CAPITOLO SESSANTUNO
Il dottor John Dee studiò il biglietto da visita che aveva in mano. Era di una bellezza straordinaria: inchiostro d’argento impresso a rilievo su una spessa carta ruvida artigianale. Lo girò. Non c’erano nomi, ma solo la rappresentazione stilizzata di un cervo dalle corna spiegate, racchiusa in un doppio cerchio. Sporgendosi in avanti, pigiò il tasto dell’interfono. — Fa’ accomodare il signore; lo vedrò subito.
La porta dell’ufficio si aprì quasi all’istante, e un segretario piuttosto nervoso introdusse un uomo alto e dal viso affilato nella stanza. — Il signor Hunter, signore.
— Non ci sono per nessuno — disse brusco Dee. — Non desidero essere disturbato per nessuna ragione.
— Sì, signore. È tutto, signore?
— È tutto. Di’ ai membri del personale che possono tornare a casa. — Dee aveva insistito affinché tutti si fermassero più del normale orario d’ufficio.
— Sì, signore. Grazie, signore. Sarà qui domani?
L’occhiataccia di Dee mise in fuga il segretario. Il Mago sapeva che l’intero ufficio era sui carboni ardenti per la sua improvvisa comparsa. Si era sparsa la voce che il grande capo avesse intenzione di chiudere il ramo inglese della Enoch Enterprises. Anche se ormai erano le dieci di sera, nessuno si era lamentato degli straordinari.
— Si accomodi, signor Hunter. — Dee indicò la bassa sedia di pelle e metallo che aveva di fronte, e rimase seduto dietro la scrivania di lucido marmo nero, osservando il nuovo arrivato con attenzione.
C’era qualcosa che non tornava in lui, stabilì il Mago. Le proporzioni del viso erano tutte un po’ sbagliate: gli occhi erano leggermente troppo alti e ognuno era di un colore diverso; la bocca era un po’ troppo bassa e larga. Sembrava quasi creato da qualcuno che non vedeva un essere umano da parecchio tempo. Indossava un completo gessato celeste, ma i pantaloni erano un po’ troppo corti e mostravano un lampo di pelle candida proprio al di sopra dei calzini neri, mentre le maniche della giacca terminavano poco sopra le nocche delle mani. Le scarpe erano sudicie, rivestite di uno spesso strato di fango.
Hunter si piegò nella sedia, con movimenti goffi e rigidi, come se non fosse del tutto certo di cosa fare con le braccia e con le gambe.
Dee sfiorò Excalibur con le dita: la spada era appoggiata sotto la scrivania. Conosceva una mezza dozzina di incantesimi, ognuno dei quali era pensato per sovraccaricare un’aura e costringerla a divampare. Poi l’unico problema sarebbe stato ripulire il tappeto dalla polvere. Probabilmente la sedia si sarebbe fusa. — Come faceva a sapere che ero qui? — chiese. — Vengo di rado in questo ufficio. Ed è un po’ tardi per un appuntamento.
L’uomo alto e pallido cercò di sorridere, ma piegò soltanto le labbra in modo strano. — Il mio superiore sapeva che lei era in città. Ha supposto che sarebbe venuto in questo ufficio, dal momento che le dà accesso alla sua rete di comunicazioni. — L’uomo parlava un inglese perfetto, ma con una voce leggermente acuta che faceva suonare tutto piuttosto ridicolo.
— Non può parlare chiaro? — sbottò Dee. Era stanco e non aveva più molto tempo.
Nonostante le ore di blocchi stradali e gli innumerevoli posti di controllo della polizia, non c’era ancora traccia di Flamel e dei ragazzi. Il governo inglese stava subendo molte pressioni per la rimozione dei posti di controllo. Tutte le strade che entravano e uscivano da Londra erano ancora bloccate, e la capitale era paralizzata.
— Lei ha incontrato il mio superiore ieri sera tardi — disse Hunter. — L’incontro è terminato prima di giungere a una conclusione soddisfacente, per circostanze del tutto al di fuori del suo controllo.
Il Mago si alzò e si portò davanti alla scrivania. Impugnava Excalibur nella mano destra, battendo delicatamente la lama sul palmo della sinistra. L’uomo seduto non mostrò alcuna reazione. — Che cosa sei? — domandò Dee, curioso. Era giunto alla conclusione che quella creatura non era del tutto naturale, e probabilmente nemmeno umana. Chinandosi su un ginocchio, lo fissò in volto, scrutando gli occhi male assortiti. — Sei un tulpa, un Golem, un simulacro o un omuncolo?
— Sono una forma-pensiero — disse Hunter, e sorrise. La bocca era piena di denti di cervo. — Creata da Cernunnos.
Dee si ritrasse non appena la figura cominciò a mutare. Il corpo rimase quello di un uomo alto e malvestito, ma la testa si alterò, diventando aliena eppure bellissima, nonostante le due grandi corna che spuntarono sulle tempie. La bocca del Dio Cornuto si mosse in un impercettibile sorriso e le pupille orizzontali dei suoi occhi si dilatarono e si contrassero. — Chiudi la porta, dottore; non vorrai che qualcuno entri proprio adesso.
Tenendosi alla larga dalla creatura, con Excalibur spianata di fronte a sé, Dee fece un ampio giro e fece scattare la serratura della porta.
Cernunnos aveva appena compiuto un’impresa notevole: tramite l’immaginazione e la forza di volontà, aveva creato un essere dalla sua aura. La creazione non era perfetta, ma era abbastanza buona. Dee sapeva che gli homines non si guardavano più davvero l’un l’altro, e anche se qualcuno aveva notato qualcosa di strano nell’aspetto dell’uomo, sicuramente aveva distolto lo sguardo, imbarazzato.
— Sono colpito — disse il Mago. — Suppongo che tu stia controllando la forma-pensiero da una certa distanza…
— Da più lontano di quanto ti immagini.
— Ero giunto alla conclusione che tu non avessi conoscenze magiche — ammise Dee, tornando alla scrivania. Il bel biglietto da visita d’argento stava lentamente evaporando, e i riccioli di fumo bianco venivano assorbiti dall’uomo con le corna di cervo.
— Non è magia, ma solo tecnologia degli Arconti — replicò Cernunnos. — Anche se la differenza non si vede.
— Immagino che tu sia qui per una ragione — disse Dee. — E non solo per dimostrare questa… questa tecnologia.
L’uomo cervo annuì, sorridendo. — So dove sono Flamel, Gilgamesh, Palamede e i gemelli.
— In questo istante?
— In questo istante — confermò la creatura. — Sono a un’ora da qui.
— Dimmelo — ribatté subito Dee, poi aggiunse: — Per favore.
L’Arconte alzò la mano destra. Dee notò che aveva un dito di troppo. — Le mie condizioni restano le stesse, Mago. Voglio Flamel, Gilgamesh e Palamede vivi. E voglio Clarent.
— D’accordo — rispose Dee, senza esitazione. — Sono tuoi. Dimmi soltanto dove sono.
— E voglio Excalibur.
In quel momento il Mago gli avrebbe promesso qualunque cosa. — Affare fatto. La metterò io stesso nelle tue mani, non appena Flamel sarà morto. Quanti altri sono con lui? — chiese, ansioso.
— Nessuno.
— E i Segugi di Gabriel?
— I cani spettrali e il loro padrone, il Bardo, sono svaniti. L’Alchimista, il Cavaliere e il Re sono con i gemelli.
— Come hai fatto a trovarli? — domandò Dee. Doveva ammettere di essere impressionato. — Ho cercato dappertutto.
La creatura stava mutando di nuovo mentre si alzava. Le corna si ritrassero nel cranio. In modo piuttosto inquietante, comparvero una testa e un volto leggermente diversi dai precedenti. — Sono tornato nella loro fortezza di metallo, e poi ho soltanto seguito il loro ordore.
— Li hai rintracciati per la città attraverso l’odore? — Dee la trovava un’impresa perfino più stupefacente della forma-pensiero. Trattenne un sorriso all’immagine improvvisa del Dio Cornuto che correva a quattro zampe nel traffico, inseguendo a fiuto una macchina.
— Tecnologia degli Arconti. Niente di più semplice — disse la forma-pensiero. — Ora, se vuoi accompagnarmi, mi adopererò perché…
— La forma-pensiero è impressionante — commentò il Mago. — Ma se hai intenzione di passare per un figlio degli homines, devi lavorare seriamente sulla voce. E sui vestiti.
— Non ha alcuna importanza — replicò la creatura. — Presto gli homines non esisteranno più.