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Ospedale da campo Paradise City, Sierra Leone. Nello stesso istante.

Ora locale 04:21.

 

Il professor Christopher Kundé si grattò la testa glabra scrutando fuori dalla finestra del laboratorio: era buio pesto e la radura era avvolta nel silenzio.

Ne era certo, ciò che l’aveva svegliato era il clangore lontano delle pale di un elicottero: dopo gli anni passati in Somalia aveva imparato a riconoscerlo alla perfezione.

Si spostò alla luce della scrivania, la pelle d’ebano che risaltava sul camice bianco sbottonato, e decise di andare a verificare di persona. Uscì dal suo alloggio, attiguo al prefabbricato che utilizzavano per gli esami ematologici. L’aria della notte era appesantita dall’afa e l’erba umida scintillava alla luce della luna. Ma non c’era nessuno.

Cominciò a camminare e raggiunse la costruzione principale del campo: una tensostruttura bianca su cui troneggiava il sole stilizzato, il logo della SunriseX International.

Senza le opportune protezioni non sarebbe potuto entrare, lo sapeva bene. Un semplice sguardo attraverso le aperture in vetro temperato gli consentì però di verificare che non ci fossero problemi: all’interno era tutto tranquillo, con tre file di letti occupate da pazienti ancora sedati.

Kundé si domandò se non stesse esagerando. Dopotutto l’ispezione prevista di lì a poche ore era normale amministrazione. Non c’era motivo di preoccuparsi, era stato estremamente attento.

Mentre tornava verso i prefabbricati di legno adibiti ad alloggi, rifletté se andare nella camera oscura che utilizzava per sviluppare le sue pellicole. Era poco distante, in uno degli edifici ancora in costruzione in fondo al campo, e di solito armeggiare con i solventi e le emulsioni fotografiche lo rilassava. Decise di no: comunque fossero andate le cose, l’indomani sarebbe stata una giornata importante. Aveva bisogno di dormire.

Accompagnato dal gracidio delle rane nello stagno, che nel frattempo avevano preso a rumoreggiare, si incamminò verso il laboratorio. In direzione della recinzione uno dei due agenti della sicurezza era rintanato nella guardiola. Sembrava assonnato, o più probabilmente era intento a masticare foglie di khat, una droga abbastanza diffusa tra la popolazione locale. La guardia non lo notò neppure e solo Munyika, il pastore tedesco accucciato sul selciato, alzò la testa al suo passaggio. E poi lo udì di nuovo.

Si voltò di scatto e scrutò una luce fissa, poco sopra l’orizzonte. Era un elicottero, non c’erano dubbi, e anche la guardia doveva averlo sentito perché lo vide scattare sull’attenti. Subito dopo, da oltre un crinale comparve un altro fascio bianco e un altro ancora: tre velivoli.

Non aveva affatto esagerato.

A testa bassa, Kundé si mosse in direzione del suo studio, una stanzetta ricavata in un vano del laboratorio. Doveva provare nuovamente a chiamare monsignor De Lestes.

Mentre il frastuono dei rotori si faceva sempre più insistente, raggiunse la sua scrivania sommersa di carte e provette, e afferrò il satellitare.

«Rispondi», mormorò, l’ansia crescente. Ma le sue speranze furono subito spezzate: una voce femminile comunicò qualcosa in russo e subito dopo la linea cadde.

“Il campione”, si disse, cercando a tentoni la videocamera sulla scrivania. I suoi esami erano ormai completi, ma c’era ancora speranza: il campione principale, quello che la fondazione Mendel gli aveva promesso, doveva essere ancora testato.

Indeciso sul da farsi, mosse il mouse del computer. Era possibile che gli elicotteri fossero stati inviati da De Lestes? Improbabile, anche se se lo augurò. In caso contrario, quella visita a notte fonda non aveva l’aria di una normale ispezione.

Trovati gli occhiali li inforcò e sfogliò i file crittografati sul desktop. Individuò quello che conteneva la rubrica. Lo aprì e compose un numero sul satellitare, spostandosi vicino alla finestra per avere maggior copertura.

Libero.

Per fortuna.

Se gli elicotteri erano della fondazione Mendel, glielo avrebbero confermato.

Due squilli. Tre squilli. Cinque squilli.

Mentre attendeva accese la videocamera e cancellò manualmente l’hard disk che conteneva l’ultimo file ripreso. Dopo dieci secondi di attesa al telefono, una voce preregistrata blaterò una frase incomprensibile. Non ebbe bisogno di altre conferme perché in quell’istante una scarica di mitra echeggiò dalla radura.

Era finita. Christopher Kundé, in preda al panico, tornò al computer e individuò un file identico a quello appena cancellato. Pesava poco meno di un gigabyte e calcolò che lo avrebbe caricato abbastanza velocemente.

Un altro colpo di mitra, questa volta seguito dall’abbaiare di Munyika.

 

Il terzo elicottero NHI NH90 volava basso su una distesa arida dalla quale emergevano cespugli, terreni incolti e spuntoni di rocce. Poco più a nord, la catena dei monti Loma si erigeva maestosa sotto il cielo stellato. In lontananza, illuminato dalle fotoelettriche, si cominciava a vedere l’assembramento di costruzioni e tende di Paradise City.

L’ospedale da campo sorgeva in una zona pianeggiante a metà strada tra la riserva forestale di Kangari Hills e il fiume Seli. Circondato da un’area di sicurezza di tre chilometri, era stato interamente finanziato dalla SunriseX International, una multinazionale attiva nel campo delle biotecnologie.

«Squadra blu a terra», gridò Dragan Sauer, attraverso la ricetrasmittente del casco. Era un armadio di muscoli in tuta mimetica. Aveva i capelli color ruggine tagliati a spazzola, la barba incolta e gli occhi del colore del ghiaccio, simili a quelli di un husky. La missione per la quale era stato ingaggiato era la sua preferita: fare pulizia. «Squadra rossa in posizione».

Il pilota, occhiali da sole Aviator nonostante l’oscurità, tirò a sé la cloche e le turbine urlarono come sirene. L’elicottero raggiunse la zona centrale della struttura medica e si mantenne in hovering – fisso su un punto – a distanza di sicurezza. Dalla sua posizione si riuscivano a distinguere con facilità i due gruppi di paramilitari: uno era atterrato appena dentro il cancello nord, l’altro nei pressi di una dispensa di lamiera coperta da una tenda. Gli uomini, dodici in tutto, avanzavano a tenaglia dalle rispettive posizioni. Indossavano tute hazmat blu, dotate di maschere e caschi, e correvano a testa bassa con gli AK-47 spianati.

Le prime scariche di mitra avevano appena cominciato a echeggiare nella notte, che dal cancello principale si mosse una jeep. Gli ordini erano chiari, restare a distanza di sicurezza dalla tensostruttura sterile – alla quale avrebbero semplicemente tolto il supporto vitale – e “ripulire” tutto. E così fecero i paramilitari.

«Squadra rossa, abbiamo compagnia». La voce, netta come se provenisse dal vano di carico posteriore, fu interrotta da alcuni colpi di pistola. Seguirono diverse deflagrazioni indirizzate agli agenti incaricati della sicurezza del campo. Oltre al professor Kundé e ai pazienti, i due “locali” erano gli unici occupanti dell’ospedale. Pur non essendo preparati a un agguato di quel tipo avevano cominciato a scaricare i caricatori delle semiautomatiche sugli intrusi arrivati in elicottero. Ma era una lotta impari.

Trascorsero pochi attimi concitati, poi il militare, con l’abbaiare di un cane in sottofondo, tornò a parlare a beneficio del capo. «Nemico abbattuto».

«Squadra blu, procedete con il piano». Dragan Sauer strizzò gli occhi e dall’NH90 individuò i suoi agenti nei pressi di un prefabbricato con il tetto in lamiera. Dall’alto si notavano gli sfiati dei condizionatori e un comignolo che eruttava fumo bianco. Era il punto x.

Un istante più tardi, un bagliore illuminò il campo, seguito dalla detonazione dell’esplosivo C4.

«Missione compiuta: tra poco gli amici indigeni faranno un po’ fatica a respirare», fece divertito uno dei militari.

Trascorsero altri trenta secondi, poi una nuova voce ruppe il momentaneo silenzio radio. «La zona è pulita».

Sauer sorrise tra sé. Il blitz si era concluso in tre minuti e trenta secondi. Mancava solo un tassello, ma quello spettava a lui. Si infilò le protezioni e i guanti in kevlar e si calò sul viso la speciale maschera antigas. «Ok. Scendiamo. Troviamo il nostro amico».

 

“Upload file 77%”.

Mentre i colpi di arma da fuoco rimbombavano nella struttura, Christopher Kundé studiò lo schermo del computer. Odiava quell’affare e non era per nulla certo che comunicare in quel modo fosse davvero a prova di intercettazione.

Una nuova raffica di mitra squarciò l’aria. Erano vicini.

“Upload file 79%”.

Si spostò di qualche passo e aprì la porta dello studio di un piccolo spiraglio. Il ronzio del condizionatore si bloccò di colpo. Spense le luci del laboratorio, sperando di rallentare in qualche modo gli aggressori, ma subito dopo si riaccesero quelle di emergenza. Chiuse a chiave e tornò al PC.

Era finita, lo sapeva bene. Non ci sarebbe stata nessuna ispezione. O forse era proprio quella l’ispezione… Ma le cose potevano ancora essere sistemate.

Fradicio di sudore, richiamò la bozza del documento che aveva già preparato e la copiò in una e-mail. Anche se aveva predisposto quel testo da diversi giorni, si era sempre augurato di non doverlo mai usare. Ricontrollò l’upload: era all’86%. Per un momento si sentì in colpa per non aver caricato il video precedentemente. Ma era stata una scelta obbligata: se da Ginevra monitoravano il suo traffico internet, come sospettava, tutti quei dati transitati sui server non sarebbero passati inosservati.

In quell’istante, uno scalpiccio seguito dai cigolii del pavimento in legno gli diede la certezza che il tempo a disposizione era finito. Erano entrati nel laboratorio.

Verificò un’ultima volta il computer: “Upload file 93%”.

Non aveva altra scelta: copiò l’indirizzo del sito su cui stava caricando il file, lo incollò in una pagina web e subito dopo inviò un’e-mail. Con un po’ di fortuna, quando i destinatari avrebbero letto il messaggio, il file sarebbe stato già trasferito per intero.

«Die Tür öffnen!», ordinò una voce roca in tedesco. «Apra la porta», ripeté subito in un inglese con forte accento. «Professor Kundé, sappiamo che è lì. Esca immediatamente».

L’anziano scienziato spense lo schermo del computer. Appena il trasferimento fosse terminato, il video in locale si sarebbe automaticamente cancellato. Si fece avanti, la testa quasi nascosta tra le spalle. Aveva l’aspetto della pecorella delle favole, quella in attesa di essere sbranata dal lupo cattivo. Mentre le luci rosse di emergenza conferivano all’ambiente un’atmosfera quasi di festa, le parole dei militari furono tutt’altro che amichevoli.

«Alzi le mani».