Epilogo
Aeroporto di Fiumicino, Roma.
23:40.
Nobile sistemò il piccolo trolley nella cappelliera del velivolo e si accomodò accanto a Veneziani.
L’Airbus A330-200 diretto a New York era fermo sulla pista con i motori accesi, in attesa di imbarcare tutti i passeggeri. La partenza era prevista entro pochi minuti.
«Ci siamo quasi», esordì l’ex ambasciatore, sistemando la cintura di sicurezza. Accennò un sorriso carico di tensione.
Veneziani sembrò non avere udito, lo sguardo puntato sulla pista illuminata, fuori dall’oblò. «Speriamo», disse poi.
Era la prima volta, nonostante la sua grande esperienza, che si sentiva totalmente in balia degli eventi. In tanti anni di carriera, in cui aveva avuto a che fare con ogni tipo di crimini, poteva dire di non essere mai stato in pericolo di vita.
Certo, gli era già capitato di ricevere delle intimidazioni. Una volta, quando si occupava di un caso che aveva a che fare con la camorra, un clan di Scampia lo aveva minacciato di ucciderlo e gli era perfino stata assegnata una scorta. In un altro caso, dieci anni prima, gli avvertimenti gli erano stati recapitati con una lettera anonima: avrebbe dovuto smettere di indagare su un traffico di armi che venivano spedite dall’Italia a Paesi sotto embargo.
In tutte quelle circostanze, però, non era mai stato realmente a rischio. Non aveva udito un colpo di pistola e non aveva dovuto schivare pallottole. Ciò che invece era puntualmente accaduto quella mattina a fontana di Trevi. Le persone con cui aveva a che fare questa volta non si fermavano davanti a nulla, era evidente.
Dopo il colloquio nel Comando di piazza di San Lorenzo, Veneziani aveva preferito rimanere nascosto. Nobile aveva fornito una pista che forse poteva valere la pena verificare. Poco importava che il caso non fosse ufficialmente più suo: smettere di indagare non sarebbe servito a nulla, visto che avevano provato ugualmente a toglierlo di mezzo. Gli rimaneva solo una possibilità per cercare di salvarsi: capire con cosa e con chi, esattamente, aveva a che fare.
«Crede che potrebbero averci seguito?», domandò Nobile, allungandosi per guardare oltre l’oblò. Neppure lui era tornato a casa e assieme al PM avevano acquistato un paio di cambi d’abito al duty free dell’aeroporto. Non erano gli abiti firmati a cui era abituato ma almeno erano puliti.
«Non lo so», replicò Veneziani, socchiudendo gli occhi. «Il fatto che viaggiamo con i nostri veri documenti di sicuro non ci aiuta a mantenere l’anonimato».
L’ex ambasciatore non fiatò; si assestò sul sedile e volse lo sguardo altrove: davanti a lui, nel corridoio dell’Airbus, stavano avanzando alcuni passeggeri. A giudicare dai pochi posti liberi, non dovevano mancarne molti.
Un uomo di mezza età, di colore, tuta da ginnastica e uno zainetto sulla spalla, si asciugò il sudore con l’avambraccio.
Era in piedi, nel terminal, a poca distanza dal banco dove l’addetta stava verificando passaporti e carte d’imbarco.
«Prego», cantilenò la donna, rivolta a una coppia con una bambina che lo precedeva. Mancavano ancora una decina di persone.
Si voltò in direzione dell’aereo oltre la vetrata. Alcuni addetti con corpetti catarifrangenti stavano effettuando le ultime verifiche nei pressi del carrello anteriore. Poco più in la, sulla pista, un altro velivolo stava decollando.
«Posti 17A, B e C», comunicò ancora l’addetta ad alta voce. Subito dopo si avvicinarono tre giovani allampanati. Il primo dovette dire qualcosa di divertente perché di lì a poco scoppiò una sonora risata.
L’uomo s’irrigidì, il passaporto di colore verde della Sierra Leone tra le dita. Restavano ancora tre persone, poi sarebbe toccato a lui.
«Prego: posti 23C, E e F», esclamò ancora l’addetta, questa volta accompagnando le sue parole con una smorfia. Poi alzò lo sguardo e lo inquadrò. «Passaporto e carta d’imbarco».
Il tizio fece due passi incerti e allungò la mano. Cercò di rimanere calmo. Lanciò un’altra occhiata all’Airbus collegato al gate tramite il finger, il lungo corridoio mobile che avrebbe percorso di lì a pochi secondi. Sempre che il controllo fosse andato liscio…
Ma l’addetta ci stava mettendo troppo: rigirò il passaporto tra le dita e digitò qualcosa sulla tastiera del computer.
Lui sorrise, senza mostrare gli incisivi.
La donna tornò a osservare il documento e poi alzò lo sguardo per verificare la fotografia. Non convinta, sfogliò le pagine una a una.
Ormai non poteva più tornare indietro.
«Prego», mugugnò però, a un certo punto. «È l’ultimo. Posto 24A. Buon viaggio».
Il tizio annuì e si incamminò verso il portellone dell’aereo.
Nobile si alzò sui gomiti, per sbirciare oltre i sedili che lo precedevano.
Erano nella parte centrale del velivolo e nella zona anteriore quasi tutti avevano già preso posto.
Il rombare dei motori rimbombava nell’abitacolo e i portelloni furono chiusi. Un segnale sonoro comunicò di allacciare le cinture.
«Signore e signori, sono il capitano Leto». Una voce maschile proruppe dagli altoparlanti. «Entro pochi minuti dovremmo ricevere le autorizzazioni dalla torre di controllo. Vi auguro buon viaggio».
Veneziani lasciò cadere la nuca sul poggiatesta, sbattendo le palpebre. Era chiaramente teso.
«Ormai ce l’abbiamo fatta», tentò di rincuorarlo Nobile. Mai avrebbe pensato che in una situazione come quella sarebbe stato lui a rassicurare gli altri. Ma era stranamente euforico: era certo che a New York tutto si sarebbe sistemato… dopotutto era sicuro di avere un ottimo ascendente su Rhonda Williams, la collaboratrice che aveva contattato quando era in Toscana.
Nel frattempo, gli ultimi passeggeri stavano prendendo posto. Un gruppo di ragazzi si sistemò nella fila antistante la loro; un uomo di colore, con uno zainetto per bagaglio a mano, poco dietro.
Una hostess si avviò lungo il corridoio e prese a chiudere gli sportelli dei vani portabagagli. Un altro addetto, di fronte alla cabina di pilotaggio, cominciò a illustrare le procedure di sicurezza e le vie di fuga.
«Forse c’è un problema», proruppe all’improvviso il PM.
Si sporse, per vedere fuori dall’oblò. La visuale non era completamente libera, ma ciò che stava accadendo sulla pista non sembrava affatto casuale. Non poteva essere una coincidenza.
Nobile guardò a sua volta: accanto al velivolo, alla luce delle fotoelettriche, si era appena fermato un furgoncino nero. Era seguito da due pantere della polizia, che arrivarono a gran velocità con i lampeggianti inseriti. «Cercano noi?»
«Francamente non lo so proprio».
Osservarono la scena come spettatori impotenti. Le auto rallentarono, fecero una manovra a uncino e si fermarono diagonalmente sulla pista. Ne uscirono di corsa tre agenti con le armi in pugno, che scomparvero sotto la pancia del velivolo.
Nel corridoio dell’Airbus, intanto, la luce che indicava di tenere le cinture allacciate si spense di colpo. Qualcuno imprecò.
Dopo pochi istanti, gli assistenti di volo si mossero in prossimità del portellone anteriore. Confabularono per alcuni secondi, ma dalla sua posizione Nobile non riuscì a vedere con chi.
Veneziani deglutì. Quella gente, oltre a tentare di ucciderli, era perfino arrivata a farli rimuovere dai loro incarichi: era del tutto possibile che anche alcune frange delle forze dell’ordine fossero dalla loro parte.
“È finita”, inveì tra sé il PM.
In quell’istante, tre poliziotti emersero dalla prua. Avanzarono con passo marziale, diretti verso di loro, le armi spianate. Sorprendentemente però gli passarono accanto e procedettero oltre.
Alcuni passeggeri si voltarono e li seguirono con lo sguardo: gli agenti si fermarono di fronte a un uomo di colore, il tizio con lo zainetto. Gli sussurrarono qualcosa e poi lo invitarono ad alzarsi e seguirli.
«Visto della Sierra Leone… rischio epidemiologico», riuscì a udire qualcuno. In molti, invece, notarono che gli agenti, dopo aver preso in consegna il ricercato, si coprirono il naso con dei fazzoletti.
Il volo AZ618 Fiumicino-JKF decollò con lieve ritardo poco dopo, alle 23:55, con Nobile e Veneziani regolarmente tra i passeggeri.