Prologo

 

 

 

 

 

Contea di Walworth, Wisconsin, 8 maggio 1912.

 

La carrozza, trainata da due robusti mustang, affrontò l’ultimo tratto di discesa sotto un cielo plumbeo. Non pioveva ancora ma un vento gelido faceva ondeggiare le cime delle betulle che costellavano la campagna verde. In fondo al sentiero – poco più di un insieme di solchi lasciati da zoccoli e ruote – svettava la guglia malandata di una chiesetta.

Padre Charles O’Reilly, l’unico passeggero, scostò la tendina e sbirciò oltre il vetro. Da un campo di mais percosso da violente folate si sollevò uno stormo di uccelli neri. Oltre, il lago Delevan appariva come una lastra piatta e informe, che sembrava unirsi con le nuvole all’orizzonte.

«Facciamo in fretta», urlò all’indirizzo del cocchiere. «Non sappiamo se il luogo è sicuro. Dobbiamo essere a destinazione prima che arrivi il temporale».

Non ottenne risposta, né un cenno. L’uomo, intabarrato in un pastrano nero, si limitò invece a grugnire nell’aria gelida. Poi strattonò le redini e spronò i cavalli, che nitrirono a loro volta.

Mentre la carrozza aumentava l’andatura, il religioso si assestò sulla panca e sospirò. Figlio di immigrati irlandesi, aveva da poco superato i trent’anni e faceva parte dell’ordine dei Gesuiti da cinque. Per uno come lui, minuto di corporatura e poco avvezzo alla vita di campagna, quel viaggio era stato tutt’altro che agevole: partito in grande fretta da Chicago, aveva attraversato la regione dei laghi in piena notte. Non aveva potuto fermarsi né a dormire né a rifocillarsi, con le ruote del carro che sobbalzavano senza posa su stradine fangose. L’unica sosta era stata fatta nella contea di McHenry, in una baracca di tronchi non scortecciati, dove il conducente aveva sostituito i cavalli con due più freschi.

Facendosi il segno della croce, padre O’Reilly ripensò alle parole del vescovo, l’uomo che considerava il suo mentore. «Si tratta di un incarico di vitale importanza», gli aveva confidato, con quella sua voce grave e il tono sussurrato. «Devi fare tutto ciò che ti è possibile per far calare il silenzio sulla questione. Non dimenticare che sono contadini… non sanno minimamente con cosa hanno a che fare. Questi dovrebbero fare al caso tuo». Mentre pronunciava quelle parole, il vescovo aveva allungato un borsone sulla panca della chiesa su cui erano seduti. O’Reilly aveva semplicemente lanciato un’occhiata e poi aveva annuito.

E così, un giorno e mezzo più tardi, si trovava su quella carrozza, infreddolito ed esausto. Il complesso abitato che emergeva dalla nebbia non era altro che una manciata di casupole di legno cinte da alberi di un verde così scuro da apparire quasi nero. Il silenzio dell’alba era totale, rotto solo dal clangore delle ruote di ferro sulla strada.

Improvvisamente, dopo che il carro si fu inerpicato per un breve tratto di salita, si aprì di fronte a loro una zolla erbosa addossata a un pietraio. Era delimitata da un recinto in legno, interrotto solo da due grossi silos, che sembravano messi a guardia della fattoria.

«Il posto è questo», borbottò il cocchiere a padre O’Reilly. I cavalli rallentarono, incespicarono e poi agitarono la coda appena si fu fermato.

Il gesuita si sistemò i guanti neri, che nascondevano una piccola menomazione alle mani, e scese dalla scaletta. Fece qualche passo, sprofondando nel fango, e si diresse verso il giardino antistante all’edificio principale. Lì il terreno era più duro e coperto di muschio ghiacciato, che scricchiolò sotto i suoi stivali. Si fermò accanto a un carretto senza una ruota.

«Non abbiamo altro da dire!», tuonò dalla veranda un anziano con un grosso fucile Krag .30-40 tra le mani. Teneva le gambe larghe, anche se la postura non sembrava molto minacciosa. «Ne ho avuto abbastanza di giornalisti impiccioni. Parlate con lo sceriffo e i suoi scagnozzi».

«Vengo da Chicago. Non sono un giornalista», dichiarò il religioso, carezzandosi l’abito talare che evidentemente l’altro non aveva notato. «Non è mia intenzione disturbarvi… Sono qui per proporvi un affare».

L’uomo aggrottò la fronte e spalancò le labbra, rivelando una grossa fessura tra i denti. «Che tipo di affare?», si informò. Scese i due gradini di legno e andò incontro a padre O’Reilly con passo marziale.

Il religioso lo studiò meglio: poteva avere tra i cinquanta e i sessant’anni, calvo, gli occhi verdi e il viso nascosto in parte da una folta barba rossiccia striata d’argento. Indossava calzoni frusti con bretelle e un vistoso fazzoletto rosso al collo.

«Se fosse possibile vorrei vedere ciò che avete trovato». Il gesuita, che stringeva in grembo la borsa datagli dal vescovo, ne aprì un lembo. «Se le cose sono interessanti come ho sentito, questi sono per voi».

Dondolandosi sulle gambe, l’anziano si lasciò scappare un sorriso e poi urlò: «T.J., Josh. Abbiamo ospiti!».

 

Pochi minuti più tardi Mr Phillips, liberatosi del fucile, stava accompagnando padre Charles O’Reilly verso la stalla. Assieme a loro c’erano due giovanotti, forse i figli dell’uomo o i suoi nipoti, dalla fronte bassa, abbigliati con camicia da lavoro e pantaloni troppo corti a causa della veloce crescita tipica dell’adolescenza.

L’edificio dove erano diretti era un complesso fatiscente, a forma di capanna e con una banderuola che si protendeva verso il cielo. Una volta doveva essere stato dipinto di rosso, ma ora la vernice delle travi, sbiadita dal tempo, aveva più il colore della ruggine.

«Li abbiamo trovati in una fossa là dietro, tre giorni fa», spiegò T.J., uno dei due ragazzi. Più alto del fratello e con gli stessi capelli color carota, sembrava istruito. «Mio zio doveva fare posto a un nuovo capanno e abbiamo scavato per piantare le fondamenta».

«A che profondità erano… i resti?», indagò O’Reilly, mentre lo sguardo spaziava in una zona scura a ridosso del lato nord della proprietà.

«Poco. Cinque o sei piedi al massimo. Quando abbiamo trovato il primo abbiamo scavato con cura lì attorno».

«Quanti sono in tutto?»

«Ne abbiamo dissotterrati diciotto, tutti maschi. Li abbiamo spostati nella stalla per proteggerli dalla pioggia».

«Vi siete limitati a portarli al coperto? Non li avete danneggiati o manomessi?»

«Naturalmente no», si intromise Mr Phillips, quasi volesse evitare che il ragazzo parlasse troppo. Ma, oltre a non essere un bravo bugiardo, non sembrò neppure troppo convinto. Di riflesso, Josh cercò di nascondere con le dita il pendolo che aveva al collo: una specie di artiglio di colore giallastro.

«Si dice che questi teschi abbiano denti molto aguzzi». Il religioso distolse lo sguardo da Josh e tornò a osservare il fattore. Dopotutto, se si erano limitati a prendere qualche dente per ricordo, non era un grosso problema.

«Le mandibole sono grandi come quelle di un cavallo!». Mentre pronunciava quelle parole, l’anziano spalancò il portone della stalla. I cardini cigolarono e ne uscì un odore intenso di fieno e bestiame. «Ma guardi lei stesso».

L’interno era in penombra, con una luce fioca che penetrava da una mezza dozzina di finestre poste in alto. In quell’istante l’aria fu squarciata da un fulmine che rischiarò la scena.

Il religioso si sentì mancare il fiato. Si fece il segno della croce e serrò gli occhi: davanti a lui, adagiati sul pavimento coperto di paglia, c’era una fila di scheletri color avorio. Erano allineati ordinatamente, uno accanto all’altro, come vacche dopo il macello. Le dimensioni dei resti, come aveva letto, erano notevolmente superiori a quelle di un uomo: sembravano alti quasi il doppio, le sole gambe lunghe quanto uno dei due ragazzi. Anche i teschi, di una forma anomala e allungata, erano di dimensioni eccezionali, così come le orbite, quasi sproporzionate.

«In un primo momento abbiamo pensato fossero animali…», chiosò ancora T.J., socchiudendo gli occhi. «Forse scimmie, o primati di qualche tipo… ma avevano le braccia incrociate, come in una sepoltura rituale. Sembrava una fossa comune».

O’Reilly deglutì, incapace di distogliere lo sguardo. «C’erano sulla terra i giganti a quei tempi, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini», mormorò un passo della Genesi senza quasi rendersene conto. Riuscì a scuotersi soltanto grazie a un tuono, che con uno schianto assordante fece vibrare una rastrelliera in fondo al locale. Il religioso sorrise, ma con aria contrita, cercando di apparire più sicuro di quanto realmente era. «Cinquecento dollari», disse. «Per tutto. Nella carrozza ci sono dei sacchi».

L’anziano Mr Phillips si fece scappare un sorriso sdentato. Non si sarebbe mai aspettato un’offerta simile per un mucchio di ossa. Giornalisti a parte, in paese avevano perfino cominciato a malignare sul fatto che quel ritrovamento avrebbe portato sventure. Se ne sarebbe liberato e ci avrebbe anche guadagnato. «Forza, ragazzi. Raccogliete i resti dei nostri amici e caricateli sulla carrozza del signore».

Nel frattempo, fuori, aveva iniziato a piovere e l’aria si era fatta pesante a causa del fumo di alcuni focolai: degli agricoltori, poco lontano, dovevano aver potato le piante e ne stavano bruciando gli scarti. Nonostante ciò, l’operazione di carico durò un po’ più di un paio d’ore. I due giovani faticarono non poco per sistemare i teschi in parte sul tetto, in parte sul pianale posteriore della carrozza. Su indicazione del gesuita, avevano scarabocchiato con dei gessetti alcuni numeri su tutte le ossa, in maniera che gli scheletri potessero essere poi riassemblati. Il lavoro era andato avanti senza sosta e si erano fermati solo quando uno dei due ragazzi aveva avuto una piccola epistassi.

A metà mattina il religioso era pronto per ripartire alla volta di Chicago. Consegnò la borsa con il denaro e fu allora che accadde un evento del tutto inspiegabile. Quasi contemporaneamente, T.J. e Josh cominciarono a tossire, vomitando sangue e muco verdastro. Mr Phillips cercò di sorreggerli ma gli toccò la stessa sorte.

Tutto avvenne in un attimo: i tre uomini, sotto lo sguardo impotente del gesuita, si accasciarono al suolo, contorcendosi e dimenandosi. Del liquido vermiglio sgorgava copioso dal naso e dalla bocca, come se la carotide fosse stata troncata di netto.

E a quel punto anche il cocchiere, che era già in posizione sulla sua panca pronto per il viaggio di ritorno, iniziò a tossire con insistenza. I cavalli sbuffarono. Il tizio si alzò in piedi, barcollando, gli occhi iniettati di rosso. Fece solo qualche passo e poi cadde rovinosamente nel fango, portandosi dietro le redini.

I mustang nitrirono e uno dei due si impennò sulle zampe, posando subito dopo gli zoccoli sul selciato.

Nel tempo di un respiro tutti i rumori cessarono. I tre contadini smisero di dimenarsi e rimasero senza vita riversi sul terreno. Poco lontano anche il conducente sembrava non respirare più, le palpebre spalancate a fissare il cielo grigio.

Padre Charles O’Reilly girò su se stesso come un ubriaco. Era incredulo e spaventato al tempo stesso. Non sapeva cosa pensare. Si limitava a passarsi la lingua sulle labbra screpolate dal freddo e a fregarsi nervosamente le mani. Senza sapere come, la mente gli andò ancora ai giganti della Bibbia: la malvagità dei Nephilim e le angherie verso gli uomini erano cosa risaputa. Ciò che era successo aveva a che fare con quei teschi? E se era così, come era possibile? E poi… perché a lui non era accaduto nulla?

Scosse il capo. Lo sguardo gli scivolò lontano dai corpi, sulla vallata. I focolai, probabilmente alimentati a carbone, turbinavano ancora verso il cielo nonostante la pioggia. Sembravano del tutto abbandonati, come un campo di battaglia lasciato da un esercito in ritirata.

E così fece anche lui. Accompagnato da scrosci di pioggia e dall’ululato lontano di un coyote, salì al posto del cocchiere e tirò le redini. Aveva una missione da portare a termine. Si guardò indietro un’ultima volta e spronò i cavalli.

«E l’Eterno disse: io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato», balbettò tra sé, mentre si allontanava.