CAPITOLO QUARANTAQUATTRO
Sporco e malconcio, con i vestiti strappati e luridi e i capelli arruffati, il dottor John Dee si muoveva furtivo lungo le strade vuote, tenendosi nell’ombra mentre la polizia, i pompieri e le ambulanze gli sfrecciavano accanto a sirene spiegate. Una serie di detonazioni illuminò il cielo notturno alle sue spalle: erano saltate in aria delle bombole del gas. L’aria della fresca notte di giugno puzzava di gomma bruciata, nafta, metallo bollente e vetro fuso.
Quando Flamel e gli altri erano fuggiti in macchina, Dee si era precipitato sul fossato, si era gettato a pancia in giù nel fango e aveva tuffato il braccio sinistro nella melma oleosa in cui era affondata Excalibur. Il fossato era più profondo di quanto il Mago si fosse aspettato, e gli inghiottì il braccio fin quasi alla spalla. Il liquido era denso e ancora caldo per via dell’incendio, e delle bolle fetide gli scoppiarono sotto il naso, nauseandolo e facendogli girare la testa. Gli occhi gli bruciavano da morire; cercò a tentoni ovunque, ma non trovò nulla. Udiva le sirene in lontananza; le fiamme del fossato probabilmente erano state avvistate per tutta la zona a Nord di Londra, e senza dubbio c’erano state dozzine di chiamate d’emergenza.
Conficcando le dita della mano destra nella terra soffice e fangosa, Dee si sporse ancora di più oltre il bordo, con il volto che sfiorava il liquido. Dov’era la spada? Non aveva nessuna intenzione di andarsene senza. Alla fine, chiuse le dita intorno a un lungo pezzo di pietra fredda e levigata, e con uno sforzo tremendo, riuscì a estrarre Excalibur dal liquido denso. La spada venne via con uno schiocco. Rotolando per terra sulla schiena, il Mago se la strinse al petto. Pur essendo esausto, caricò il palmo della mano con la sua aura e strofinò l’energia gialla sulla pietra, ripulendola dalla melma. Poi si alzò faticosamente in piedi e si guardò intorno. Ma non c’era traccia del Dio Cornuto né della Caccia Selvaggia.
Gli ultimi residui del serraglio creato da Shakespeare – i serpenti, gli istrici e i tritoni – stavano lentamente svanendo, scoppiando come bolle di sapone, lasciando sagome oscure nell’aria. Il deposito era nel caos: c’erano dozzine di piccoli focolai, e da sotto la baracca fuoriusciva un fumo nero e gonfio. L’interno bruciava. Da qualche parte sulla destra un muro di macchine emise un cigolio sinistro, quindi vacillò e si schiantò a terra con un’esplosione metallica. Frammenti di vetro e brandelli di metallo gemettero nell’aria.
Dee si voltò e corse in strada. Non fu sorpreso di scoprire che Bastet era scomparsa, insieme alla macchina con cui erano arrivati.
L’avevano abbandonato. Peggio ancora: era veramente solo.
Dee era amaramente consapevole di avere deluso gli Oscuri Signori suoi padroni. E loro erano stati molto chiari in merito al suo destino in quell’evenienza. Bastet aveva riferito il suo fallimento, Dee non ne dubitava. Piegò le labbra in un ghigno. Un giorno o l’altro avrebbe dovuto fare qualcosa per la creatura dalla testa felina. Ma non in quel momento, non ancora. Aveva fallito, ma non tutto era perduto finché il suo padrone non gli avesse sottratto il dono dell’immortalità, e per farlo, prima avrebbe dovuto toccarlo e imporgli le mani. Questo significava due cose: o il suo padrone sarebbe uscito dai suoi Regni d’Ombra, o avrebbe mandato qualcuno – o qualcosa – a prendere il Mago e a trascinarlo via per affrontare il processo.
Ma non sarebbe successo subito. Gli Antichi Signori concepivano il tempo in maniera diversa rispetto agli homines; avrebbero impiegato un giorno, forse due, per organizzare la cattura. E in quel lasso di tempo potevano succedere un sacco di cose.
Perfino nelle ore più cupe il dottor Dee non aveva mai ammesso una sconfitta, e alla fine aveva sempre trionfato. Era certo di potersi riscattare, se fosse riuscito a catturare i gemelli e a recuperare le pagine mancanti del Codice.
Londra era ancora la sua città. La sua azienda, la Enoch Enterprises, aveva una sede a Canary Wharf. Là, Dee aveva una casa – più di una, in effetti – e risorse su cui contare: servitori, schiavi, alleati e mercenari.
La stupidità lo aveva sempre irritato; soprattutto quando era la sua. La presenza di Bastet e la comparsa dell’Arconte e della Caccia Selvaggia lo avevano intimidito, e così non aveva preso le precauzioni adeguate. In precedenti occasioni i Flamel gli erano sfuggiti per una combinazione di fortuna, circostanze e abilità personali, ma lui non se lo era mai rimproverato. Stavolta era diverso. Era totalmente colpa sua. Aveva sottovalutato i gemelli.
Luci bianche e azzurre inondarono le case abbandonate, e il Mago si tuffò dietro un muro al passaggio di tre auto della polizia a sirene spiegate.
Sapeva che la ragazza era stata addestrata in almeno due delle magie – l’Aria e il Fuoco – e aveva dimostrato un’abilità e un coraggio straordinari quando aveva sconfitto l’Arconte. Ma se la ragazza era pericolosa, il ragazzo… be’, il ragazzo lo era il doppio. Lui era un enigma. Appena risvegliato, ancora ignaro delle magie elementali, aveva maneggiato Clarent come se fosse nato per farlo, combattendo con un’abilità decisamente superiore a quella dello stesso Dee. Ed era qualcosa che avrebbe dovuto essere impossibile.
Il Mago scosse la testa. Conosceva il segreto più grande delle quattro Spade del Potere; sapeva quello che facevano ai comuni homines. Le spade erano insidiose e micidiali, quasi vampiresche. Bisbigliavano di future vittorie, alludevano a segreti oltre ogni immaginazione e facevano promesse di immenso potere. Gli homines non dovevano fare altro che continuare a usare l’arma… e per tutto il tempo, la spada si nutriva dei loro ricordi, consumava ogni loro emozione, fino a risucchiargli l’aura. A quel punto, chi impugnava la spada dimenticava di mangiare e di bere. I più forti sopravvivevano un mese; la maggior parte non durava dieci giorni. Maghi come lui si erano preparati decenni prima di sfiorare le gelide armi di pietra; ci volevano mesi di digiuno e di pratica per imparare l’arte di forgiare la propria aura in guanti di protezione. E perfino allora le spade erano così potenti che più di un mago e di uno stregone era crollato ugualmente.
Perciò com’era possibile che il ragazzo maneggiasse Clarent? E come aveva fatto a sapere che Dee aveva intenzione di uccidere l’Arconte?
Il Mago tagliò per un vicolo disseminato di rifiuti e sgattaiolò lungo una strada deserta. Si premette la mano su un fianco, e avvertì il calore di Excalibur sotto il cappotto sudicio. Le quattro spade si somigliavano molto, sebbene ognuna fosse unica, in modi che non si potevano nemmeno immaginare. Excalibur era la più conosciuta e, pur non essendo la più potente, aveva delle qualità che alle altre spade mancavano. Tuffandosi in un’altra stradina deserta, Dee estrasse la spada da sotto il cappotto e la posò ai suoi piedi. L’odore di zolfo si mescolò a quello dei rifiuti mentre con il dito mignolo illuminato di giallo sfiorava la lama, bisbigliando: — Clarent.
La spada di pietra tremò e vibrò, quindi si spostò lentamente, puntando verso sud. Excalibur puntava sempre verso la sua gemella. Dee la raccolse di scatto e corse via.
Il Mago aveva dedicato secoli a recuperare le Spade del Potere. Ne possedeva tre su quattro, e c’era appena mancato poco – pochissimo – perché aggiungesse Clarent alla sua collezione. Nessun Antico Signore e nessuna creatura della Nuova Generazione era immune dalla seduzione delle Spade. Si diceva che Marte Ultore avesse portato Excalibur e Clarent in foderi gemelli sulla schiena. Era stato il campione degli homines, prima; dopo, era diventato un mostro. E se le due spade avevano corrotto un Antico Signore, quante possibilità aveva un giovane figlio degli homines, privo di addestramento? Ogni volta che il ragazzo impugnava Clarent, ogni volta che ne sfiorava l’elsa, la spada lo attirava sempre di più sotto il proprio controllo. E finché Josh l’aveva con sé, Dee sarebbe sempre stato in grado di rintracciarlo.