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Nick
A meno di un chilometro da dove abitiamo c’è un Internet point, così decido di fare due passi. Credo che riuscirò ad arrivare lì e fare quello che devo prima che chiudano. Anche se la polizia mi ha restituito computer e cellulare, non ho la minima intenzione di portarmeli dietro. Per quel che ne so, magari stanno usando il telefono per tenere traccia dei miei spostamenti, e questo proprio non posso permetterlo. Devo osservare la massima cautela, non voglio destare alcun sospetto.
Mi sento nudo ad andare in giro senza cellulare, ma non posso farci nulla. Resterò fuori casa per un’ora al massimo, se non meno, e se qualcuno me lo chiede dirò che ho scordato di prenderlo con me. Non c’è bisogno che la polizia sappia che, per quanto disorganizzato possa essere in linea di massima, non dimentico quasi mai il cellulare.
In centro c’è una gran quiete e mi va più che bene. Posso starmene nella mia piccola bolla e cercare di decidere cosa scriverò nella email. So cosa voglio dire, in realtà, e so cosa succederà se lo faccio davvero. Ma devo stare attento, devo prendere sul serio i messaggi inviatimi da questa persona che dice di chiamarsi Jen Hood. Soprattutto, però, devo cominciare a indagare con discrezione. Devo scoprire chi è e quali sono le sue motivazioni.
Ed è quest’ultima parte a confondermi, soprattutto. Per rapire un bambino devi davvero odiare i suoi genitori o essere completamente pazzo. A giudicare da quello che Jen Hood mi ha scritto finora, è impossibile stabilire in quale categoria rientri. Posso solo ipotizzare che sia la seconda, perché io non ho nessun vero nemico mortale. Non che io sappia, almeno. Quanto a Tasha, non posso esserne altrettanto sicuro.
Mi sono lambiccato il cervello per capire chi potrebbe avermi fatto uno scherzo del genere. La polizia mi ha chiesto se avevo problemi con qualcuno sul lavoro. Non ne ho. Sono uno scrittore. Non ho motivo di litigare con nessun collega. Mi hanno chiesto se era possibile che fosse coinvolto un qualche mio “rivale”, al che mi sono limitato a una risata. Non esistono rivali, in questo settore. Se un lettore trova due libri che gli piacciono, li comprerà entrambi. Comprerà tutti quelli che vuole avere. E, diciamoci la verità, sin dai tempi di Black Tide pochissime persone hanno comprato i miei. Se davvero c’è uno scrittore che dovrebbe impazzire di invidia per eventuali rivali, quello sono io.
Black Tide ha avuto davvero un gran successo. Ha cavalcato l’onda dell’horror metropolitano di qualche anno fa. La parte finale dell’onda, quanto meno. In realtà l’idea di base era quella che mi piaceva di meno tra le quattro che avevo proposto all’epoca al mio agente. Parlava di una adolescente, in America, che si trasferisce nella casa sulla spiaggia di una sua zia e scopre parti di corpi mutilati portati a riva dalle onde. Piuttosto banale e ben poco originale, ma c’era un gran bel colpo di scena. Arrivò in cima alle classifiche inglesi e americane, e il mio agente e l’editore ci guadagnarono una fortuna. Io un po’ meno. Riuscii a pagare la caparra per la casa e mi regalai un’auto nuova, ma il successo ebbe durata breve.
Un anno dopo pubblicai un altro libro, che stavo spingendo da un po’. Agente e editore erano poco convinti, ma riuscii a convincerli. Tuttavia, non bastò neppure mettere la frase “Dall’autore di Black Tide” sulla copertina e nelle pubblicità, il romanzo fu un fiasco. Ne rimasero diverse copie invendute già alla prima tiratura. Le recensioni lo massacrarono. E così ebbe fine il mio rapporto con quell’editore. Da allora, sono passato per due case editrici minori, che non hanno fatto un cazzo per promuovermi e mi hanno pagato anche meno della prima.
Come carriera per uno scrittore è una vera merda. Ma comunque non credo che potrei mai arrivare a rapire la figlia di un altro autore, neanche in un momento di follia. No, deve trattarsi di qualcosa di più profondo. E di molto più inquietante.
Quando arrivo all’Internet point, pago la mia tariffa oraria e accedo al computer. Apro Internet Explorer, maledicendolo per la sua lentezza (stando ai miei calcoli, solo per avviarsi mi costa circa quaranta penny), poi mi accingo a creare un nuovo account di posta elettronica. Mi serve un indirizzo anonimo e temporaneo da usare per comunicare con Jen Hood. Mi ci collegherò solo dai vari Internet point o da altri posti dove posso restare anonimo.
Scelgo Simon Spencer come nome e accedo. Clicco per far partire un nuovo messaggio e resto a guardare lo schermo per qualche istante prima di cominciare a digitare, parole che scorrono veloci.
Perché sei così ostinata a volere che io uccida mia moglie? Se vuoi vederla morta, perché non te ne occupi tu? A proposito, per quale motivo vuoi che muoia? Cosa può averti mai fatto? Non so chi sei, e non lo voglio sapere. Ellie ha cinque anni. Deve stare coi suoi genitori. Perché ci stai facendo questo?
Anche se lungo il tragitto ho mentalmente pianificato ogni parola del messaggio, ormai è tutto sparito, sostituito da un flusso di coscienza. Le dita battono rumorose sui tasti, a malapena in grado di tenere il passo della mente.
Posso farti avere del denaro. Qualsiasi cosa desideri. Ma non è giusto che tu mi chieda una cosa del genere. Non posso. Perché vuoi che uccida mia moglie, se non per punirmi? Stai cercando di punirmi? Perché? Cosa ti ho fatto? Chi sei?
Ho completato appena un paio di paragrafi, ma sono completamente esausto, nel corpo e nella mente. So che non è perché ho scritto questa email, a sfiancarmi è la fatica di dover elaborare tutti i pensieri e cercare di capire cosa sta succedendo. Sento come una scossa elettrica che mi ronza nel cranio, un misto tra confusione e voci che urlano. È come se dovessi svegliarmi da un momento all’altro e scoprire che questo gran disastro era solo un sogno, ma dentro di me so che non è così.
Senza nessun ripensamento, invio il messaggio.
Mi appoggio allo schienale di questa scomoda sedia di plastica e resto a fissare lo schermo. Malgrado sia seduto e immobile la vista si fa sfocata, il cervello si svuota di ogni pensiero e sensazione. Sento gli occhi pesanti e stanchi. E le membra anche di più. Voglio solo starmene qui e aspettare che vengano a prendermi. Potrei fare qualcosa di stupido e lasciarmi arrestare. Finire in galera. Lontano da tutto questo. Così chiunque si nasconde dietro il nome di Jen Hood capirebbe che non è stata colpa mia. Che non potrei uccidere Tasha neanche se volessi. Che non può costringermi e, in carcere, non può neanche più contattarmi. A quel punto dovrebbe liberare Ellie e trovare un altro poveraccio che faccia il lavoro sporco al posto suo.
In questo momento, non so neanche se il mio ragionamento ha senso. Nello stato in cui mi ritrovo, sembra un piano ineccepibile. Ma mi rendo conto di non essere nelle condizioni mentali adatte a formulare qualsiasi tipologia di piano. So che è esattamente su questo che Jen Hood fa affidamento: mi ha gettato nella confusione e nello sgomento più assoluti nella speranza che compia un atto avventato. Ecco di cosa si tratta. Questa persona non vuole vedere Tasha morta. Vuole che io provi a fare qualcosa di folle e che combini una qualche colossale cazzata, come al mio solito. Perché io faccio solo cazzate. Questa è la verità. Questo è quello che sono. Questo è Nick Connor.
Mi accorgo che sto stringendo sempre più forte i braccioli della sedia. Non abbasso lo sguardo, non stacco gli occhi dallo schermo del computer, ma so che le nocche stanno diventando bianche e la plastica mi affonda nei palmi mentre io continuo a stringere, digrignando i denti, con le vene che iniziano a gonfiarsi sulle tempie.
Poi, all’apice della mia rabbia furente, sento un suono sommesso e sullo schermo appare una linea di testo in nero. La sto guardando ma ho ancora la vista annebbiata, offuscata. Batto le palpebre un paio di volte, le lettere cominciano a diventare più nitide. Riesco a decifrare le parole.
È un’email di risposta, da Jen Hood.
L’istinto mi dice di aprirla subito e scoprire cosa contiene, ma la mente e il corpo sono ancora esausti. Chiamo a raccolta ogni mia energia, sollevo il braccio destro e lascio cadere la mano sul mouse. Sposto il cursore sullo schermo e lo porto sopra la notifica, per poi premere il pulsante del mouse. Sullo schermo compare il messaggio.
Non voglio soldi. Voglio Tasha morta. E voglio che sia tu a farlo. DEVI essere tu. Non ci sono altre opzioni.
Lo guardo per qualche istante, gli occhi ancora vitrei. Chi mi assicura che questa persona mi restituirà Ellie se faccio quello che mi chiede? È chiaramente abbastanza squilibrata da aver rapito una bimba di cinque anni e da chiedere al padre di ucciderne la madre. Come faccio a sapere che non è anche abbastanza folle da togliere la vita a Ellie? Si può essere così pazzi da ammazzare un’innocente bambina di cinque anni? So soltanto che se non faccio quello che mi dice, di certo Ellie non sarà al sicuro. Non nelle mani di questa persona.
Clicco il pulsante di risposta. Molto più lentamente di prima, ma comunque con la massima rapidità che riesco a raggiungere, digito il mio messaggio, consapevole che Jen Hood sta fissando la propria cartella della posta in arrivo.
E se lo facesse qualcun altro? Me ne occuperei io. Se ci provo di persona combinerò una cazzata e verremo entrambi scoperti.
Mi si blocca il respiro in gola quando mi rendo conto di quello che sto scrivendo, ma è su un indirizzo email anonimo e devo poter appurare quali sono le alternative a mia disposizione. Invio il messaggio.
Aspetto per un minuto o due, guardando il conto alla rovescia in un angolo dello schermo che mi dice quanto tempo mi resta. Meno di tre minuti. Dopo qualche secondo, sento di nuovo il segnale acustico dell’arrivo di una risposta.
Fai quello che devi. A me non importa un cazzo di tua figlia. Non te la meriti. Se Tasha non muore, morirà Ellie. Stanne pur certo.
In fondo a questa email, intravedo una riga orizzontale colorata. Ci metto qualche istante per capire che è la parte superiore di una foto. Faccio scorrere verso il basso il messaggio e, lenta ma implacabile, l’immagine prende forma. Sullo sfondo c’è un polveroso muro di mattoni, con ragnatele a smorzarne il colore rosso. E lì, in fondo all’inquadratura, lo sguardo puntato in basso verso qualcosa sul pavimento, c’è Ellie.