CAPITOLO DICIOTTO
Nicholas Flamel sedeva di fronte ai due identici schermi LCD del computer. William Shakespeare era seduto alla sua sinistra, mentre Josh era in piedi alle loro spalle, cercando di tenersi il più possibile alla larga dall’immortale inglese e di respirare solo con la bocca. Quando Shakespeare si muoveva, si portava dietro una scia di cattivo odore, ma quando era seduto e immobile, il tanfo gli si raccoglieva intorno come una densa nuvoletta. Palamede e Sophie erano usciti a dare da mangiare ai cani.
— Fidatevi di me; è molto semplice — spiegò in tono paziente Shakespeare, gli occhi enormi dietro le lenti degli occhiali. — Solo una piccolissima variante dell’incantesimo divinatorio che Dee mi ha insegnato quattrocento anni fa.
— Forse dovrei farvi notare che il computer è spento? — intervenne Josh. — Solo gli schermi sono accesi.
— Ma a noi servono solo gli schermi — replicò Shakespeare enigmatico. Guardò l’Alchimista. — Dee usava sempre una superficie riflettente per lo scrying…
— Per che cosa? — Josh aggrottò la fronte. Non aveva mai sentito quella parola. — Che significa?
— Viene dal francese antico “descrier” ovvero “proclamare” o “mostrare” — mormorò Shakespeare. — Nel caso di Dee significava “rivelare”. Quando ero con lui, si portava appresso uno specchio ovunque.
Flamel annuì. — La sua famosa “lente magica”. Ho letto qualcosa in merito.
— La mostrò alla regina in persona nella sua residenza di Mortlake — disse Shakespeare. — Elisabetta rimase così terrorizzata da quanto vide che corse via da quella casa e non vi fece più ritorno. Il dottore poteva guardare attraverso la lente e mettere a fuoco persone e luoghi in tutto il mondo.
Flamel annuì. — Mi sono spesso chiesto cosa fosse.
— Somiglia alla TV — commentò Josh. Ma poi si rese conto di stare parlando di qualcosa che apparteneva al Diciassettesimo secolo.
— Sì, era molto simile al televisore, ma senza una telecamera dall’altra parte per trasmettere l’immagine. Era un residuo di tecnologia dell’Antica Razza — spiegò Shakespeare. — Un dono del suo maestro. Secondo me, era una lente organica attivata dal potere della sua aura.
— Che fine ha fatto? — domandò Flamel.
Shakespeare sorrise. — La rubai io, la notte in cui scappai. Avevo intenzione di tenerla, e forse perfino di usarla contro di lui. Ma poi mi resi conto che se la lente collegava Dee al suo padrone, probabilmente collegava il suo padrone a me. La gettai nel Tamigi a South wark, vicino al punto in cui più tardi costruimmo il Globe Theatre.
— Chissà se è ancora lì — mormorò Flamel.
— Senza dubbio si è persa sotto secoli di limo e fango. Ma non ha importanza. Dee poteva usare – e in effetti usava – qualsiasi superficie molto lucida per questo tipo di divinazione – specchi, finestre, vetri, cristalli – finché non scoprì che i liquidi funzionavano ancora meglio. Applicando la sua aura a un liquido, riusciva ad alterarne le proprietà, lo rendeva riflettente e lo usava per guardare luoghi e persone in ogni parte del globo, del tempo e dello spazio. Se aveva il tempo di prepararsi a sufficienza, riusciva perfino a scrutare nei Regni d’Ombra più vicini. Usava lo stesso sistema anche per vedere attraverso gli occhi di animali e uccelli, che infatti divennero le sue spie.
— È stupefacente — ammise Flamel, scuotendo la testa meravigliato. — Se solo avesse scelto di stare dalla nostra parte e di combattere contro gli Oscuri Signori…
— Il dottore in genere usava pura acqua di fonte, anche se pare che abbia usato anche neve, ghiaccio, vino e perfino birra. Qualsiasi liquido va bene. — Sporgendosi in avanti, Shakespeare diede dei colpetti sulla cornice di plastica intorno allo schermo del computer. — E cosa abbiamo qui… se non dei cristalli liquidi?
L’Alchimista sgranò gli occhi chiari e annuì. Da sotto la maglietta, tirò fuori un piccolo pince-nez che portava appeso al collo e lo inforcò. — Naturalmente — bisbigliò. — E le proprietà dei cristalli liquidi si possono alterare applicando una carica elettrica o magnetica per cambiare l’orientamento dei cristalli. — Schioccò le dita, e una minuscola scintilla verde non più grande della capocchia di uno spillo comparve sul suo dito indice. Nella baracca puzzolente si diffuse la fragranza pulita della menta, e un sinuoso disegno simile a riccioli di fumo scivolò sui monitor. Flamel mosse il dito, e gli schermi lampeggiarono di bianco, poi di verde, e a un tratto divennero due specchi opachi che riflettevano il suo volto, incorniciato tra quelli di Shakespeare e di Josh. — Non ci avrei mai pensato! Geniale!
— Grazie — mormorò Shakespeare, imbarazzato per la lode, con chiazze di colore sulle guance pallide.
— Che cosa userai come specchio dall’altra parte? — chiese Flamel.
— Ragnatele — rispose il Bardo, cogliendoli di sorpresa. — Ho scoperto che di qualunque luogo si tratti, palazzo o stamberga che sia, le ragnatele non mancano mai. I fili sono sempre impregnati di liquido, e sono ottimi come specchi magici.
L’Alchimista annuì di nuovo, palesemente impressionato.
— Ora tutto quello che ci serve è qualcosa che colleghi te a madame Perenelle.
Nicholas si sfilò il pesante bracciale d’argento che gli stringeva il polso destro. — Questo lo ha fatto lei — spiegò, posandolo sul tavolo. — Poco più di un secolo fa, un cacciatore di taglie mascherato ci inseguì per tutta l’America. Aveva le pistole cariche di pallottole d’argento. Credo che ci avesse scambiati per lupi mannari.
— Lupi mannari e pallottole d’argento! — Shakespeare tossicchiò una rapida risata e scosse la testa. — Questi mortali, signore, che sciocchi!
— Ho sempre pensato che le pallottole d’argento funzionassero contro i lupi mannari — commentò Josh. — Ma non è così, vero?
— Vero — confermò Flamel. — Io ho sempre preferito l’aceto.
— O il limone — disse Shakespeare. — Ma anche il pepe è una valida alternativa. — Vide l’espressione confusa di Josh e aggiunse: — Spruzzaglielo in faccia o gettaglielo negli occhi o sul naso. Si fermeranno a starnutire e avrai tutto il tempo di scappare.
— Aceto, limone e pepe — mormorò Josh. — Mi ricorderò di aggiungerli al mio kit per la caccia ai lupi mannari. Male che vada, posso sempre usarli per l’insalata — concluse sarcastico.
Shakespeare scosse la testa. — No, no… ti manca l’olio d’oliva — disse, serio. — E l’olio d’oliva è del tutto inefficace contro i licantropi.
— Anche se è molto utile contro le streghe italiane — mormorò Flamel in tono assente, mentre creava dei disegni frattali e ondeggianti sui due schermi LCD.
— Non lo sapevo — disse Shakespeare. — E come si…?
— Che fine ha fatto il cacciatore di taglie? — lo interruppe Josh, frustrato, cercando di recuperare il filo della conversazione.
— Oh, alla fine Perenelle lo ha salvato da una tribù di Oh-mah.
— Oh-mah? — chiesero Josh e Shakespeare all’unisono.
— Sasquatch… Saskehavis — chiarì Flamel, e per un istante, l’immagine di una grossa figura umana molto alta e dall’aspetto primitivo comparve su uno schermo. Era rivestita di lunghi peli rossicci e portava una clava fatta con la radice corrosa di un albero. — Big Foot — aggiunse.
— Big Foot, certo. — Josh scosse la testa. — Quindi mi sta dicendo che esiste davvero? E che ce n’è più di uno, in America?
— Naturalmente — confermò Flamel. — Quando Perenelle ha salvato il cacciatore di taglie dagli Oh-mah, lui le ha offerto in dono le sue pallottole d’argento — continuò, accarezzando il bracciale. Una scintilla verde percorse il metallo. — L’ho vista fondere l’argento con la sua aura e creare ogni singolo anello di questo bracciale. — Il profumo di menta riempì di nuovo la baracca. L’Alchimista prese il bracciale e lo strinse in pugno. — Diceva sempre che c’era un po’ di lei in questo oggetto.
All’improvviso i due schermi LCD scintillarono, e i tre uomini si trovarono di fronte l’immagine di Perenelle Flamel.