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Sabato 20 settembre

«Siamo nel posto giusto», disse Grace concisamente, sfogliando le pagine e fissando le foto. «Quel bastardo è qui da qualche parte, dev’essere così. Glenn, controlla tu stesso al piano di sopra: ogni armadio, ogni botola del solaio, guarda sotto ogni cazzo di letto.» Si rivolse poi all’ispettore della squadra di supporto. «Anthony, voglio che la tua squadra ribalti questa casa. Sollevate il pavimento, sventrate ogni muro che suona vuoto. E se dovesse avere altri nascondigli che non conosciamo, qui troveremo qualche indizio. Cosa mi dici dei terreni?»

«Gli uomini sono fuori a ispezionarli, proprio ora.»

«Qualcuno ha trovato un cane? Prima stava abbaiando.»

In tutta risposta, sentirono alcuni latrati di un pastore tedesco, provenienti dall’esterno, nelle vicinanze, mentre cane e conduttore passavano vicino alla finestra, illuminati dai riflettori dell’elicottero.

«Il cane di Crisp. Si chiama Macchia. Il nostro uomo della cinofila l’ha chiuso in un bagno, per sicurezza.»

In una casa tanto grande e con terreni ben più estesi di un acro, c’erano molti possibili nascondigli, Grace se ne rendeva conto. «E se lo lasciassimo andare per vedere se ci porta dal suo padrone?»

«Quando siamo entrati, era lì fermo in cucina», disse Martin. «Sembrava confuso e sconvolto, come se fosse stato abbandonato, credo.»

«Okay. Come si scende nel seminterrato?»

«Ti faccio vedere.»

Grace seguì l’ispettore lungo un corridoio e attraverso un’ampia cucina, moderna e ben attrezzata, con un’isola centrale, un grosso frigorifero in stile americano e un tavolo rustico di legno. Martin indicò una porta aperta dalla quale proveniva una debole luce che illuminava alcuni gradini.

«Ecco qua, Roy. Vuoi che venga giù con te? L’abbiamo già controllato.»

«No, fa’ venire qui una squadra di ricerca e inizia a vivisezionare questo posto. Chiama anche una squadra della Scientifica e, nel frattempo, unisciti agli altri nel controllo del terreno. Se Crisp non è in casa, dev’essere da qualche parte in giardino: nella dépendance, nel capanno degli attrezzi, in garage o sul tetto. È qui, dannazione! Assicurati solo che non ci sfugga da nessuna parte.» Fuori, nonostante il rumore dell’elicottero, sentì il cane della polizia che abbaiava di nuovo, stavolta più forte. Un profondo, regolare guaito, e avvertì una scarica di entusiasmo e speranza. Il cane aveva trovato qualcosa?

Una voce gracchiante sul canale radio della squadra all’esterno fece rapporto: «Solo una maledetta volpe!»

Con i pensieri in subbuglio, una mano attorno a una piccola torcia e l’altra alla ringhiera, Grace scese veloce i ripidi e spogli scalini in legno. Quel farabutto deve essere qui. Deve esserci. In fondo alla scala, entrò in un ripostiglio simile a una caverna, gelido e dal soffitto basso, che sembrava essere stato un tempo una stanza dei giochi per le bambine. Dal soffitto penzolavano lampadine polverose, solo tre delle quali funzionanti, gettando una luce fioca in tutto l’ambiente. Il pavimento era ricoperto da una sottile moquette verde e la carta da parati era scrostata in più punti. C’era odore di stantio, con una punta di umido, come se nessuno mettesse mai piede lì. In totale contrasto con il piano superiore, pensò Grace.

Addossato alla parete più lontana c’era un trampolino elastico e, davanti, un vecchio tavolo da ping pong e un cavallo a dondolo. Un grande dipinto a olio in stile vittoriano, che raffigurava un vaso di calendule, in una brutta cornice elaborata, era appoggiato al bracciolo di un divano sfondato.

Dall’altro lato della stanza, oltre alcune sagome bitorzolute coperte da teli, si apriva una porta, da cui proveniva una luce fioca. Grace raggiunse i teli e ne sollevò uno. Sotto c’erano due vecchie poltrone, su una delle quali era poggiato un paralume con le frange, e un flipper con una ragnatela di crepe sul pannello di vetro. Più avanti si allungava uno stretto corridoio con pareti di mattoni a vista e pavimento in cemento, rischiarato da un’altra lampadina di bassa potenza. Un ammasso di cavi elettrici che sembravano molto vecchi, tenuti insieme da nastro adesivo, correva lungo la parete poco sopra la sua testa.

Grace accese di nuovo la torcia, puntandola verso il pavimento. Cercava un qualsiasi segno di lavori recenti, ma nulla sembrava essere stato toccato da anni. Per un momento rimase immobile, in ascolto di eventuali suoni. Sentì il rombo ovattato di una caldaia e captò un debole puzzo di vino acre. Proseguì con cautela per circa tre metri lungo il passaggio, diretto verso l’area buia che aveva davanti a sé, l’odore di vino che si faceva sempre più forte a ogni passo. Si fermò stupefatto quando raggiunse la fine e fece balenare la torcia tutt’intorno.

Era una cantina di mattoni, ma non somigliava a nessun’altra che avesse mai visto in un’abitazione privata. Per dieci o dodici metri, a destra e a sinistra, si estendevano scaffalature in legno per vini, che arrivavano fino al soffitto, cariche di bottiglie impolverate. Con la mano guantata, Grace ne afferrò cautamente una a caso e la tirò fuori. Era coperta da decenni di polvere e, per leggere cosa c’era stampato sull’etichetta, dovette guardare da molto vicino.

In lettere rosse contornate c’era la parola PETRUS e, sopra, la data 1961. Più in alto si vedeva un disegno in bianco e nero raffigurante un uomo barbuto che a Grace sembrava san Pietro.

Non era un esperto di vini, ma alcuni nomi famosi gli erano noti, perché magari ne aveva sentito parlare ai notiziari. Petrus era uno di quelli. Grace aveva la sensazione che la bottiglia che aveva tra le mani fosse di grande valore, quindi la rimise al suo posto con cautela. Rimase immobile, con l’orecchio teso, poi s’incamminò tra gli scaffali, puntando la torcia al pavimento e studiandolo con attenzione.

Si fermò, aggrottando la fronte.

Le bottiglie sullo scaffale pieno alla sua destra sembravano più pulite delle altre, quantomeno i colli.

Erano state acquistate di recente?

Ne prese una, molto più leggera di quanto si aspettasse. L’etichetta diceva GEVREY-CHAMBERTIN 2002. Sembrava troppo leggera. La illuminò con la torcia. Era vuota. Perplesso, tirò fuori la bottiglia sottostante. Vuota anche quella. Provò con altre della stessa scaffalatura. Erano tutte vuote. Ognuna aveva il tappo perfettamente inserito e il sigillo integro. Lo scaffale ospitava sei bottiglie per ogni fila, per un totale di quarantotto.

Erano esemplari da esposizione? Come in certi ristoranti, dove si vedono in bella mostra bottiglie di vario tipo e dimensioni?

Perché diavolo qualcuno avrebbe dovuto avere un intero scaffale pieno di bottiglie vuote? Per fare scena? Anche in altre sezioni della cantina c’erano bottiglie vuote?

Gli squillò il cellulare. Era Pete Darby. Laggiù il segnale era pessimo e la voce dell’agente di sorveglianza giunse gracchiante e frammentata. «Ho controllato di nuovo con il turno precedente: da là non è entrato né uscito nessuno.»

«Ne sei sicuro?»

«Sì, stavamo sorvegliando la strada, ma la nostra attenzione, come da ordini, era sulla casa dell’obiettivo.» Poi la voce divenne troppo gracchiante perché Grace potesse decifrare le parole. «Traffico... moderato... attraverso...» Silenzio.

Guardò il display del cellulare: Nessun servizio.

Grace rimise in tasca il telefono e tornò a fissare lo scaffale dei vini. C’era qualcosa che non andava. Lo studiò attentamente, facendo passare la luce su ogni fila, poi un debole riflesso attirò la sua attenzione. Quando mosse la torcia, qualcosa brillò di nuovo. Tolse rapidamente alcune bottiglie e a quel punto fu in grado di vedere di cosa si trattava. Una cerniera meccanica.

Provò un improvviso fremito di entusiasmo. Tenendolo con entrambe le mani, tirò lo scaffale delicatamente e, colto di sorpresa, incespicò all’indietro quando venne fuori con facilità e senza fare rumore, scivolando su perni ben oliati. Eppure dietro c’era solo la parete in mattoni.

Proiettò il fascio di luce su tutta la superficie e si accorse che la porzione di mattoni dietro lo scaffale sembrava più nuova e più regolare rispetto ai mattoni ai lati.

Perplesso, fece scorrere la luce su e giù, lungo il giunto verticale dei mattoni sulla destra e vide un’impercettibile e sottilissima fessura. Poi ne notò una orizzontale, a circa un metro e cinquanta di altezza. E ancora un’altra verticale, che scendeva verso il pavimento. Tenendo la torcia in bocca, spinse con forza, prima su un lato e poi sull’altro e, all’improvviso, tutta la porzione di muro scivolò verso l’interno. Avevo ragione, pensò con un brivido. Era una porta di legno nascosta, ricoperta da un rivestimento di mattoni.

Crisp si è dato parecchio da fare per nascondere qualcosa, pensò Grace, abbassandosi e illuminando oltre l’apertura. Era un tunnel breve, grezzo, con montanti di legno e traverse poste a brevi intervalli, che sostenevano le pareti e il soffitto. Il pavimento era rivestito da canapa grezza. Sembrava uscito da un film sulla seconda guerra mondiale, di quelli con i reclusi in fuga da un campo di prigionia tedesco.

Grace si ricordò dei libri di Crisp. Aveva preso l’idea da lì? O magari la tecnica per realizzarlo?

Tirò fuori il cellulare per chiedere rinforzi. Nessun segnale. Sapeva di dover attendere supporto, ma l’adrenalina lo spingeva ad avanzare. Rimise in tasca il telefono e, con prudenza, scandagliò con la torcia lo spazio davanti a sé. Aveva i nervi a fior di pelle. Che diavolo c’era in fondo al tunnel?

Lo illuminò ancora e due minuscoli occhi luccicarono come rubini, a circa tre metri di distanza. Grace aveva sempre sofferto di claustrofobia e da bambino si sentiva a disagio a giocare a nascondino, quando doveva chiudersi in un armadio o in un vecchio baule del solaio di casa. Si ricordò di un caso per il quale aveva dovuto strisciare lungo un canale di scolo per osservare un cadavere e gli ci era voluto tutto il suo coraggio per farlo.

Con la torcia in bocca e ignorando la paura, entrò nel tunnel, tenendo la testa più bassa che poteva. Dinanzi a lui il fascio di luce svanì nella tenebra per un attimo, poi vide brillare di nuovo i piccoli rubini. Quando Grace si avvicinò, il ratto scappò via.

Doveva tornare indietro, lo sapeva, far scendere là sotto la squadra di Martin, ma la curiosità e la determinazione continuavano a spingerlo ad avanzare. Qualcosa di simile a una ragnatela gli sfiorò i capelli e lui ebbe un brivido. Se la levò di dosso e proseguì. Continuavano a passargli per la testa pensieri diversi. Lui e Cleo avevano cambiato casa soltanto il giorno prima, e lui era in quel maledetto tunnel. E che cosa avrebbe trovato in fondo?

L’aria era fredda, ma giungevano a intermittenza strane folate di calore. Il pavimento era accidentato e sassoso sotto il rivestimento di canapa. Ogni volta che Grace cercava di alzare la testa, sbatteva contro il soffitto. Una parte di lui voleva fare dietro-front e inviare una squadra di ricerca. Un’altra parte, però, la voce della fermezza e della determinazione che l’aveva sempre spinto, gli diceva di andare avanti.

Vai avanti.

Alla fine potrebbe esserci Logan Somerville. È possibile che sia ancora viva?

Improvvisamente, il tunnel si aprì in un ampio spazio, immerso nel buio più totale. Grace puntò la torcia al soffitto e vide un’alta volta di mattoni. Raddrizzò la schiena, prese la torcia in mano e indirizzò la luce tutt’intorno, illuminando altri mattoni a vista, in ogni direzione.

Poi, dall’oscurità cavernosa, giunse una voce: cristallina, accento raffinato da scuola privata, leggermente sussiegosa, accompagnata da una debole eco. «Il sovrintendente Roy Grace, suppongo. Molto lieto di conoscerla. La stavamo aspettando.»

Il segno della morte
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