25

Venerdì 12 dicembre

Roy Grace fece la rotonda di Lewes Road assorto nei suoi pensieri. Erano circa le undici e un quarto del mattino ed erano passate più o meno diciotto ore da quando Logan Somerville era scomparsa. Se era stata rapita, come Grace temeva, e non era semplicemente andata via di sua iniziativa, le possibilità di trovarla in vita diminuivano di ora in ora. Era la sua lunga e sgradevole esperienza a dirglielo. Tuttavia, Grace era curioso di sapere perché Glenn Branson volesse essere raggiunto con tanta urgenza.

Svoltò a sinistra, superando il cancello in ferro battuto e le colonne di mattoni con la targa nera a caratteri dorati su cui era scritto OBITORIO DI BRIGHTON & HOVE. Nel suo lavoro, il sovrintendente vedeva la morte in faccia di continuo, e mentre la scena del crimine e il luogo di rinvenimento delle vittime fornivano spesso informazioni fondamentali, l’obitorio e gli annessi laboratori di patologia e di analisi del DNA erano diventati sotto molti aspetti il crocevia delle indagini sugli omicidi.

Non gli piaceva indugiare troppo sulla propria mortalità, ma quel luogo lo spingeva sempre a pensarci. A parte i suicidi, erano poche le persone che si aspettavano davvero di finirci. E Grace si domandava anche quanti suicidi avessero davvero desiderato di passare la notte in un frigorifero anziché nel proprio letto. Nel corso degli anni, aveva interrogato molte persone sopravvissute a un tentato suicidio e tante avevano detto a lui e ai suoi colleghi di rallegrarsi di aver fallito e di essere ancora vive.

Era un dato di fatto, corroborato da una recente conversazione avuta con una donna, un sergente della polizia e membro abituale dell’equipaggio dell’elicottero dell’arma, tra i cui compiti c’era il controllo settimanale di pattuglia sulle pendici di Beachy Head. Il punto panoramico, un promontorio di gesso pochi chilometri a est di Brighton, aveva un lato oscuro: con i suoi 161 metri a strapiombo sulle rocce lungo la costa della Manica, mieteva vittime quasi ogni settimana, contendendosi con il Golden Gate in California e con la foresta di Aokigahara in Giappone il dubbio onore di meta più popolare per gli aspiranti suicidi.

Il sergente gli aveva raccontato che parecchi corpi recuperati dalle pendici della scogliera presentavano tracce di gesso sotto le unghie: raccapricciante indizio di un ripensamento durante la caduta.

Ogni morte improvvisa con cui Grace aveva avuto a che fare, che fosse un incidente, un suicidio o un omicidio, lo aveva toccato. La morte è qualcosa che a tutti piace credere capiti solo agli altri, ad altre persone meno fortunate. Sono pochi quelli che vogliono davvero diventare vittime, e quel posto, con la sua tristezza, lo tormentava.

Lui e Sandy non avevano avuto figli. Se lui fosse morto mentre erano insieme, lei se la sarebbe cavata bene, era forte. Anche Cleo se la sarebbe cavata, se fosse successo qualcosa a Grace. La famiglia di lei era benestante e inoltre lui aveva stipulato una polizza sulla vita di cui Cleo e Noah erano i beneficiari. Tuttavia, la nascita recente di suo figlio lo aveva fatto riflettere sulla morte come mai prima d’allora. Cleo sarebbe stata sempre una madre fantastica per il piccolo, ma essendo una donna giovane e bella si sarebbe quasi certamente risposata, prima o poi, e Noah avrebbe avuto un nuovo padre.

Un perfetto estraneo.

Era un pensiero bizzarro, se ne rendeva conto, ma da padre dava valore alla vita come mai aveva fatto in precedenza. Voleva esserci per suo figlio. Voleva essere un buon padre per Noah, proprio come suo padre Jack Grace era stato sempre presente per lui, per prepararlo ad affrontare il mondo. Un mondo bello e prezioso, ma costantemente all’ombra del male.

Pur avendo anche ricordi gradevoli legati all’obitorio, visto che dopotutto era lì che aveva incontrato Cleo, ci si sentiva ancora profondamente a disagio, come accadeva alla maggioranza delle persone, poliziotti compresi. Lì i cancelli erano sempre aperti, ventiquattr’ore su ventiquattro, sempre pronti a ricevere i morti più recenti e anche quelli più antichi, come nel caso delle ossa della sconosciuta di Hove Lagoon.

Grace trovava che l’esterno dell’edificio, simile a una villetta di periferia, fosse in netto contrasto con le sgradevoli mansioni che si svolgevano all’interno. Era una struttura lunga a un solo piano e con intonaco a ghiaietto, sovrastata da una fila di case. Su un lato, il vialetto d’accesso era coperto e abbastanza profondo da ospitare un’ambulanza o un grosso furgone. Sull’altro lato vi era un’ampia finestra dai vetri opacizzati, mentre sul davanti la porta era piccola e dall’aspetto molto casalingo.

Grace superò una fila di automobili parcheggiate accanto a un muro di selce e parcheggiò nel posto auto riservato ai visitatori, poi fece il giro fino alla porta anteriore e suonò il campanello. In assenza di Cleo, rispose Darren Wallace, sostituto responsabile anatomopatologo. Era sui venticinque anni, con capelli a spazzola scuri, alla moda, un camice chirurgico azzurro, un grembiule di plastica verde e un paio di stivali bianchi. Salutò il sovrintendente e lo accompagnò allo spogliatoio.

Mentre indossava il camice, Grace arricciò il naso, tentando di non inspirare l’odore fin troppo familiare del posto, un misto di disinfettanti Jeyes Fluid e Trigene e di corpi umani in decomposizione. Un odore che ti restava addosso a lungo, anche dopo che te n’eri andato. E lo stesso succedeva con la sensazione di freddo causata dall’aria refrigerata. Andò nella sala autopsie, e tutti gli odori divennero più intensi e l’aria si fece ancora più gelida.

La stanza era divisa in due ambienti di lavoro separati da una volta squadrata, con mattonelle grigie alle pareti e fredde luci sull’alto soffitto. Dietro ogni sportello dell’ampia cella frigorifera potevano essere impilati fino a quattro corpi. Gli spazi occupati erano contrassegnati da cartellini marrone chiaro infilati in una cornicetta metallica sullo sportello.

La sistemazione era fredda e funzionale. Grace pensò che non importava se eri un miliardario o un senzatetto: ti ritrovavi gomito a gomito o, meglio, sacco a sacco dentro un vano frigorifero per tutto il tempo necessario al coroner. Ebbe un brivido e cercò di non pensarci. Non ha importanza, se sei morto, no? Hai lasciato il tuo corpo, che ormai è solo un guscio vuoto, un involucro.

Giusto?

Era quello che aveva provato anni addietro nel vedere il corpo di suo padre composto in una camera mortuaria.

C’erano sei tavoli in acciaio e alcune bilance sopra le quali erano affisse tabelle divise in colonne: nome, cervello, polmoni, cuore, fegato, reni, milza. Durante un’autopsia, il peso di ogni organo andava annotato nella rispettiva colonna, a eccezione di casi rari come quello, dove degli organi non rimaneva più nulla.

Tre tavoli erano spogli e luccicanti. Su un altro erano distesi due corpi coperti da teli di plastica bianca: spuntava un piede, con un cartellino marrone appeso all’alluce. Per curiosità, quando gli passò accanto, Grace lesse il nome: Bob Tanner. Qual è la tua storia? si chiese.

Poi con un cenno del capo salutò gli altri, abbigliati come lui. Erano riuniti attorno a un tavolo su cui giaceva uno scheletro sudicio, alcune ossa tenute insieme da tessuti connettivi essiccati e il resto disposto come in un puzzle diligentemente completato.

Fu il cranio ad attirare il suo sguardo: piccolo, con la dentatura regolare, anche se bisognosa di una sbiancata. James Gartrell aveva collocato un righello lungo lo zigomo sinistro e lo stava fotografando. Lì vicino, la figura slanciata di Philip Keay era in piedi a dettare informazioni in un apposito registratore; al suo fianco, Glenn Branson conversava con Deborah Morrison, l’assistente di anatomia patologica. Lucy Sibun studiava un osso della gamba e prendeva appunti.

Nadiuska De Sancha era china sullo scheletro e lo sondava delicatamente con un sottile strumento in acciaio. Splendida donna sulla cinquantina, la patologa aveva zigomi alti, occhi verde chiaro che riuscivano a essere mortalmente seri e un attimo dopo luccicanti di umorismo, e capelli rosso fuoco, raccolti con cura. Aveva un portamento aristocratico, come si confaceva a chi, secondo l’opinione generale, era figlia di un duca russo, e portava sempre un paio di occhialini, dalla montatura spessa, che le davano un’aria parecchio zelante. Si voltò e salutò Grace con un sorriso cordiale. «Grazie di essere venuto, Roy, ci sono un paio di cose che Glenn ritiene tu debba vedere.» Sostituì l’attrezzo con un paio di pinzette prese da un vassoio pieno di strumenti medici, andò verso il cranio e lo studiò per qualche istante, poi pizzicò qualcosa di quasi invisibile e sollevò le pinzette al di sopra dell’osso.

Grace le andò dietro e lo vide: un capello, lungo circa quarantacinque centimetri.

«Potrebbe servire a stabilire la sua identità», spiegò la patologa. «È uno dei pochi capelli rimasti sul cuoio capelluto, ma significa che al momento della morte la vittima aveva capelli castani di questa lunghezza.»

Grace lo fissò, tornando mentalmente alle fotografie di Logan Somerville che aveva visto: i capelli erano simili. E ricordò anche Emma Johnson, scomparsa dalla sua casa a Worthing e riapparsa qualche tempo dopo a Hastings, di cui era stata recentemente denunciata la sparizione. Possibile che ci fosse un collegamento? Sembrava improbabile, ma non impossibile, anche considerando il vuoto temporale. Grace manteneva sempre la mente aperta in qualsiasi indagine. Era facile liquidare un elemento come coincidenza e trascurare una prova potenzialmente cruciale che un giorno avrebbe potuto riaffiorare e ritorcersi contro di te.

«Lucy, hai detto di aver stimato l’età della donna intorno ai vent’anni al momento della morte, giusto?» chiese all’archeologa forense.

Lucy si girò per guardarlo. «Sì, tutto lo fa pensare. E collocherei il decesso a circa trent’anni fa. Vorrei un’analisi del suolo su alcune spore che ho rinvenuto su parte dei resti, perché non mi sembrano provenienti dal suolo sabbioso circostante la laguna. Sembrano tipiche di terreni argillosi, più facilmente rinvenibili nell’entroterra: gran parte del territorio agricolo e boschivo del Sussex è argilloso. Questo mi rende ancora più sicura del fatto che Hove Lagoon non è stata la scena del crimine, ma solo il luogo di deposito. Per averne conferma mi ci vorranno alcuni giorni, forse una o due settimane.»

Grace aggrottò la fronte. «Perché qualcuno avrebbe voluto spostarla dal luogo di sepoltura originario nell’entroterra fino al parco, che è molto frequentato?»

«Forse perché sapevano che stava per essere posato il vialetto, capo», disse Glenn Branson. «E che quindi i resti non sarebbero mai stati ritrovati.»

Grace abbassò lo sguardo sulle ossa, assorto.

«Che ne dici dell’eventualità che il colpevole sia stato uno degli operai della ditta?» aggiunse Branson.

Grace annuì. «Sì, è una possibilità. Stai seguendo questa pista?»

«Certo.»

Grace guardò l’orologio, consapevole di non poter arrivare in ritardo da Pewe. «Avete qualcos’altro per me?»

«Sì, c’è dell’altro», annuì Branson con un sorriso sardonico, scambiandosi un’occhiata quasi cospiratoria con Nadiuska De Sancha, e indicò la parte anteriore del cranio.

La patologa andò al banco di lavoro vicino all’ampia finestra, prese una lente d’ingrandimento e ritornò da loro. «Da’ un’occhiata più da vicino, Roy.»

Scrutando attentamente a occhio nudo la parte frontale del cranio, dove doveva trovarsi la sommità della fronte, Grace riusciva solo a vedere quello che sembrava un segno, largo più o meno cinque centimetri e alto un centimetro e mezzo. Si portò la lente all’occhio. I caratteri erano molto tenui, ma fu in grado di leggere:

 

6 MORTA

 

Si rivolse a Nadiuska De Sancha. «Tatuaggio bizzarro. Forse era una goth, o quel che c’era ai tempi?»

«Non è un tatuaggio, Roy.» Lucy scosse la testa.

«No? E allora cos’è?»

«Secondo me, è stato impresso a fuoco attraverso l’epidermide. Credo che sia stato fatto con un marchio rovente.»

Il segno della morte
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