CAPITOLO QUINDICI
Nelle catacombe scavate nelle profondità di Parigi, il dottor John Dee si spolverò la manica della giacca in un gesto schizzinoso, si raddrizzò i polsini e si sistemò il cravattino. Schioccò le dita, e una sfera giallo sulfureo apparve dondolando ad altezza d’uomo. La sfera puzzava di uova marce, ma era un odore così familiare che Dee non ci faceva più caso. Una luce giallo sporco inondò due colonne arcuate fatte di ossa e plasmate a mo’ di soglia. Al di là di esse, il buio più assoluto.
Dee entrò ad affrontare un dio congelato.
Nella sua lunga vita, aveva sperimentato meraviglie. Era giunto ad accettare lo straordinario come ordinario, lo strano e il meraviglioso come normale. Aveva visto le leggende delle Mille e una notte diventare realtà, combattuto mostri tratti dai miti greci e babilonesi, attraversato regni che tutti ritenevano menzogne create dalla fantasia di Marco Polo e Ibn Battuta. Sapeva che i miti dei Celti e dei Romani, dei Galli e dei Mongoli, dei Rus’, dei Vichinghi e dei Maya non erano soltanto storie, ma si basavano sulla realtà. Gli dei della Grecia e dell’Egitto, gli spiriti delle pianure americane, i totem della giungla e i giapponesi Myo-o un tempo erano vissuti davvero. Ormai erano ricordati come poco più che frammenti di miti e brandelli di leggende, ma John Dee sapeva che avevano abitato questo mondo. Facevano parte di un’Antica Razza che aveva dominato il pianeta per millenni.
Uno dei più grandi membri di quell’Antica Razza era Marte… e, meno di ventiquattrore prima, Dee lo aveva rinchiuso in una tomba d’avorio massiccio.
Il Mago entrò in una vasta sala circolare col soffitto basso, e la luce fluttuante tinse tutto del colore pallido e giallastro del burro. Si guardò intorno. Anche se era a conoscenza di quel rifugio da decenni, non aveva mai avuto motivo di avventurarsi laggiù per affrontare il Dio Addormentato, e il giorno prima era accaduto tutto così in fretta che non aveva avuto l’occasione di studiare attentamente il sepolcro. Fece scorrere la mano su una sezione di muro levigato accanto alla porta, e lo scienziato che era in lui riconobbe i materiali: fibra di collagene e fosfato di calcio. Le pareti non erano di pietra: erano di osso. Dee individuò due profonde rientranze nel muro opposto. Nello spazio tra le due, più in basso, c’erano altre due insenature, e all’improvviso capì dove si trovava: quelli che stava guardando erano degli occhi e un naso. La sala non era stata scavata in un singolo pezzo d’avorio, come aveva pensato; in realtà si trovava all’interno di un enorme teschio. Un teschio che, notò con orrore, sembrava quasi umano.
Dee fu scosso da un brivido lungo la schiena; non li aveva mai incontrati, ma aveva sentito parlare di Regni d’Ombra abitati da giganti cannibali. Il giorno prima, le pareti erano lisce e levigate; in quel momento invece somigliavano a una candela lasciata troppo vicina al fuoco. Stalattiti d’avorio colavano giù dal soffitto come caramello appiccicoso; grosse bolle erano state colte e congelate nell’istante in cui stavano per scoppiare; rivoli e ruscelletti di liquido denso si arricciolavano in volute elaborate.
Al centro della sala c’era un lungo plinto rettangolare, spruzzato e chiazzato di gocce simili a cera gialla. L’antica lastra di pietra era spaccata in due.
E sul pavimento accanto al plinto c’era una statua grigia parzialmente incastonata nel giallo. Ritraeva un gigantesco uomo a carponi, colto nel tentativo di rialzarsi. La figura era vestita come un guerriero, con un’antica armatura di cuoio e metallo, il braccio sinistro alzato e le dita spalancate, mentre il braccio destro era sepolto in terra fino al polso. Anche il corpo, dalla vita in giù, era inghiottito nel pavimento. Sulla schiena della statua, due orrende creature grandi come bambini erano rimaste immobilizzate nell’atto di balzare in avanti sugli zoccoli caprini. Erano magrissime, con le costole e le ossa sporgenti, le bocche spalancate che rivelavano le fauci frastagliate e le mani tese che terminavano in artigli acuminati.
Raccogliendo le falde del cappotto e tirandosi su i pantaloni per impedirgli di toccare terra, Dee si accovacciò per studiare la statua più da vicino. Sembrava un’opera tratta da un museo, una scultura classica di Michelangelo o Bernini: Phobos e Deimos sulla schiena di Marte Ultore. Il Mago spostò la mano, e la sfera di luce fluttuò sopra la testa dei satiri. I particolari erano incredibili; ogni singolo capello si era conservato, e c’era ancora della bava sul mento. Uno dei due – Phobos, pensò Dee – aveva perfino un’unghia rotta. Ma quelle non erano statue: il giorno prima erano creature vive e feroci, e Marte gliele aveva scagliate contro. I satiri si nutrivano di panico e paura… e nel corso dei secoli Dee aveva imparato che c’erano molte cose di cui avere paura. La consapevolezza di ciò che gli Antichi Signori potevano fargli gli procurava sempre delle strette di nausea allo stomaco. Phobos e Deimos avrebbero banchettato per mesi.
Il Mago si sporse in avanti per studiare l’elmo che ricopriva interamente la testa di Marte. Sotto il rivestimento giallo dell’avorio indurito la pietra grigia era ancora visibile. Scintillava come granito, ma non era una pietra naturale. Per un solo istante, Dee provò qualcosa di simile alla pietà. La Strega di Endor aveva fatto in modo che l’aura dell’Oscuro Signore diventasse visibile e si indurisse come una pietra intorno al suo corpo, intrappolandolo in una pesantissima crosta. Se il dio se la fosse scrollata di dosso, l’aura sarebbe ricomparsa ribollendo come lava e si sarebbe indurita di nuovo all’istante. Marte, che un tempo viveva nel mondo ed era adorato come divinità in una dozzina di nazioni sotto nomi diversi, era rimasto praticamente immobile per millenni.
Dee si ritrovò a chiedersi quale crimine avesse commesso il dio della guerra per offendere la Strega al punto da condannarlo a quella non-morte interminabile. Doveva essere qualcosa di orrendo. Poi le labbra del Mago si incurvarono in un sorriso. Tese la mano e bussò con le nocche sull’elmo. Il suono riecheggiò piatto e opaco nella sala avvolta nell’avorio. — So che puoi sentirmi — disse in tono affabile. — Stavo solo pensando a quanto tutto questo sembri proprio il tuo destino — continuò. — Prima la Strega ti ha intrappolato nella tua stessa aura, e poi io ti ho incastonato nell’avorio massiccio.
Pennacchi di fumo nero si levarono a un tratto dall’elmo dell’Oscuro Signore.
— Ah, bene — mormorò Dee. — Per un attimo ho pensato di averti perso.
Due occhi lampeggiarono purpurei nell’oscurità, all’interno dell’elmo. — Non è tanto facile uccidermi. — La voce di Marte era roca e cupa, segnata da un accento indefinibile.
Dee si raddrizzò e si spolverò le ginocchia immacolate. — Sai, tutti gli Antichi Signori che ho ucciso lo dicevano. Ma c’è del sangue che scorre nelle tue vene. E tutto ciò che vive si può uccidere. — Il Mago mostrò i piccoli denti in un sorriso. — Devo ammettere però che sei un caso difficile, quasi impossibile. Ma possiamo attrezzarci. Ne sono sicuro. L’ho già fatto. Diamine, meno di una settimana fa, ho ucciso Ecate.
L’interno dell’elmo brillò per un istante di un rosso acceso, poi il bagliore si spense. Bloccato nel granito e nell’avorio, Marte non poteva muoversi, eppure Dee sentiva chiaramente il peso del suo sguardo. Dalla fessura dell’elmo si levava un fumo nero, e laddove avrebbero dovuto esserci gli occhi, c’erano due sfere purpuree chiazzate d’azzurro. — Sei tornato qui per vantarti, Mago?
— Non intenzionalmente. — Dee si portò alle spalle della statua, esaminandola da ogni angolatura. — Ma visto che ci sono, tanto vale che mi vanti un po’. — Fece scorrere le mani sulle spalle del dio, e la sua aura vibrò mentre un rivolo di energia lo attraversava per tutto il corpo. Perfino sepolta com’era in uno strato di pietra e avorio, l’aura dell’Oscuro Signore era potente.
— Quando fuggirò di qui – e lo farò – sappi che sarai il mio primo bersaglio — tuonò Marte. — Prima ancora di scovare la Strega di Endor, troverò te, e la mia vendetta sarà terribile.
— Sono terrorizzato — commentò Dee, sarcastico. — La Strega ti ha tenuto imprigionato nella pietra per millenni. Non sei ancora riuscito a liberarti da quella maledizione. E lo sai: se succederà qualcosa alla Strega, l’incantesimo morirà con lei, e tu resterai intrappolato così per sempre. — Il Mago tornò di fronte all’Oscuro Signore. — Forse dovrei fare uccidere la Strega. Così non fuggirai mai più.
Dall’elmo si levò uno strano rumore soffocato, e il Mago ci mise qualche attimo per comprendere che il dio stava ridendo.
— Tu? Uccidere la Strega? Mi chiamavano il Dio della Guerra; i miei poteri erano terribili. Eppure non sono riuscito a ucciderla. Se proverai ad attaccarla, Mago, ti farà qualcosa di orribile… e la tua agonia durerà millenni. Una volta ha ridotto un’intera legione romana a statuine grandi quanto un’unghia, e le ha legate tutte assieme con un filo per indossarle come una collana. Ha tenuto in vita quei disgraziati per secoli. — L’Oscuro Signore ridacchiò, producendo un suono simile a pietra sgretolata. — Ricordo che collezionava fermacarte d’ambra, e all’interno di ognuno di essi, c’era una persona che l’aveva scontentata. Perciò sì, vai pure ad attaccare la Strega! Sono sicuro che sarà particolarmente creativa nell’ideare la tua punizione.
Dee si accovacciò accanto alla testa del dio. Intrecciò le mani e scrutò l’interno buio e fumante dell’elmo di pietra. Il bagliore di due puntini purpurei ricambiò il suo sguardo. Il Mago mosse le dita, e la sfera di luce gialla calò dal soffitto, sistemandosi alle sue spalle. Sperava che il bagliore violento potesse accecare Marte, ma le due orbite rosse continuarono a fissarlo impassibili. Con uno scatto del polso, Dee scacciò la luce, mandandola di nuovo a fluttuare vicino al soffitto, dove si affievolì, tingendo la stanza di un color seppia.
— Sono venuto qui con un’offerta — disse il Mago, dopo un lungo attimo di silenzio.
— Tu non hai niente da offrirmi.
— Sì, una cosa ci sarebbe — replicò Dee.
— Sei venuto di tua spontanea volontà, o ti hanno mandato i tuoi padroni? — domandò Marte.
— Nessuno sa che sono qui.
— Nemmeno l’italiano?
Dee fece spallucce. — Forse lo sospetta, ma non può farci nulla. — Si fermò, in attesa. Era un grande sostenitore del silenzio. Secondo la sua esperienza, la gente spesso parla per riempire il vuoto.
— Che cosa vuoi? — chiese infine Marte.
Il Mago chinò il capo per nascondere un sorriso. Da quell’unica domanda, aveva capito che l’Antico Signore gli avrebbe dato esattamente quello che voleva. L’inglese era sempre stato fiero della sua immaginazione – era parte di ciò che lo rendeva uno dei più potenti maghi e negromanti del mondo – ma nemmeno lui riusciva a comprendere come ci si senta a vivere intrappolati in un guscio di pietra per secoli. Aveva udito la disperazione nella voce di Marte, il giorno prima, quando aveva supplicato Sophie di liberarlo dalla maledizione, ed era stato allora che gli era venuta quell’idea.
— Sai che sono un uomo di parola — cominciò Dee.
Il Dio della Guerra non disse nulla.
— È vero, ho mentito, ho ingannato, ho rubato e ho ucciso, ma tutto con una sola intenzione: riportare gli Antichi Signori in questo mondo.
— Il fine giustifica i mezzi — borbottò Marte.
— Esatto. E sai che, se ti darò la mia parola, la manterrò. Ieri hai detto che riesci a leggere chiaramente le mie intenzioni.
— So che nonostante i tuoi difetti – o forse proprio a causa di essi – sei un uomo d’onore… per quanto si tratti di una strana definizione dell’onore — disse l’Antico Signore. — Perciò sì, se mi darai la tua parola, ti crederò.
Dee si alzò di scatto e si portò alle spalle della statua, in modo che Marte non potesse vedere il sorriso di trionfo sul suo viso. — La Strega di Endor non ti libererà mai dalla tua maledizione, non è vero?
Marte Ultore tacque a lungo, ma Dee non fece nulla per rompere il silenzio. Voleva dare all’Antico Signore il tempo di riflettere su quelle parole; voleva che ammettesse di essere condannato in eterno a indossare quel guscio di pietra.
— No — ammise infine Marte, in un sussurro spettrale. — Non lo farà.
— Forse un giorno saprò cosa hai fatto per meritarti una punizione del genere.
— Forse. Ma non da me.
— E così sei in trappola… o forse no.
— Spiegati, Mago.
Dee cominciò a camminare in senso antiorario intorno all’Antico Signore pietrificato. Tenne la voce bassa e inespressiva mentre spiegava il suo piano. — Ieri hai risvegliato Josh, il Gemello del Sole. Lo hai toccato; sei connesso a lui.
— Sì, c’è una connessione — confermò Marte.
— La Strega ha toccato la Gemella della Luna, l’ha dotata della Magia dell’Aria, e ha anche riversato in lei il suo intero compendio di sapere — continuò Dee. — Ieri hai detto che la ragazza doveva conoscere l’incantesimo capace di liberarti.
— E lei me lo ha confermato.
Dee batté la mano sulla spalla di Marte mentre gli si accovacciava davanti. L’energia crepitò nella stanza. — E lei si è rifiutata di aiutarti! Ma si rifiuterebbe ancora, se la vita di suo fratello… no, meglio ancora, se la vita dei suoi genitori fosse in pericolo? Lo farebbe? Ne sarebbe capace?
Le volute di fumo che si levavano dietro la visiera chiusa dell’Antico Signore si tinsero di bianco, poi di grigio-nero. — Pur conoscendomi, pur sapendo cosa sono, cosa ho fatto e di cosa sono capace, mi ha comunque affrontato per salvare suo fratello — disse Marte, molto lentamente. — Credo che farebbe qualunque cosa per salvare lui e i propri genitori.
— Allora ecco il mio giuramento — continuò Dee. — Trova il ragazzo per me, e io giuro che porterò la ragazza, suo fratello e i loro genitori qui al tuo cospetto. Di fronte alla possibilità che loro muoiano, ti garantisco che lei ti libererà da questa terribile maledizione.