciando un’occhiata al gruppo di quattro uomini pelati che giocano a biliardo.
«In realtà sto cercando qualcuno», dichiaro. «Warren MacKenzie, si chiama così. Lo trovo qui?»
«Chi lo vuole sapere?», domanda il tizio, senza distogliere lo sguardo dal biliardo.
«Io», rispondo.
Lui si alza lentamente e viene verso di me, sporgendosi oltre il bancone tra due pompe per la birra alla spina. «E tu chi sei?»
«Un amico», dico, arrivando addirittura a porgergli la mano. Con mio grande stupore, lui la stringe. «Ho solo bisogno di parlargli. Un amico mi ha messo in contatto con lui».
«Un amico ti ha messo in contatto con lui?», ripete il barista. «Mi pareva di aver capito che l’amico fossi tu».
«Be’, sono l’amico di un amico», rispondo, farfugliando.
Sul suo volto si disegna un sorriso sarcastico, e le spalle si alzano e abbassano mentre emette un verso simile al rumore di un sommozzatore che sbuffa dal boccaglio. «Warren. Questo tizio vuole conoscerti», dice a gran voce, rivolto agli uomini intorno al biliardo.
Uno di loro si separa dal gruppo e viene verso di me, continuando a fissarmi mentre attraversa il locale.
«Ah, sì?», chiede, una volta arrivato. È un omone, indossa una camicia a scacchi a maniche corte che non aiuta a stabilire se la stazza è dovuta ai muscoli o al grasso. Sul bicipite destro si intravede un tatuaggio, ma non riesco a capire bene cosa rappresenti.
«Salve», dico, e come prima cosa porgo la mano.
Warren però non è gentile come il barista e la ignora, senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «Un amico mi ha detto che lei si occupa di certi lavori e che potrebbe aiutarmi».
«Già, quindi ha bisogno di rifare il tetto alla casa?», ribatte. Sento un sommesso scroscio di risatine provenire dalla direzione del biliardo.
Lo guardo a occhi socchiusi, non so bene se mi stia prendendo in giro o se il suo sia una sorta di messaggio in codice. Come dovrei rispondere?
«Ho bisogno che mi faccia un favore», dico. Non mi viene in mente altro.
«Spiacente, amico. Non faccio favori. Soltanto lavori su commissione. Il prezzo del mattone è salito di recente, capisci». Le risate dei suoi amici ora sono meno sommesse.
«Ascolti, possiamo parlare fuori?», insisto. «Un amico mi ha mandato da lei. Ha detto che è affidabile. Probabilmente è meglio se ne discutiamo in privato».
«Ma davvero?», mi domanda, avvicinandosi di un paio di centimetri. «Be’, io non sono d’accordo. Se vuoi qualcosa, puoi chiedermelo anche qui. Chi è questo tuo amico?»
«Non glielo posso dire. Non vuole».
Warren risponde con lo stesso verso da sommozzatore del barista. «Per tua fortuna sono di buon umore. Fuori», conclude, indicando la porta.
Riconosco la minaccia nel suo sguardo e non ho intenzione di discutere. Ho fatto una cazzata.
Apro la porta e vado verso il parcheggio, strascicando i piedi sull’asfalto. Mi siedo su un muretto e chiudo gli occhi, con il sole che mi scalda la nuca.
Pochi istanti dopo, sento un rumore metallico. Mi giro e vedo il proprietario del locale che sistema un barilotto vuoto a ridosso del muro esterno del pub. Si gira e mi guarda, per poi venire nella mia direzione.
«Non ti preoccupare per Warren», dice. «Vuole solo andare sul sicuro. È fatto così».
Mi costringo a sorridere e continuo a guardare le auto di passaggio.
«Perché hai detto di esserti appena trasferito?», chiede lui, appollaiandosi sul muretto accanto a me.
Mi stringo nelle spalle. «Non lo so. Non volevo che il mio arrivo improvviso sembrasse strano».
«Warren ha avuto qualche problemino con la polizia. Come puoi immaginare, non si fida delle persone che non conosce. Io però ho visto la tua faccia sui giornali. So chi sei. Aspetta qui un secondo».
Prima che io possa capire per davvero cosa mi ha detto, va via. Porca puttana. Sa chi sono. Questo non va affatto bene. Non ho alcun modo di capire se posso fidarmi di questo tizio. So soltanto che a quanto pare per lui è assolutamente normale che un malvivente beva nel suo pub, quindi devo sperare per il meglio. Non posso tirarmi indietro adesso. Non ho alternative.
Dopo meno di un minuto, l’uomo esce di nuovo dal pub, seguito da Warren. Mi alzo e vado verso di loro, così ci incontriamo in mezzo al parcheggio.
«Richard mi ha assicurato che sei a posto», esordisce Warren.
«Già. Mi dispiace essere partito col piede sbagliato. È che non sono esattamente abituato a questo genere di cose», rispondo.
Warren lancia un’occhiata a Richard, e questi torna verso il locale, lasciandoci da soli. Poi Warren guarda me e aspetta che parli.
«Ho bisogno di sbarazzarmi di una persona», dico, facendo del mio meglio per non sembrare il personaggio di un film di serie B. «Mia moglie».
Passano alcuni secondi di silenzio, prima che mi risponda. «Richard mi ha spiegato chi sei. Sarò sincero con te. Fiducia e onore contano tanto, per me, hai capito? Il mio campo è quello che è, ma ho anche un’etica. L’idea che le donne non abbiano mai colpa è una gran cazzata. Di solito, sono peggio degli uomini. Quello che è successo tra te e tua moglie è un problema tuo. Non sta a me giudicare. Sono altri i motivi per i quali io decido se aiutare o no una persona, va bene? Ora. Guardami negli occhi e dimmi che non sai cos’è successo a tua figlia».
Da come me lo chiede, sembra una cosa difficile, ma è in realtà la più semplice che io abbia dovuto fare negli ultimi tempi. Lo guardo negli occhi. «Giuro che non ne ho idea. Voglio solo che torni da me. E questo è l’unico modo».
Lui annuisce.
«Cosa farà?», gli chiedo. «Cioè, quanto tempo ci vuole? Sarà una cosa violenta? Devo saperlo».
«Non so di cosa stai parlando», risponde lui con aria neutrale, anche se dallo sguardo capisco che in realtà mi sta ordinando di non parlare di certe cose. Posso capire la necessità di cautela, ma di sicuro non ha motivo di credere che io sia un agente sotto copertura o cose del genere. Tanto per cominciare, sto facendo troppe domande dirette. Sarebbe il peggior caso di induzione al reato della storia.
«Quanto chiede per i suoi… servizi?», domando.
«Quindicimila», mi risponde, senza battere ciglio.
Cerco di non mostrarmi troppo colpito. «Va bene», dico.
«In anticipo e in contanti».
«Cosa, tutta la cifra?», voglio sapere.
«Questo significa “in anticipo”. Malgrado quello che dice Richard, io non ho idea di chi sei».
Che scelta ho? Ma se trovano il cadavere di Tasha e scoprono che ho prelevato una grande somma di denaro, come potrò giustificarlo?
«Un bel po’ di soldi», commento. «Cosa racconterò se mi chiedono spiegazioni?»
«A chi devi delle spiegazioni?», chiede lui di rimando.
«Alla polizia».
«E perché mai? Cerca di restare con la coscienza pulita, compare. Non dargli motivo di sospettare di te».
Deglutisco. «La mia coscienza è già un po’ sporca», dico.
Lui socchiude gli occhi. «Be’, allora ti conviene ripulirla, cazzo, non trovi? Questo è il mio mestiere. È quello che faccio. Non posso lavorare con persone delle quali non riesco a fidarmi». Deve notare qualcosa sul mio volto, perché si interrompe e mi fissa per un istante. «Ascolta, mio fratello ha una ricevitoria per le scommesse giù a Dunhill Road. Accetta solo contante. Sai come funzionano certe cose. È un momento molto duro, sei debole, sconvolto. Cominci a scommettere. Cavalli, levrieri e così via. Ti concedi una pausa da questa tragedia, una distrazione. E senza neanche rendertene conto, ti trovi sotto di quindicimila sterline. È un attimo».
Capisco esattamente dove vuole andare a parare. «Ma come si fa? La polizia scoprirà che non ci sono mai entrato. Per via delle telecamere a circuito chiuso».
«Non immagini quanto spesso quelle telecamere non funzionino», mi risponde, con un sorriso ironico. «Ma mio fratello è un testimone attendibile. È in affari da una ventina d’anni. Pratica delle quote orribili, ma ha diversi clienti fissi che spendono un sacco di soldi da lui, se capisci cosa intendo».
«Un attimo, stiamo parlando di riciclaggio?», chiedo.
Warren fa spallucce, con aria ingenua. «Non so neanche cosa significa quella parola. Allora, te le puoi procurare quindicimila sterline oppure no?»
«Certo. Nessun problema», dico. Faccio rapidamente due calcoli. Abbiamo del denaro in un conto di risparmio, ma non molto. Con lo scoperto in banca dovrei riuscire ad aggiungere altre cinquemila sterline, e probabilmente potrei prelevare del contante con le carte di credito. «Per quando le servono?»
«Dipende da quanto è urgente il lavoro», risponde.
«Abbastanza», gli dico. «Il punto è che io non devo essere minimamente coinvolto. Un incidente, o roba del genere».
Warren annuisce. «Che tipo di donna è tua moglie?», si informa. «Lavora? Frequenta qualche corso? Ha un hobby?»
«Ehm, non direi», rispondo. «Lavora, ma per il resto non fa granché. Di solito torna a casa tardi, la sera. Perché?».
Lui solleva un sopracciglio.
«Oh», faccio. Cerco di spremermi le meningi per capire come andare avanti. «Quando si può fare?».
Warren sposta il peso sulla gamba sinistra. «Tu quando puoi procurarti il contante?»
«Quando vuole lei», mento. «Al momento mia moglie è in congedo dal lavoro…». Mi interrompo, con la speranza che lui intervenga e prenda le redini di questa situazione. Ogni parola che dico mi sembra imbevuta di veleno.
«Vai alla rosticceria Crazy Chicken, a Northway. È una delle mie attività. Compra qualcosa e di’ che hai una lettera per me. Lascia una busta chiusa con dentro una foto della tua signora. Di’ che ti chiami George e che tornerai per incontrarmi nel giorno in cui vuoi che il lavoro venga portato a termine. Hai capito?»
«Credo di sì», rispondo, cercando di ricordare tutto.
«Vedi di esserne sicuro», ribatte. «Fai la tua parte non appena puoi. Lascia i soldi nel bidone viola che trovi nel vicolo dietro il Crazy Chicken. E mettili in una busta o roba del genere, per amor del cielo. Non ho intenzione di rovistare nella spazzatura a mani nude. Poi chiama subito a questo numero», aggiunge, e mi dà un semplice biglietto da visita che contiene solo un numero e il nome “John”, «da un telefono pubblico. Quando ti rispondono, chiedi di John. Ti diranno che hai sbagliato numero. Metti giù».
«Va bene», dico. Ho il cervello in pappa, ma so fin troppo bene che con ogni probabilità non dimenticherò mai neanche una parola di questa conversazione.
«Mi raccomando, chiama una sola volta. Non fare mai più quel numero, e non usare mai il mio nome. Capito?»
«Capito», rispondo e deglutisco a fatica. Sembra tutto così spaventoso, eppure assurdamente semplice.