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Mosca, 14 agosto. Nello stesso momento.
Ora locale 07:05.
La berlina scura si destreggiò nel traffico mattutino di Mosca e svoltò su Leninsky Avenue. L’arrivo all’aeroporto Vnukovo, a sud-ovest della capitale, era ormai prossimo.
Monsignor Dominique De Lestes si sistemò sul sedile posteriore e sbirciò fuori dal finestrino: pioveva e il cielo era una lavagna grigia e uniforme, punteggiata dalle luci ancora accese sui grattacieli dello skyline.
Estrasse alcuni documenti dalla sua ventiquattrore e cominciò a leggere. Era molto soddisfatto per l’esito di quel viaggio che l’aveva portato al monastero di Nuova Gerusalemme, nei pressi dell’isolata cittadina di Istra. Ma era tempo di tornare a San Marino.
Nonostante i numerosi acciacchi e i settantun anni appena compiuti, riteneva di avere ancora molti incarichi da portare a termine. La Gregor Mendel Foundation, la fondazione vaticana che dirigeva da un lustro, aveva decine di progetti aperti e lui sapeva di essere indispensabile.
«Ha chiamato?», ruggì all’indirizzo di padre Mari, il suo segretario che occupava il sedile anteriore, accanto all’autista.
L’uomo estrasse per l’ennesima volta lo smartphone dal taschino del clergyman e scosse il capo.
«Questa mattina c’è l’ispezione della SunriseX International».
«Deve considerare che in Sierra Leone adesso è ancora notte fonda».
Il monsignore annuì, socchiudendo gli occhi. «Gli ho detto di avvisarci quando se ne andranno. Ma potremmo essere già in volo». La telefonata che stava aspettando era molto importante, qualcuno l’avrebbe perfino definita “vitale”. Ma per adesso poteva solo attendere. Per distrarsi tornò al fascicolo che aveva di fronte, assumendo la tipica posizione di quando rifletteva: mani giunte sotto il naso, sguardo fisso. Il titolo del documento – The Wardenclyffe tower – era seguito da un lungo sottotitolo in cirillico. Appena cominciò a leggerlo sembrò rasserenarsi: almeno quel progetto stava andando per il verso giusto.
Dopo poco, l’auto si immise nella E101, un’arteria a sei corsie che correva in direzione sud-ovest, e in meno di dieci minuti fu a destinazione. Il terminal, che si stagliava sotto un cielo plumbeo, era un complesso imponente rivestito di vetri a specchio. Sulla facciata campeggiava la scritta АЭРОПОРТ ВНУКОВО e davanti all’ingresso una colonna d’auto e furgoni sostava con i motori accesi.
«Dòbrij dèn’. Buongiorno». Un giovane addetto ai voli privati, un grosso ombrello nero in mano, attendeva la limousine sul marciapiede. «Da questa parte, prego. Il Falcon è pronto».
Monsignor De Lestes e padre Mari lo seguirono in silenzio fino a una piccola sala d’aspetto. Oltre le vetrate si vedevano diversi velivoli battuti dal vento e dagli scrosci d’acqua. Il loro aereo era fermo sulla pista, a poca distanza, una luce che lampeggiava sotto la carlinga.
«Controlla ancora, per favore», ripeté il monsignore al segretario, mentre saliva incerto la scaletta.
L’assistente, che conosceva bene la ragione di tanta ansia, verificò nuovamente. «Nulla, purtroppo».
I due passeggeri si accomodarono sui sedili in pelle della cabina e in pochi minuti il Falcon 50 raggiunse la zona di decollo, in attesa dell’autorizzazione. A causa del maltempo che imperversava su Mosca, quella mattina molti voli erano stati dirottati su Vnukovo, ragione per la quale la torre di controllo tardò a dare l’ok. Quel ritardo fu determinante, perché quando finalmente l’aereo poté muoversi, sulla runway strip, la parte di sicurezza sul bordo pista, un mezzo di terra si mise in moto.
Tutto accadde molto velocemente, tanto che nessuno degli occupanti se ne rese conto fino all’ultimo istante. Mentre il Falcon prendeva velocità, l’autoarticolato compì una manovra maldestra – risultò poi che l’autista era ubriaco – finendo con il retro treno sulla pista.
Il carrello del Falcon si era appena staccato dal suolo quando con gli pneumatici urtò il camion. Il velivolo piegò vertiginosamente a destra e l’ala strisciò sull’asfalto bagnato. Uno dei motori cominciò a emettere un profluvio di scintille ma ciò nonostante il pilota riuscì a far staccare il velivolo dal suolo. L’illusione che il decollo fosse andato per il meglio durò però solo una frazione di secondo: una fiammata risalì l’ala e raggiunse il serbatoio di carburante. Il Jet rollò, inclinandosi di quarantacinque gradi. L’esplosione fece divampare un bagliore accecante, seguito da un boato rapido e violento che squarciò l’aria come un tuono.
Pochi istanti più tardi, una delle celle LTE che servivano l’aeroporto provò a instradare una telefonata sul numero di cellulare di monsignor De Lestes. Il telefono era irraggiungibile.