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Venerdì 19 dicembre
Logan Somerville era in iperventilazione. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Aiuto!» gridò, la voce sempre più roca. Stava urlando da quando si era svegliata, poco prima, nel panico più totale. Non sentiva nessun suono da ore, o forse persino da giorni. Aveva completamente perso il senso del tempo, aveva una fame terribile e un disperato bisogno di bere. I suoi livelli di zucchero stavano calando e, con questo, giungevano tremori e paranoia.
E se?
Nella sua mente prendevano vita troppe sciagurate eventualità.
E se il suo rapitore fosse morto?
O fosse stato arrestato?
O avesse deciso di lasciarla lì a marcire, a morire?
Ricominciò a strattonare le cinghie. Con le braccia. Con le gambe. Niente, solo dolore nei punti in cui sfregavano la pelle.
Se non fosse arrivato nessuno a liberarla, non sarebbe più uscita da quel posto. E lei non voleva morire lì, da sola.
«Polizia! Polizia! Ehi! Aiuto!»
Oh, Dio, ti prego, fa’ che qualcuno mi aiuti.
Vide un tenue bagliore verde.
«Ehi?» disse debolmente. «Per favore, ho bisogno d’acqua, di zucchero. Ti prego.»
Sentì allora la sua voce ovattata. «Oggi per poco non ti facevo uscire di qui! Ma non tutto è andato per il meglio. Non ti preoccupare, ho in mente un’altra persona. Non appena l’avrò portata qui, tu sarai libera! Libera come un uccello!»
«Grazie», rantolò Logan.
«Non c’è di che.»