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Ospedale da campo Paradise City, Sierra Leone. Nello stesso istante.

Ora locale 08:55.

 

Una jeep militare sfrecciò lungo la strada centrale del campo, schizzando fango dalle ruote. Superò il prefabbricato utilizzato per gli esami clinici e si arrestò di traverso nei pressi dei generatori.

Dragan Sauer si sistemò gli occhiali da sole e saltò giù, affondando con gli anfibi nel terreno costellato di pozzanghere. Attorno a lui c’era un intenso andirivieni di militari: alcuni pattugliavano la recinzione muniti di AK-47 e altri trasportavano casse di legno verso gli elicotteri. Altri ancora erano alle prese con grosse bobine elettriche mentre un pennacchio di fumo nero si stagliava netto in direzione dei monti Loma.

«Com’è la situazione?», domandò a un soldato di guardia, braccia conserte e basco rosso calato sulla fronte.

Il giovane, immobile sulla scaletta di legno che dava accesso al prefabbricato, scosse il capo. «È morto, capo».

Sauer sbuffò. Una missione in teoria molto semplice si era complicata per colpa sua. Una volta eliminate tutte le cavie – operazione completata con la distruzione dei condizionatori della tensostruttura – avrebbero semplicemente dovuto prelevare i campioni biologici. Se Catilina avesse consegnato subito quella maledetta provetta se la sarebbero cavata molto più in fretta. Ma ormai era troppo tardi: Christopher Kundé aveva preferito portarsi i suoi segreti nella tomba. Dovevano per forza mettere in pratica il piano B, più pericoloso e meno sicuro in termini di risultato.

Mentre tornava verso l’auto, il capo missione estrasse un walkie-talkie e premette il pulsante con l’indice. «Squadra blu, a che punto siamo?»

«Nel giro di pochi minuti dovremmo essere pronti», fu la risposta netta che gli giunse dalla radio.

In quell’istante, dalla grande tenda con il logo SunriseX uscirono tre figure vestite di bianco. Indossavano tute hazmat anticontaminazione. Erano provviste di occhiali protettivi, maschera per la bocca, copricapo resistente ai fluidi e protezioni in Tychem per gambe e stivali. I primi due attraversarono la strada sorreggendo due vassoi con numerose provette di sangue. Il più basso, che camminava dietro di loro, stava armeggiando con i guanti. Quando notò Sauer a distanza di sicurezza mostrò il pollice in su.

«Quarantacinque corpi», esclamò qualche minuto più tardi, subito dopo essersi cambiato e lavato nell’attiguo locale di decontaminazione. «Tutto come da programma: soffocati grazie al nostro intervento ed esaminati uno a uno: tutti i cadaveri risultano positivi al VP25».

«Bene. Almeno su questo non ha mentito».

«Abbiamo prelevato le provette del laboratorio: sono novantasei, due per ogni cavia. In pratica ce ne sono sei in più: in una potrebbe esserci quello che cerchiamo».

«Le avete messe in sicurezza?».

L’uomo annuì, indicando un grosso contenitore rivestito di polistirolo che un suo collega stava caricando sul pianale di un camion.

«Cosa succederebbe se se ne rompesse una?»

«Auguriamoci che non succeda…». Lo scienziato sfoderò un sorriso sarcastico.

«Capo». Una voce squillante gracchiò dalla radio.

«Ti ascolto. Parla». Sauer si voltò verso la recinzione sormontata dal filo spinato.

«Siamo pronti: abbiamo formattato tutti i computer, cancellato gli hard disk e bruciato i faldoni di documenti. Le cariche esplosive sono piazzate sulla tenda, sugli edifici principali, sul laboratorio e sull’alloggio di Catilina».

«Avete finito di perquisire le case in costruzione in fondo al campo? Tracce di quel file .mov?»

«Nessuna. Le case sono disabitate».

«Ok. Allora qui abbiamo finito».

In quell’istante, dalla radura costellata di spuntoni di rocce, si sollevò il clangore delle pale dei tre elicotteri. I militari stavano lentamente prendendo posizione e gli ultimi soldati si allontanavano dall’edificio principale.

«Squadra rossa pronti».

Sauer rimontò sulla jeep e batté con violenza sulla portiera. «Togliamo le tende».

 

Dieci minuti dopo, i tre NHI NH90 stavano già sorvolando l’area di sicurezza di tre chilometri attorno all’installazione. Mentre le prime esplosioni dipingevano di indaco il cielo mattutino, Sauer dette un’ultima occhiata all’assembramento di edifici del campo. Di lì a poco sarebbe diventata una città fantasma.