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Roma.

Ora locale 16:40.

 

Fausto Valvano arrivò al suo studio nel quartiere Africano sudato fino alla base della schiena. In città faceva un caldo torrido e il taxi che l’aveva accompagnato dal porto di Civitavecchia aveva l’aria condizionata rotta. L’unica nota positiva era che la donna delle pulizie aveva fatto un buon lavoro: i suoi vasi di porcellana Baviera erano stati puliti come aveva chiesto.

Esausto, abbandonò la valigia nella sala d’aspetto dei clienti e si precipitò ad aprire tutte le finestre per creare un po’ di corrente. Viale Eritrea, solitamente molto trafficato, era una lingua d’asfalto ribollente per l’afa. Al centro, sotto il filare di alberi spogli che dividevano le due carreggiate, le auto che normalmente sostavano anche in doppia fila erano invece pochissime. Agosto era così: caldo e deserto.

L’avvocato si tolse la giacca ed estrasse la camicia dai pantaloni. Provava sensazioni contrastanti: da una parte era triste per la morte di Leonardo Domianello e dall’altra soddisfatto per essere riuscito a sistemare in poco tempo la situazione.

Certo, la confidenza fatta a don Pino qualche giorno prima lo faceva sentire in colpa. D’altra parte, però, a certe persone non si poteva dire di no.

«’Na cortesia: ho saputo che verso Ferragosto incontrerai un vecchio amico», aveva esordito l’anziano, tono sibilante e tipica cadenza del Sud Italia. Era un tipo irsuto dalla carnagione scura e se ne stava seduto scomposto sulla poltroncina con un mozzicone di sigaretta tra gli incisivi. «Ho bisogno di nu piccolo favore, in nome dei nostri buoni rapporti».

Valvano aveva stritolato la pallina antistress, deglutendo amaro. I loro “rapporti”, come li aveva definiti don Pino, riguardavano un prestito di ottantacinquemila euro, contratto a tassi nettamente superiori a quelli di mercato. Pochi mesi prima, l’avvocato si era convinto che con quella cifra sarebbe riuscito a coprire il debito per un pessimo investimento. La sua banca però non si era trovata d’accordo e l’unica soluzione era stata rivolgersi allo strozzino. «Sono a disposizione, Giuseppe, lo sa bene».

«Cci sta una brava ragazza russa, una cara amica, che ha ’nu proggetto da sottoporre alla Gregor Mendel Foundation».

«Gregor Mendel? Mi spiace ma non credo di conoscerla».

Don Pino aveva sfoderato la sua aria paciosa, espirando nicotina dal naso. «Non tu, Faustino bbello. Il tuo amico Leonardo Domianello però sì. M’hanno dittu che è ’nu pezzo grosso».

«Mi perdoni, Giuseppe, ma non capisco come posso esserle utile».

«Li devi presentare. Devi mettere in contatto la mia amica col tuo compagno». Alla parola contatto, l’anziano aveva fatto un gesto volgare con la mano. «Poi si arrangerà lei… se mm’intendi».

Valvano non sapeva neppure che Domianello lavorasse per quella fantomatica Gregor Mendel Foundation, ma quando aveva compreso il tipo di favore richiestogli si era rasserenato. Anzi, era stato molto disponibile, raccontando perfino che da lì a pochi giorni Leonardo e altri amici sarebbero salpati per una crociera sul Mediterraneo. Forse – aveva sostenuto – poteva essere una buona occasione per la ragazza russa di conoscerlo in un ambiente più particolare. E così era stato, la donna aveva prenotato sulla stessa nave e si erano incontrati a bordo, dove lui, come da accordi, l’aveva presentata all’amico.

A quel pensiero si sentì in colpa: se solo avesse tenuto la bocca chiusa, forse Domianello non sarebbe morto. Con il senno di poi, non sembrava che la russa avesse tutto questo bisogno di essere presentata; probabilmente a don Pino servivano solo i dettagli sulla crociera. Gli stessi che ingenuamente lui aveva rivelato. Ma come poteva prevedere quello che sarebbe successo? E poi, cosa era accaduto realmente? Forse Ylenia aveva fatto la sua proposta e Leonardo aveva rifiutato. O magari la ragione era tutt’altra. Poco importava, ormai, visto che non tutti i mali vengono per nuocere…

Era dalla notte precedente che se lo ripeteva: «Non tutti i mali vengono per nuocere». Quasi cominciava a crederci davvero. Nonostante l’apparenza di uomo rude, riteneva di essere a suo modo una persona sensibile. Non aveva avuto una vita facile e forse era quella la ragione della sua espressione perennemente imbronciata. La stessa che gli aveva fatto guadagnare il soprannome di Muso.

Per cercare di rimettere in sesto la sua vita – un divorzio alle spalle e una nuova moglie peggiore della prima – si era imbarcato nell’investimento al quale aveva contribuito anche don Pino. Ma era andato male. Anzi malissimo.

La ruota però, adesso, aveva finalmente girato.

«Non tutti i mali vengono per nuocere», si ripeté, tirando fuori dalla camicia madida il cellulare che era stato dell’amico. Ormai lui era morto e quindi non gli sarebbe più servito né il telefono, né quello che conteneva.

Bitcoin.

Soldi elettronici. Soldi fatti di bit ma pur sempre soldi…

Leonardo li aveva vinti a poker al Casinò della nave. Partita memorabile: un nerd giapponese, convinto di avere la mano della vita, aveva gettato nel piatto uno smartphone. «Quattrocentodieci Bitcoin. Al cambio attuale poco meno di duecentomila dollari», aveva comunicato, asciutto. Gli altri giocatori avevano lasciato, ma non il Pezza, che aveva “visto” la puntata dell’avversario giocandosi addirittura il suo appartamento. E gli era andata bene: scala minima contro scala massima.

Il risultato era che l’orientale aveva lanciato la sua applicazione “wallet”, il portafoglio elettronico, e aveva riversato quella piccola fortuna nel dispositivo di Domianello. Come il vero denaro, il flusso di dati era passato dal salvadanaio di uno smartphone a quello di un altro.

Quando Domianello era morto, Valvano aveva preso la palla al balzo: aveva cercato in ogni modo il telefono dell’amico per appropriarsi della vincita e alla fine l’aveva trovato. Poiché i Bitcoin sono memorizzati direttamente sul dispositivo che li contiene (e tutti i trasferimenti sono pubblici), non poteva però riversarli nel suo smartphone. Per evitare di lasciare tracce, così, si era semplicemente messo quello dell’amico in tasca.

E adesso era nel suo studio con un sorriso amaro sul viso. A Domianello i soldi non sarebbero più serviti, ma almeno la sua vincita avrebbe reso più felice lui. Come diceva sempre, il mondo è mosso dal denaro: lo stesso motore trainante che lo aveva spinto a fare ciò che aveva fatto sulla nave.

 

Ancora accaldato, girò attorno alla scrivania e mosse il mouse del computer. Il sole entrava di taglio e disegnava una strana V sul tappeto. Il riflesso della finestra, dietro di lui, rendeva difficile la lettura dello schermo piatto, quindi si voltò e tirò la tenda.

Conosceva abbastanza bene il mondo del denaro elettronico per sapere come agire. Per rimanere anonimo aveva deciso che avrebbe trasferito il gruzzolo su un cosiddetto paper wallet, un documento cartaceo, più o meno il corrispondente di un assegno al portatore. Si collegò a internet e generò le “chiavi” – paragonabili ai codici IBAN bancari – necessarie per spostare i soldi. Quando l’algoritmo ebbe terminato si fermò a contemplare lo schermo.

 

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1. SHARE – chiave pubblica

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2. SECRET – chiave privata

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Tutto si riduceva a quello: i soldi di Domianello sarebbero stati nascosti chissà dove, tra i componenti di qualche server, e tutto sarebbe avvenuto tramite due semplici QR code.

In pochi secondi completò la procedura: accese il Next M3 di Domianello e, inquadrando con la fotocamera il primo codice, inviò i soldi al suo nuovo portafoglio cartaceo. Come denaro contante, ora doveva solo stampare e custodire le due “chiavi” in cassaforte. Facile e sicuro. Dopo aver ottenuto conferma che l’operazione fosse stata eseguita correttamente, tolse la SIM al telefono di Domianello e lo spense. Poi si appoggiò allo schienale massaggiandosi le tempie. Gli restavano solo da cancellare le e-mail che lo collocavano alla crociera.

 

Più o meno nello stesso istante, dopo aver riconosciuto Valvano che tirava la tenda della finestra, la motociclista si sfilò il casco. Con movenze sinuose si diresse verso il palazzo. Era una massa armoniosa di muscoli e curve, come un felino che aveva appena individuato il suo pranzo.

Non si chiamava Ylenia, come aveva detto, e non era neppure russa. Su una cosa, però, la sera prima era stata sincera: non amava lasciare un lavoro a metà.