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Venerdì 12 dicembre
Jamie Ball era seduto su un divano, con il computer portatile aperto e un bicchiere di vino rosso in mano. Lo sguardo faceva la spola tra il suo profilo Facebook e la cornice digitale su cui le foto cambiavano di continuo: paesaggi vari, un labradoodle nero dall’aria felice, che era il cane dei genitori di Logan, e una foto scattata alla loro festa di fidanzamento con genitori e fratelli di entrambi, ma la maggior parte ritraeva lui e Logan.
Rabboccò il bicchiere con mano tremante. La stanchezza stava cominciando a farsi sentire sul serio ma, anziché calmarlo, l’alcol sembrava avere l’effetto opposto: lo rendeva sempre più agitato, come fosse stato caffè forte. Sentiva tensione sul cuoio capelluto e Jamie era percorso da fitte di dolore. Aveva gli occhi irritati e secchi e riusciva a malapena a concentrarsi. Inconsciamente faceva tamburellare le dita della mano sinistra sul tavolino.
I suoi genitori l’avevano invitato a dormire da loro, ma lui non voleva ritrovarsi nella loro lugubre casa. I genitori di Logan, il fratello e la sorella, erano sempre stati un po’ freddi e distaccati nei suoi confronti, non tanto da risultare ostili, ma abbastanza da fargli capire che nutrivano dei sospetti. Un paio di amici, preoccupati per lui, l’avevano invitato alla Coach House, in Middle Street, per stare un po’ in compagnia. Era un pub dove era stato tantissime volte con Logan, in tempi più sereni. Ora però preferiva starsene seduto lì, da solo. Non voleva nessuno attorno.
Ricaricò la pagina di Facebook, dove la sera prima sul tardi sotto una fila di fotografie di Logan aveva postato il messaggio: «Vi prego, aiutatemi a ritrovare Logan, la mia bella fidanzata scomparsa». Notò che nell’ultima mezz’ora erano arrivati quindici «mi piace» e sei nuove richieste di amicizia.
«Bene», disse d’un tratto, parlando da solo.
Poi gli squillò il telefono. Afferrò il ricevitore con la mano che tremava così tanto che gli sfuggì e cadde sul parquet. Un pezzetto di plastica si staccò dall’apparecchio e lui s’inginocchiò a raccoglierlo.
«Potrei parlare con il signor James Ball?» Era la voce di un uomo avanti con gli anni, cortese ma piuttosto deciso.
In pochi lo chiamavano James: da che si ricordava era sempre stato Jamie. «Sì, sono io, chi parla?» Aveva già ricevuto telefonate di mitomani: una medium che diceva di aver avuto una visione di Logan nella stiva di una nave carica di legname, un tizio che sosteneva di essere un detective privato e chiedeva mille sterline d’anticipo, ma garantiva di trovarla. Certo, come no.
«Sono lo zio di Logan, mi chiamo Jacob Van Dam. Forse le ha parlato di me?»
«Ah, sì», disse Jamie. «Sì, certo.» In effetti, lei gli aveva parlato in più occasioni di suo zio, lo psichiatra, anche se aveva detto di non vederlo da molti anni. Era il membro famoso della sua famiglia.
«James, ora le farò una domanda piuttosto personale su Logan, ma ho un valido motivo, per cui la prego di portare pazienza.»
Ball corrugò la fronte. Lo strizzacervelli voleva fare qualche giochetto mentale con lui? «Okay», rispose con circospezione.
«Logan ha qualche segno, magari un tatuaggio, in qualche punto del corpo?»
Jamie restò in silenzio per un momento, chiedendosi dove volesse andare a parare. «Un tatuaggio?»
«Sì, un qualche genere di marchio o tatuaggio.»
«No, non ce l’ha.»
«Ne è assolutamente certo? Forse sulla coscia destra?»
«Sì, ne sono sicuro, non ha niente lì.»
«Qualche parola o dei caratteri?»
«No, nulla. Perché me lo chiede, signor Van Dam?»
«Ho un motivo.»
«Non ha tatuaggi. Okay?» La voce insistente dello psichiatra lo stava innervosendo e lo faceva sentire ancora più teso.
«Mi è stato di grande aiuto. Mi dispiace averla disturbata. Grazie.»
La chiamata terminò e Jamie rimase a fissare il ricevitore e i piccoli fori del microfono. Cos’è questa storia?
Jacob Van Dam rimase a lungo seduto alla sua scrivania, in silenzio, assorto. Secondo la sua opinione, la reazione di Ball era stata tipica di chi è sconvolto per la scomparsa della persona amata.
Ciononostante, aveva la sensazione che nascondesse qualcosa. Ma cosa?