CAPITOLO DIECI
Il deposito di rottami era un labirinto.
Altissimi canyon di metallo arrugginito, con lo spazio appena sufficiente per il passaggio delle auto, si stendevano dall’ingresso in ogni direzione. Una massiccia barriera di centinaia di copertoni vi sporgeva precariamente sopra, a mo’ di tettoia. C’era un muro fatto interamente di sportelli d’auto, un altro di cofani e bagagliai. Blocchi motore sporchi di nafta e di lubrificante erano impilati in una torre accanto a un cumulo di tubi di scappamento che qualcuno aveva conficcato nel terreno, come una sorta di scultura astratta. Palamede si addentrò lentamente con il taxi nero in quel dedalo colossale di carcasse.
Sophie ormai era del tutto sveglia. Sedeva sul bordo del sedile e guardava fuori dal finestrino, con gli occhi spalancati: a suo modo, il deposito di rottami era straordinario quanto il Regno d’Ombra di Ecate. Nonostante l’aspetto caotico, la ragazza intuì che probabilmente quel luogo aveva un suo disegno. Intravide un guizzo alla sua destra e si voltò di scatto, cogliendo un rapido movimento tra le tenebre. Si stava girando di nuovo quando scorse un’ombra muoversi e scomparire in un lampo. Delle creature li seguivano. Nonostante i sensi amplificati, tuttavia, non riusciva a inquadrare chi fossero, anche se aveva l’impressione che camminassero erette, come esseri umani. — Siamo in un Regno d’Ombra? — chiese.
Accanto a lei Flamel si mosse e si svegliò. — Non ci sono Regni d’Ombra nel centro di Londra — borbottò. — I Regni d’Ombra esistono solo ai margini delle città.
Sophie annuì: lo sapeva, naturalmente.
Palamede imboccò una stretta svolta a sinistra e si infilò in un passaggio ancora più stretto. Le pareti di rottami erano talmente vicine da graffiare quasi gli sportelli dell’auto. — Non siamo più nel centro della città, Alchimista — disse con la sua voce bassa e profonda. — Siamo nei sobborghi malfamati, più o meno. E poi ti sbagli: conosco Antichi Signori che hanno dei piccoli Regni d’Ombra nel cuore della città, e ci sono ingressi ad almeno altri tre regni di cui conosco l’esistenza, incluso il più noto, proprio nella Torre di Londra, nel fosso della Porta dei Traditori.
Josh allungò il collo per scrutare la cima di quelle altissime mura di metallo. — È come un… — Si fermò. Da qualche parte in un angolo del suo cervello, il complesso disegno di quel posto assunse un ordine, e all’improvviso capì che cosa aveva davanti. — È un castello — bisbigliò. — Un castello fatto di rottami e carcasse d’auto.
La risata sguaiata di Palamede fece sussultare i gemelli. — Ah, sono davvero colpito! Non sono molte le persone vive in questo secolo capaci di riconoscerlo. Il disegno di questo posto si basa su un progetto creato dal grande Sébastien Le Prestre de Vauban in persona.
— Sembra il nome di un vino — mormorò Josh, ancora incantato dalla sua scoperta.
— L’ho incontrato una volta — disse Flamel, in tono assente. — Era un famoso ingegnere militare francese. — Si voltò a guardare dal lunotto posteriore. — Io vedo solo un mucchio di rottami ammassati.
Sophie guardò il fratello, incuriosita: come aveva fatto a capire che quel guazzabuglio in realtà era un castello? Ma poi, scrutando la cima di quelle pareti di macchine, il disegno che prima aveva soltanto intuito assunse un ordine; riuscì a vedere la sagoma del castello, le merlature, le torri e gli anfratti da cui i difensori potevano fare fuoco contro qualsiasi aggressore. E dietro uno di quegli anfratti qualcosa si mosse, per poi svanire in un lampo.
— Nel corso degli anni abbiamo ammassato le auto come le mura di un castello — continuò Palamede. — I costruttori dei castelli medievali se ne intendevano di tecniche di difesa, e Vauban riunì tutte quelle conoscenze per creare le difese più forti del mondo. Poi abbiamo preso il meglio di tutte le fogge. Ci sono bastioni e baluardi, diversi ordini di mura esterne e uno interno, un barbacane, torri e torrioni. Questo passaggio così stretto è l’unico ingresso, ed è progettato in modo da essere facilmente difendibile. — Il Cavaliere saraceno indicò i rottami. — E tra i diversi ordini di mura troverete ogni genere di trappola.
La macchina vibrò al contatto con una superficie di metallo. I gemelli si accostarono ai finestrini e guardarono giù, scoprendo che stavano attraversando un ponte di stretti tubi metallici, sospeso sopra un denso liquido nero e gorgogliante.
— Il fossato — disse Josh.
— La nostra versione moderna di fossato — confermò Palamede. — Pieno di nafta anziché di acqua. È più profondo di come sembra ed è irto di lance. Se qualcosa ci finisce dentro… be’, diciamo solo che non riuscirà a tornarne fuori. E naturalmente, noi possiamo sempre dargli fuoco con una semplice scintilla.
— Noi? — chiese Josh, con un’occhiata alla sorella.
— Noi — ribadì il Cavaliere.
— Ci sono altri come lei, qui dentro?
— Non sono solo — confermò Palamede con un rapido sorriso, i denti candidi sulla pelle scura.
Continuarono ad avanzare, passato il ponte. L’ennesima stradina curvò e si interruppe di fronte a un muro di metallo massiccio fatto di carcasse appiattite, incrostato di ruggine color sangue. Palamede rallentò, ma senza fermarsi. Pigiò un pulsante sul cruscotto e il muro tremò, per poi scivolare silenziosamente di lato e aprire un varco appena sufficiente al passaggio dell’auto. Una volta entrati, il muro tornò a chiudersi nella stessa maniera.
Oltre quella porta massiccia c’era un ampio spiazzo di terra smossa e fangosa, cosparso di pozzanghere. Al centro di quel mare di fango c’era una lunga baracca rettangolare di metallo, sostenuta da blocchi di cemento armato. La baracca era sudicia e fatiscente, con le finestre coperte di rete metallica, e le macchie di ruggine che chiazzavano le pareti gli davano un aspetto malato. Rotoli di filo spinato correvano lungo i bordi del tetto. Due bandiere macilente – la Union Jack britannica e il vessillo del Galles, un dragone rosso in campo verde e bianco – sventolavano su pennoni leggermente storti. Avevano entrambe bisogno di una buona lavata.
Sophie si morse l’interno della guancia per mantenere un’espressione composta. — Mi aspettavo qualcosa…
— … di più bello? — finì Josh.
I gemelli si scambiarono il cinque.
— Sì, di più bello — confermò Sophie. — Mi sembra piuttosto squallido.
Josh notò un branco di cani randagi acquattati nella penombra, sotto la baracca. Erano dello stesso colore e della stessa razza del grosso levriero che aveva visto poco prima, solo che erano più piccoli e il pelo bigio era opaco e maculato. Intravide una scintilla di luce scarlatta e strinse le palpebre per guardare meglio: avevano gli occhi rossi?
Nicholas Flamel drizzò la schiena. Sbadigliò e si stiracchiò, guardandosi intorno, quindi borbottò: — Perché tutte queste precauzioni, Palamede? Di che cosa hai paura?
— Non puoi neanche immaginarlo.
— Dimmelo tu. — Nicholas si strofinò la faccia e si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia. — Stiamo dalla stessa parte, dopotutto.
— No, invece — si affrettò a contraddirlo Palamede. — Avremo anche gli stessi nemici, ma non stiamo dalla stessa parte. I nostri scopi sono molto diversi.
— E come potrebbero? — replicò l’Alchimista. — Combattete anche voi contro gli Oscuri Signori.
— Solo quando dobbiamo. Tu cerchi di impedire che gli Oscuri Signori ritornino in questo mondo, mentre io e i miei fratelli cavalieri ci addentriamo nei Regni d’Ombra e recuperiamo gli umani che vi sono rimasti intrappolati.
Josh guardò prima Flamel e poi Palamede, confuso. — Quali fratelli cavalieri? — domandò.
Flamel trasse un respiro profondo. — Penso che Palamede si riferisca ai Cavalieri Verdi.
Palamede annuì. — Esatto.
— Ho sentito delle voci… — mormorò l’Alchimista.
— Quelle voci sono vere — tagliò corto il Cavaliere saraceno. Accostò la macchina accanto alla lunga baracca metallica e spense il motore. — Non mettete i piedi nelle pozzanghere — avvertì aprendo lo sportello. — Non credo vi piacerebbe fare la conoscenza di ciò che ci vive dentro.
Sophie scese per prima, strizzando forte le palpebre al sole del tardo pomeriggio, nonostante gli occhiali. Si sentiva gli occhi rossi e infiammati, e avvertiva un formicolio secco in fondo alla gola. Si chiese se non stesse per ammalarsi. Anche se stava cercando disperatamente di non pensare a Palamede, alcuni dei ricordi della Strega di Endor si erano infiltrati nei suoi, e si rese conto che nemmeno lei sapeva molto sul suo conto. Era un immortale dotato della speciale capacità di spostarsi liberamente all’interno dei Regni d’Ombra, senza pagarne le conseguenze. Erano pochi quelli che riuscivano a fare ritorno dai mondi artificiali degli Antichi Signori, una volta entrati. La storia dell’umanità – antica e moderna – era piena di persone scomparse. E quei pochissimi che erano tornati, o che erano stati riportati indietro, spesso scoprivano che sulla Terra erano trascorsi centinaia di anni, sebbene per loro fossero passate solo poche notti. Molti di quelli che ritornavano perdevano la ragione, o giungevano a credere che il Regno d’Ombra fosse il mondo reale e che la Terra non fosse altro che un sogno. Passavano il resto della vita a cercare di tornare in quello che consideravano il mondo reale.
— Stai di nuovo pensando. — Josh la tirò per il gomito, distraendola.
Sophie sorrise. — Io penso sempre.
— Volevo dire che stavi pensando a quella roba a cui non dovresti pensare. Alla roba della Strega.
— Come fai a dirlo?
Il sorriso di Josh si incupì. — Per un istante, un brevissimo istante, le tue pupille sono diventate d’argento. Da paura.
Sophie strinse le braccia intorno al corpo e rabbrividì. Scrutò i muri di rottami che aveva intorno e che circondavano la baracca chiazzata di ruggine. — Questo posto è desolato, non trovi? Pensavo che gli Antichi Signori e gli immortali abitassero tutti in lussuosi palazzi.
Josh ruotò su se stesso per guardarsi intorno, ma quando tornò a guardare la sorella aveva un sorriso stampato in faccia. — Secondo me, è forte. È come un castello di metallo. E sembra anche incredibilmente sicuro. È impossibile avvicinarsi senza allertare le guardie.
— Ho intravisto qualcosa che si muoveva mentre attraversavamo il labirinto — disse Sophie.
Josh annuì. — Prima, Palamede mi ha detto che tutte le case delle strade qui intorno sono vuote. Sono tutte di sua proprietà. Ha detto che ci abitano delle cose chiamate larve e lemuri.
— Sentinelle.
— Ho visto un cane enorme… — Josh indicò con un cenno il branco accucciato e immobile sotto la baracca. — Era come quelli, solo più grande e più pulito. Sembrava che stesse pattugliando le strade. E poi hai visto le misure difensive — aggiunse, eccitato. — C’è un unico ingresso molto sorvegliato che incanala tutti in un passaggio stretto. Perciò, qualunque siano le dimensioni dell’esercito aggressore, gli eventuali attacchi possono essere condotti solo con due o tre soldati alla volta. E il nemico è comunque vulnerabile dall’alto, per via delle merlature.
Sophie strinse forte il braccio del fratello. — Josh, smettila — disse brusca, con gli occhi azzurri sgranati per la preoccupazione. Non lo aveva mai sentito parlare in quel modo. — Come mai conosci tutte queste cose sui castelli e sulle misure difensive? — La sua voce si spense, e lo spettro di un’idea inquietante balenò in un angolo del suo cervello.
— Non lo so — ammise Josh. — È solo che… lo so… e basta. Proprio come a Parigi: sapevo che Dee e Machiavelli dovevano trovarsi molto in alto per controllare i gargoyle. E anche prima, oggi, quando quelle tre creature stavano per attaccarci…
— I Genii Cucullati — mormorò Sophie in tono assente voltandosi a guardare Flamel, che scendeva con movimenti rigidi dal taxi. Quando lo vide chinarsi a prendere lo zaino di Josh, notò che le nocche delle sue mani erano leggermente gonfie. Zia Agnes, a San Francisco, soffriva di artrite, e anche lei aveva le nocche gonfie. L’Alchimista stava invecchiando in fretta.
— Sì, loro. Ho capito dal loro linguaggio corporeo che si stavano disponendo in formazione d’attacco. Sapevo che quello al centro ci avrebbe assaliti per primo, in un attacco frontale, mentre gli altri due avrebbero provato ad aggredirci di lato. Sapevo che, se fossi riuscito a fermare lui, gli altri si sarebbero distratti e avremmo avuto un’opportunità di fuga. — Josh si fermò di botto, rendendosi conto di quello che stava dicendo. — Come facevo a saperlo? — si chiese ad alta voce.
— Marte! — bisbigliò Sophie. Poi annuì. — Deve venire per forza dal Dio della Guerra. — La ragazza rabbrividì. Lei e suo fratello stavano cambiando. Poi scosse appena la testa: erano già cambiati.
— Marte. Io mi… mi ricordo — bisbigliò Josh. — Quando mi ha risvegliato, ha detto qualcosa a proposito di un dono che avrei trovato utile nei giorni a venire. E poi ha posato la mano sopra la mia testa e ho avvertito un calore incredibile per tutto il corpo. — Guardò la gemella. — Che cosa mi ha dato? Non ho dei ricordi strani come quelli che ti ha passato la Strega.
— Ringrazia il cielo — replicò Sophie. — La Strega conosceva Marte e lo disprezzava. Immagino che la maggior parte dei suoi ricordi fossero tremendi. Josh… io penso che ti abbia passato le sue conoscenze militari.
— Mi ha reso un guerriero? — Anche se era un pensiero inquietante, Josh non riuscì a trattenere una nota di contentezza nella voce.
— Forse perfino qualcosa di meglio — ribatté Sophie, con voce lieve e distante e un lampo d’argento negli occhi. — Penso che ti abbia reso uno stratega.
— Ed è una cosa buona? — Josh sembrava deluso.
Sophie annuì. — Le battaglie le vincono gli uomini. Ma le guerre le vincono gli strateghi.
— Chi l’ha detto? — domandò Josh, sorpreso.
— Marte — rispose Sophie, scrollando la testa per scacciare l’improvviso flusso di ricordi. — Non capisci? Marte era lo stratega per eccellenza; non ha mai perso una battaglia. È un dono stupefacente.
— Ma perché lo ha dato proprio a me? — replicò Josh, formulando la domanda che sua sorella aveva in mente.
Prima che Sophie potesse rispondere, la porta della baracca si aprì all’improvviso e una figura vestita con una sudicia tuta da meccanico scese affannata le scale. Mingherlino, con le spalle cadenti e una lunga faccia ovale, l’uomo scrutò il taxi sbattendo gli occhi miopi. Aveva dei radi baffetti, e anche se il cocuzzolo della testa era calvo, i capelli sopra le orecchie e sulla nuca erano lunghi e gli scendevano sulle spalle.
— Palamede? — sbottò, chiaramente irritato. — Che significa tutto questo? — Parlava pronunciando distintamente ogni parola. Non appena vide i gemelli, si fermò. Tirò fuori un paio di grossi occhiali con la montatura nera da una delle tasche superiori della tuta e se li infilò. — Chi sono queste persone? — E poi si voltò, mettendo a fuoco Nicholas Flamel nello stesso istante in cui l’Alchimista scorgeva lui.
I due uomini reagirono in contemporanea.
— Flamel! — strillò l’ometto. Quindi girò sui tacchi e sfrecciò verso la baracca, incespicando e cadendo sulle scale.
Nicholas ringhiò qualcosa in francese arcaico, aprì con uno strattone lo zaino di Josh ed estrasse Clarent dal tubo di cartone. Tenendola stretta con entrambe le mani, la fece roteare sopra la testa, con il filo della lama che gemeva e vibrava cupo nell’aria. — Scappate — gridò ai gemelli. — Correte più forte che potete! È una trappola!