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Nick

So a cosa servono in realtà gli appelli pubblici nei casi di persone scomparse. Soprattutto quando si tratta di bambini. La McKenna mi ha detto che contribuiranno a diffondere la notizia, affinché sempre più persone tengano gli occhi aperti o forniscano notizie qualora dovessero aver visto Ellie. Ma sono tutte stronzate. Per gran parte della gente i bambini di cinque anni sono tutti uguali.

C’è solo un vero motivo per lanciare un appello sui media nazionali nel caso di un minore scomparso: è perché hanno un sospettato. E non si tratta di un sospettato qualsiasi, il più delle volte è proprio tra le persone sedute dietro la scrivania per rivolgersi al pubblico.

Per questo, insieme ai genitori, coinvolgono sempre uno zio, un nonno o un amico di famiglia. Vogliono vedere come il sospettato reagirà davanti a una telecamera. Se ci saranno le proverbiali lacrime di coccodrillo. Gli psicologi della polizia sono lì in agguato coi taccuini alla mano, per analizzare ogni battito di palpebre, ogni minimo gesto.

Solo che questa volta, dietro la scrivania, non ci saranno nonni o amici di famiglia. Solo io e Tasha. E so che le quotazioni per il sospettato principale sono tutte a mio favore.

La McKenna ne è consapevole. Sa che me ne sono accorto. Non è stupida. Quando ci ha avvisato dell’appello ai media mi guardava con la concentrazione di un pugile che scruta l’avversario al suono del gong, pronto a cogliere il primo segnale di debolezza. Ovviamente io ho risposto che era una grande idea. Qualsiasi cosa pur di trovare Ellie. Ed ero anche sincero, sebbene mi renda conto che è assai poco probabile che questa iniziativa porti direttamente al ritorno a casa di mia figlia.

Prima di ricevere i messaggi, non avrei avuto grandi preoccupazioni al riguardo. Ora, però, so esattamente cosa mi passerà per la testa durante tutto l’appello. E mi si leggerà in faccia, anche. Non posso evitarlo. E se viene interpretato dagli psicologi come un segno di colpevolezza, sarà la fine. La polizia investirà tutte le sue risorse nelle indagini su di me, nel tentativo di trovare un qualche dettaglio che mi colleghi alla scomparsa di mia figlia. Da un punto di vista meramente egoistico, la cosa non mi tocca affatto, visto che non ho nulla a che fare con questa tragedia. Ma implica che non cercheranno più nei posti giusti, e così il ritrovamento di Ellie sarà ancora meno probabile.

Ormai è troppo tardi per metterli al corrente delle email ricevute da Jen Hood. Se mi fossi rivolto alla polizia sin dall’inizio, ci sarebbe stata una leggera, impalpabile possibilità che gli agenti risalissero a chi le aveva inviate. Ma dal momento che questa persona ha minacciato di uccidere Ellie se faccio una cosa del genere, non ho intenzione di correre il rischio. E ora, considerando quanto tempo è passato, se anche riuscissi a trovare un modo per coinvolgere la polizia senza mettere a repentaglio la vita di Ellie, gli agenti vorrebbero sapere perché non l’ho fatto prima. Esaminate le mie risposte, concluderebbero che ho deciso di assecondare le richieste. Diventerei complice. Potrebbero accusarmi di aver nascosto delle prove? Probabile. Non lo so. Ma so che – per quanto assurdo possa sembrare – Ellie ora come ora è al sicuro, fintanto che chi l’ha rapita crede che farò quello che mi ha chiesto. Questo mi concede del tempo per provare a scoprire chi si cela dietro il nome di Jen Hood, o magari nel frattempo sarà la polizia ad arrivarci per conto proprio.

Il fatto che io sia innocente non basta. Sapere di essere sospettato mi sta uccidendo. Chiunque si sia trovato nella stessa stanza con una persona che ha perso il cellulare o il portafogli sa come ci si sente. Anche se non c’entri niente, tutti penseranno che potresti essere stato comunque tu. È una strana consapevolezza; un senso di colpa che non ha motivi di esistere. Ma di sicuro gli psicologi la capiranno una cosa del genere, no? La parte razionale del cervello che mi suggerisce queste ipotesi è sempre più stanca, logora.

È stato organizzato tutto in fretta e furia, da quel che posso vedere. Ho detto qualcosa del genere alla detective, ma mi ha risposto che era importante agire con la massima tempestività, per massimizzare le possibilità di trovare Ellie sana e salva. «I primi giorni sono i più importanti», mi ha spiegato, come se non lo sapessi già. Ha anche provato ad assicurarmi che hanno già fatto cose del genere più e più volte, e che non ho motivo di preoccuparmi. La parte paranoica del cervello mi dice che agiscono così per mettere pressione ai sospettati. Non lasciano loro il tempo per prepararsi. Li piazzano lì di fronte a un microfono e una telecamera, sotto gli occhi indiscreti di una nazione intera.

Non so neppure se verrà trasmesso in diretta o registrato per i telegiornali della sera. Mi hanno spiegato ben poco, considerando che sono il padre. E questo fa subito salire il mio livello di allarme. Ma so che devo allontanare dalla mente questo genere di considerazioni. In questo momento, sono solo il padre di una bambina rapita. Devo concentrarmi sulla necessità di ritrovare Ellie sana e salva.

La detective apre l’appello presentando sé stessa e Brennan. Sulla parete pieghevole alle nostre spalle campeggia orgoglioso lo stemma in metallo della polizia di contea, e la McKenna si sporge in avanti con grande intensità, le mani giunte come in preghiera.

A disgustarmi è soprattutto il fatto che mi hanno consegnato una dichiarazione preconfezionata. Non ho potuto neanche scrivermela da solo. È una versione che hanno dovuto «elaborare con cautela, parola per parola, per massimizzare le possibilità di successo», mi ha spiegato la McKenna. A me pare più un piano di marketing che l’appello per la sicurezza di una bambina scomparsa, ma sto al gioco. Sono loro a dettare le regole.

Tasha mi guarda e mi prende la mano. Io provo a scrutare tra la folla oltre la scrivania e incrocio lo sguardo di un giornalista. Questi mi fissa a sua volta, solo per un istante, poi torna a concentrarsi sul taccuino, grattandosi un orecchio. Lo sa anche lui. Deve aver assistito a scene del genere un centinaio di volte. Sa come funziona.

Non sto neanche più ascoltando le parole della detective, ma mi accorgo che ha smesso di parlare e che mi sta guardando. Tasha mi dà un colpetto. Batto le palpebre un paio di volte, apro il foglio di carta sulla scrivania davanti a me e comincio a leggere.

«Da quando Ellie è scomparsa, la nostra esistenza è segnata dal dolore», dico, senza sapere bene che tipo di emozioni dovrei infondere nella voce. «La nostra bambina è stata una costante nelle nostre vite per cinque anni, e vogliamo solo che torni a casa da noi, sana e salva. Se sai dove si trova, non abbiamo intenzione di farti alcun male. Rivogliamo solo la nostra bambina». Non abbiamo intenzione di farti alcun male? Io voglio mozzare quella tua testa merdosa. «Ellie, se mi vedi o mi senti, ti prego di’ a qualcuno che stai bene. Non siamo arrabbiati con te, tesoro».

Mi si rompe la voce nel pronunciare le ultime parole. Tasha scoppia a piangere, e subito scattano i flash dei giornalisti. Di sicuro pensano che è la foto perfetta per la prima pagina. Il dolore di due genitori. Perché è questo che cercano, no? Il grande dramma che faccia vendere più copie. Non importa quanto di tutto ciò sia reale.

E, in questo momento, io per primo non so se lo è o meno.

Consolo Tash, mentre in realtà riesco a concentrarmi solo sulle raffiche delle macchine fotografiche. Smarrite in questo baccano meccanico, le parole della McKenna sono come sassolini, lontani e indistinti.

«…se qualcuno ha ulteriori informazioni, ci contatti al numero…».

Chiudo gli occhi e cerco di mandare tutto via.