CAPITOLO TRENTACINQUE
Perenelle sguazzava con i piedi nella melma del tunnel, diretta alla scala. Con una mano stringeva la lancia; con l’altra si tappava forte il naso, ma l’odore nauseante di pesce le rivestiva lo stesso la lingua, e se lo sentiva nella gola ogni volta che deglutiva.
Juan Manuel De Ayala fluttuava al suo fianco, con la faccia rivolta verso il fondo del tunnel. La Dea Corvo si era dileguata.
— Di cosa ha paura? — domandò Perenelle al marinaio. — È un fantasma, niente può farle del male. — Poi sorrise, e la sua voce si addolcì. — Mi dispiace. Non volevo essere acida. So quanto deve esserle costato raggiungere l’ingresso della caverna per avvertirmi.
“È stato più facile dopo che ha spezzato l’incantesimo di legame” disse il fantasma. Gran parte della sua essenza si era dissipata, e solo una lievissima traccia del suo viso e i contorni della sua testa aleggiavano nell’aria. Gli occhi scuri e scintillanti brillavano nell’oscurità. “Nereo è l’incubo di ogni marinaio” ammise. “E io non ho paura per me, ma temo per lei, madame.”
— Qual è la cosa peggiore che può accadermi? — replicò Perenelle, in tono leggero. — Può soltanto uccidermi. O cercare di farlo.
Gli occhi del fantasma si fecero liquidi. “Oh, non la ucciderà. Non subito. La trascinerà in qualche remoto reame sul fondo del mare e la terrà in vita per secoli. E quando avrà finito con lei, la trasformerà in qualche creatura marina, come un tricheco o un dugongo.”
— Ma è soltanto una storia… — cominciò Perenelle, ma si fermò subito, rendendosi conto di quanto fosse ridicola quell’affermazione: stava correndo per un tunnel sotterraneo in compagnia di un fantasma, alle calcagna di un’antica dea celtica e inseguita dal Vecchio del Mare. Quando raggiunse la fine del tunnel, allungò il collo e guardò su. In alto, lontano, scorse un cerchio di cielo azzurro. Si strappò una striscia di stoffa dall’orlo stracciato del vestito e se la legò in vita. Infilando la lancia in quella cintura di fortuna, afferrò il primo piolo della scala arrugginita.
“Perenelle” gemette De Ayala fluendo verso l’alto.
— Te ne vai così presto, Fattucchiera? — La voce riecheggiò lungo il corridoio, liquida e gorgogliante, come un gargarismo.
Perenelle si voltò e lanciò una piccola scintilla di luce lungo il tunnel. Come una pallina di gomma, la scintilla rimbalzò sul soffitto, colpì una parete, poi toccò terra e rimbalzò di nuovo verso l’alto.
Nereo riempiva l’oscurità.
Nell’istante prima che il Vecchio del Mare allungasse il braccio e schiacciasse la luce nella mano palmata, Perenelle ebbe la rapida visione di un uomo dall’aria sorprendentemente normale, con una selva di folti capelli ricci e neri che gli fluivano sulle spalle, mescolandosi a una barba corta e raccolta in due boccoli stretti. Indossava un farsetto senza maniche fatto di foglie e stralci di alghe sovrapposte, e con la mano sinistra impugnava un tridente di pietra dalle punte affilatissime. Mentre la luce svaniva e il tunnel ripiombava nelle tenebre, Perenelle si rese conto che il Vecchio del Mare non aveva gambe. Sotto la vita, otto tentacoli da piovra si contorcevano e si attorcigliavano nel corridoio.
Il tanfo di pesce marcio si intensificò, ci fu un guizzo, e un tentacolo si avvolse intorno alla caviglia della donna, facendo presa con le sue ventose. Un secondo tentacolo, viscido e appiccicoso, si attaccò al suo polpaccio.
— Resta ancora un po’, Fattucchiera — gorgogliò Nereo. Un altro tentacolo schioccò intorno al ginocchio di Perenelle; le ventose aderirono sulla pelle. La risata del Vecchio del Mare era come una spugna inzuppata di acqua che venga strizzata forte. — Insisto.