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Venerdì 2 gennaio
Grace fissava l’ampia pianura fuori dal finestrino dell’aereo mentre il pilota iniziava l’atterraggio a Francoforte. Era un’impresa assurda, a caccia di un fantasma?
Santo cielo, lo sperava proprio.
Eppure non poteva non prendere in considerazione l’immagine sul suo cellulare.
Poteva trattarsi di Sandy.
Tre identità fasulle?
Multimilionaria?
Aveva un figlio.
Un figlio di quell’età significava che era appena rimasta incinta al momento della scomparsa. Forse nemmeno sapeva di esserlo.
Un figlio che l’anno prima era stato due volte a Brighton insieme alla madre. Una volta, a un matrimonio. Il giorno in cui si erano sposati lui e Cleo?
Un figlio secondo cui quel matrimonio aveva sconvolto la mamma.
Grace ripensò ancora all’incubo avuto prima delle nozze, in cui aveva sognato di vedere Sandy in chiesa. E poi alla cerimonia vera e propria, quando si era voltato per guardare Cleo che percorreva la navata e in fondo alla chiesa aveva notato una strana donna vestita di nero con un bambino.
Possibile? Aveva ragione Marcel?
Era ancora viva ed era tornata a Brighton dopo tutti quegli anni? E, in quel caso, perché? Curiosità?
E se davvero si fosse trattato di lei, come diavolo avrebbe fatto Grace? Come avrebbe potuto affrontare la cosa?
La gamba era guarita al punto che si sentiva pronto a camminare di nuovo, anche se il fisioterapista gli aveva detto di aspettare un po’ prima di correre. Aveva ancora quasi quattro settimane di congedo da trascorrere a casa e, anche se il lavoro gli sarebbe mancato, in una certa misura, non vedeva l’ora di passare del tempo con Cleo e Noah, e di farsi incastrare a rimuovere vernice e carta da parati e rinnovare casa.
Quando l’aereo toccò terra, Grace accese il cellulare e attese il segnale. Non appena fu disponibile, mandò un messaggio a Cleo per avvertirla che era atterrato. Si sentiva in colpa perché, per la prima volta nella loro relazione, le aveva mentito, dicendole di dover fare quel viaggio per via della deposizione di un testimone, fondamentale per un cold case su cui aveva lavorato.
Sul sedile posteriore di un taxi, assorto nei suoi pensieri, notò a malapena il percorso che lo portava in città. Il tassista parlava poco l’inglese e gli aveva rivolto un’occhiata perplessa quando aveva visto l’indirizzo. Quaranta minuti dopo, a mezzogiorno, ora tedesca, il taxi svoltò in una squallida e malandata strada di Francoforte, piena di graffiti sui muri, e Grace capì l’espressione strana del conducente.
Vide il nome della via, Elbestrasse. Tra locali di spogliarelli e sexy shop, superarono numerosi cantieri edili. A sinistra vide una fila di blocchi di calcestruzzo sul marciapiede, dietro una gabbia d’acciaio, e un tubo blu che andava dalla sommità di un edificio fino a un cassone per i rifiuti. Accanto c’era un locale dall’aria vistosa, con il tabellone che annunciava CABARET. PIK-DAME.
A destra superarono la facciata decrepita dell’Hotel Elbe, poi l’Eva’s Bistro e l’Hotel Garni. Il taxi accostò sulla destra e si fermò accanto ad alcune malconce utilitarie parcheggiate per metà sul marciapiede. Il conducente indicò un edificio squallido di quattro piani, di fronte al quale era radunato un gruppo di derelitti, alcuni seduti, altri in piedi, e gli disse qualcosa in tedesco che Grace non capì. Il messaggio però era chiaro. Erano arrivati a destinazione.
Pagò il tassista, salì gli scalini trascinandosi appresso il borsone e suonò il campanello. Poco dopo sentì un ronzio secco, spinse la pesante porta in vetro ed entrò in una piccola reception piastrellata. Dietro un bancone era seduta una giovane dal sorriso cordiale.
«Parla inglese?» chiese Grace.
«Ja, un pochino.»
«Mi chiamo Roy Grace, sono qui per incontrare Wolfgang Barth, mi sta aspettando.»
La donna lo guidò verso alcuni scalini alle sue spalle e lungo un breve corridoio, che conduceva a una porta. «Lo trova al secondo piano.»
Sulla sua sinistra si apriva una finestra attraverso cui poteva guardare più in basso, in una stanza adiacente. La stanza destinata al consumo. Alcune funzionali sedie di plastica erano poggiate contro un tavolo di metallo che correva lungo tre pareti della stanza. Tre sedie erano occupate: due ragazzi, uno dei quali con un cappellino da baseball, e un rugoso uomo barbuto con i capelli lunghi e disordinati, che secondo Grace poteva essere sulla sessantina. Tutti e tre erano curvi sulla loro porzione di tavolo, a prepararsi meticolosamente le dosi. La stanza era sorvegliata da una giovane donna con una fila di cucchiai metallici e siringhe ipodermiche disposta davanti a sé su salviette di carta.
Grace si fermò a osservare, spinto dalla curiosità, poi proseguì. Era lì che era stata Sandy? A drogarsi?
Salì le scale e, mentre raggiungeva il secondo piano, una porta si spalancò e ne uscì un uomo dall’aria amichevole, sui quarantacinque anni, che indossava una camicia a quadri blu e un paio di jeans. I capelli castani lunghi fino alle spalle e i lineamenti marcati e attraenti lo facevano sembrare un cantante rock.
«Sovrintendente Roy Grace?» disse in un perfetto inglese con un raffinato accento tedesco. «Sono Wolfgang Barth.»
Si strinsero la mano e Grace lo seguì in un ufficio ampio e luminoso dai toni crema, arredato con due scrivanie, una mappa aerea della città e numerosi manifesti alle pareti, di cui uno con la grossa scritta CANNABIS.
Si sedettero a un piccolo tavolo da riunione e Barth gli offrì un caffè. Sul tavolo c’era una ciotolina di biscotti al cioccolato, che il tedesco gli porse. «Si serva pure, se ha fame.»
«Sono a posto, grazie.»
«Allora, lei è un ispettore della polizia del Sussex», disse Barth sedendogli di fronte. «Conosce Graham Barrington?»
«Certo, molto bene. Era sovrintendente capo, è andato in pensione da poco.»
Barth fece una faccia perplessa. «In pensione? Così giovane?»
Grace sorrise. «Il nostro sistema funziona così. La maggior parte degli agenti, dopo trent’anni, va in pensione.»
«Due anni fa è stato qui a osservare il nostro lavoro, avrebbe voluto introdurre le nostre modalità operative nella vostra Brighton.»
«Era molto lungimirante. Purtroppo, non credo che i politici del mio Paese siano illuminati quanto i vostri nell’affrontare i problemi legati alle droghe.»
Barth fece spallucce. «Nel 1992 in questa città ci sono state centoquarantasette vittime per droga. Oggi, da quando esistono stanze di consumo tipo questa, sono scese a trenta. E il numero è ancora in calo.» Fece di nuovo spallucce. «Mi dica, allora, come posso aiutarla?»
Grace tirò fuori dalla borsa una busta rigida marrone da cui prese una foto di Sandy prima della sua scomparsa. Gliela porse. «Riconosce questa donna?»
Il tedesco la osservò con attenzione.
«Circa un mese fa, la polizia di Monaco ha fatto circolare la foto di una donna che era stata vittima di un incidente e la cui identità era incerta», proseguì Grace. «Hanno scoperto che utilizzava tre nomi diversi, tre identità alternative. Una di queste è Alessandra Lohmann. La vostra associazione ha detto di conoscerla, perché era stata una frequentatrice abituale della vostra stanza un paio d’anni fa, usando il suo nome, Sandy.»
Wolfgang Barth posò la fotografia e annuì, pensieroso. Poi raggiunse un alto scaffale metallico pieno di faldoni, guardò le copertine, ne estrasse uno e lo aprì. «Sì, Sandy Lohmann», disse. «Era una consumatrice di droga in via di recupero, che voleva dare una mano fornendo servizi di counselling agli altri. Ha fatto la volontaria qui ogni giorno, dal marzo del 2009 fino al dicembre del 2011. Poi, però, ha smesso di venire.» Rimise a posto il faldone e tornò a sedersi.
Grace si sporse in avanti e indicò la fotografia. «Questa è lei?»
Barth la fissò di nuovo per qualche istante, poi guardò Grace e si strinse nelle spalle. «Sa, è molto difficile. Qui passano tante facce. Mi ricordo un po’ di Sandy, ma aveva i capelli rossi e, come dire, si truccava parecchio. È possibile. Era molto magra.» Si fece scorrere le dita lungo il viso. «Emaciata, capisce?»
Grace rimase in silenzio per un po’, quindi prese la foto che gli aveva mandato Marcel Kullen, quella che ritraeva la donna ricoverata in terapia intensiva. «E di questa che mi dice?»
Barth la studiò. «È la stessa donna?»
«Forse. Questa è stata scattata un mese fa.»
Barth la osservò a lungo, prima di alzare gli occhi. «Sa, potrebbe essere, ma non posso dirlo con certezza. È una faccenda importante?»
«Sì, lo è per me», rispose Grace.