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Cittadina di Istra, oblast’ di Mosca, 16 agosto.

Ora locale 09:55.

 

«L’installazione principale è stata costruita alla fine del 1970». Il fisico Arkadiy Solovyov si spostò in direzione della torre metallica che svettava al centro di un grande spiazzo. Si allacciò il camice e gesticolando proseguì: «Il Governo sovietico l’ha tenuta segreta per anni. Doveva servire per compiere studi sulla resistenza ai fulmini delle apparecchiature elettriche e dei veicoli sperimentali come il jet Sukhoi».

Sforza si abbasso i Ray-Ban, ammirato. Si trovava in un complesso industriale cinto da muri alti sei metri e costruito al centro di una foresta di betulle. All’interno, oltre a una serie di edifici di cemento armato, si erigeva una grande costruzione metallica: aveva l’aspetto di un grosso traliccio a forma circolare e si innalzava per quaranta metri sopra le fronde degli alberi circostanti. Dall’esame degli spostamenti di monsignor De Lestes, quella struttura a circa quaranta chilometri da Mosca era l’ultimo luogo visitato prima dell’incidente aereo.

Per l’ispettore, quell’indagine si stava facendo interessante: doveva nuovamente affrontare tentativi di depistaggio orditi dalle autorità russe. Non era la prima volta, visto che due mesi prima aveva avuto a che fare con l’assassinio di Stanislav Kuznetsov. Si trattava di un giovane politico, esponente di Opposizione Russa, e la sua morte era stata proprio la scusa per il viaggio di Sforza nella terra degli zar.

Nonostante il distintivo dell’Interpol, l’ispettore non si considerava un paladino della verità a ogni costo. Tutt’altro, era un uomo di mondo. Nella sua lunga carriera a caccia di traffici internazionali di armi e droga era dovuto scendere spesso a quelli che lui definiva “innocui compromessi”. Ciò che sapeva fare meglio era muoversi agilmente nella zona d’ombra dei regolamenti governativi: un limite a volte impercettibile che gli consentiva di fare il suo lavoro e al tempo stesso trarre qualche vantaggio.

“Ho speso molti soldi per alcol, donne e macchine veloci… il resto l’ho sperperato”, era sempre stato il suo motto, ispirato alla filosofia del suo idolo calcistico, George Best. Per far sì che il suo bisogno sfrenato di lusso e di viaggi potesse essere soddisfatto aveva avuto spesso il bisogno di integrare lo stipendio dell’Interpol. Tutto fino a due anni prima, quando un’indagine, nata per caso sull’apparente suicidio del curatore dei Musei Vaticani, gli aveva fatto guadagnare un assegno esentasse a sei zeri. Si trattava di una cifra che gli avrebbe permesso di vivere nell’agio per il resto della sua vita, ma di cui non avrebbe mai potuto godere liberamente.

Per evitare di attrarre l’attenzione, o peggio di essere scoperto, Sforza aveva così continuato a lavorare per l’Interpol. Il suo progetto prevedeva che, dopo un lasso di tempo ragionevole, si sarebbe trasferito fuori dalla Francia, dove nessuno avrebbe fatto domande scomode.

E l’occasione si era presentata con l’assassinio di Stanislav Kuznetsov, evento che aveva spinto la comunità internazionale a inviare osservatori in Russia. Poiché gli incidenti a giornalisti e politici contrari al regime erano aumentati in modo sensibile, l’Interpol aveva scelto proprio Sforza: uno degli uomini con maggiore esperienza. Com’era prevedibile, durante il lungo soggiorno all’Hilton Leningradskaya i colpevoli non erano stati scoperti. In compenso, però, Nigel aveva ottenuto ciò che chiedeva: alcuni politici filogovernativi gli avevano promesso la cittadinanza russa in cambio di un po’ di superficialità nell’indagine.

Lui, naturalmente, aveva eseguito, sapendo che presto sarebbe diventato cittadino russo e avrebbe potuto lasciare l’Interpol. Nel frattempo, però, doveva giustificare la sua permanenza a Mosca e il modo migliore era condurre l’indagine sulla morte di monsignor Dominique De Lestes.

 

«Che cos’è esattamente questo posto?», indagò Nigel Sforza a indirizzo di Arkadiy Solovyov, che lo aveva ricevuto venti minuti prima. Si trovava all’interno del grande complesso industriale costruito attorno alla torre metallica. Era stato sufficiente fare il nome della fondazione Mendel per ottenere un’inaspettata ospitalità: il fisico, che assieme al fratello Leonid era in trattativa con finanziatori di San Marino, era stato felice di riceverlo.

«Credevo che il monsignore avesse già sottoposto la nostra “torre di Tesla” al consiglio di amministrazione», si accigliò lo scienziato. Era un uomo emaciato sulla cinquantina, con occhiaie e zigomi simili a pozzi neri e la testa corvina. Indossava un camice più grande della sua taglia e un abito dozzinale accompagnato a una camicia con aloni di sudore sbottonata sul collo. «Come forse saprà l’Ulybka, i nostri vecchi finanziatori, ha chiuso il progetto. L’altro ieri De Lestes mi ha confermato che voi invece eravate interessati».

Sforza sorrise, pronto a mentire. «Certo, prima dello sfortunato incidente in cui è rimasto coinvolto, il nostro compianto presidente ha comunicato al consiglio le sue decisioni. Ciò non toglie che adesso sarà necessaria qualche riflessione in più». L’ispettore toccò il braccio di Solovyov con un gesto amichevole. Se voleva individuare i mandanti dell’omicidio di De Lestes, doveva azzardare qualcosa in più. «Per decidere, le informazioni non guastano mai».

Il fisico annuì.

«Immagini di parlare al consiglio d’amministrazione della Mendel Foundation», rincarò la dose Sforza. «Mi convinca che la sua “torre di Tesla” vale i soldi che le abbiamo promesso».

Solovyov si spostò di qualche passo, le spalle flosce e il capo chino sulla punta delle scarpe logore. «Sa perché gli americani odiano la Russia?».

Sforza lo invitò a proseguire e infilò le mani nelle tasche dei jeans.

«Perché con la torre di Tesla potremo creare e trasmettere energia libera. Tutti potranno beneficiarne senza più dipendere dai combustibili fossili. Con la nostra energia libera il dominio degli Stati Uniti, legato indissolubilmente al petrolio, è destinato a cessare». Il fisico si fermò accanto a una rete metallica, nella cosiddetta “zona calda”, il cuscinetto di terra tra i capannoni e i tralicci della torre. L’energia statica gli fece rizzare i capelli. «Se vogliamo essere liberi dobbiamo avere energia libera virtualmente infinita».

«Mi può spiegare come funziona?»

«Quando un fulmine si scarica a terra, rilascia una potenza pari a quella prodotta da tutte le centrali nucleari, solari e termoelettriche della Russia. La durata però è solo di pochi microsecondi».

«Questa tecnologia permette di immagazzinare quell’energia?»

«Non solo: i progetti originari di Tesla prevedono anche la trasmissione senza fili». Lo scienziato accennò un tiepido sorriso, un lampo d’orgoglio negli occhi. «Energia gratis, per tutti e dappertutto».

Sforza si grattò il capo, perplesso. Le rivelazioni dell’uomo, se confermate, costituivano una ragione sufficiente a giustificare la morte di chiunque avesse sostenuto quel progetto. Energia gratis significava montagne di denaro perso da un sacco di gente. E il denaro, per esperienza, rappresentava il movente più gettonato in ogni delitto. «Ma siete davvero in grado di farlo? Da quel poco che so di Nikola Tesla, il progetto risale ai primi del Novecento. Come mai in cent’anni nessuno è mai stato in grado di farlo funzionare realmente?».

A quelle parole, lo scienziato accarezzò con orgoglio la recinzione. «Tesla era una persona strana. I suoi studi erano troppo avanzati per il tempo in cui gli fu concesso di vivere. Questa è una delle ragioni per cui le sue scoperte sono spesso avvolte da un’aura di mistero». Solovyov fece una pausa. «Signor Sforza, oggi anche chi non capisce nulla di fisica si sente libero di parlare di Tesla. Molti complottisti lo incolpano delle cose più assurde, come la caduta del meteorite di Tunguska. La verità è che se studiamo i suoi scritti con il bagaglio delle attuali concezioni scientifiche, quegli elaborati cominciano ad acquistare senso».

«Quindi funziona?»

«Funzionerà», osservò lo scienziato, duro. Fece tristemente balenare lo sguardo su un capannone dalla parte opposta della struttura. Era lì che suo fratello Leonid trascorreva la maggior parte del suo tempo per completare gli esperimenti… «Ma abbiamo bisogno del finanziamento promesso».

 

Dieci minuti dopo, mentre tornava alla macchina che aveva noleggiato a Mosca, Nigel Sforza rifletteva.

Solovyov nascondeva certamente qualcosa. Senza volerlo aveva parlato dell’Ulybka Corporation, una multinazionale russa attiva nella bioingegneria che, a quanto l’ispettore sapeva, non aveva nulla a che fare con l’energia.

Non riusciva a vedere una correlazione ma se la storia sulla torre di Tesla era vera, si spiegavano molte cose.

Energia gratis e per tutti.

Ammesso che il progetto fosse stato davvero completato, De Lestes si sarebbe fatto molti nemici. Troppi: multinazionali, compagnie petrolifere, arabi, americani e perché no, oligarchi russi. Una lista di sospetti talmente lunga da essere del tutto inutilizzabile.

Erano però il tipo di colpevoli che stimolavano di più l’ispettore. Mentre attendeva che il ministero gli fornisse i documenti per la nuova cittadinanza russa, forse poteva tornare utile cercare di capirci di più.

Per farlo doveva trovare un’altra pista: qualcosa che restringesse il campo. L’e-mail. Quella comunicazione criptata ricevuta dal monsignore – la stessa che la scientifica di Lione gli aveva inoltrato il giorno precedente – forse poteva essere un indizio. Ma non era ancora stata decodificata.

Scuotendo il capo uscì dal cancello principale e si diresse al parcheggio. Il terreno era bagnato e coperto di foglie. Sull’asfalto risaltavano dei cuori disegnati con il gesso e scritte in cirillico. Pochi giorni prima, a quanto pareva, c’era stata una fiaccolata in ricordo del “delitto degli infanti dalla bocca cucita”, che erano stati ritrovati proprio in quei boschi.

Sforza alzò il capo e mentre apriva la maniglia ebbe la netta impressione che qualcuno lo osservasse dalla foresta. Rimase immobile per qualche istante: c’era silenzio, rotto solo da qualche gracchiare di corvi, eppure la sensazione era netta. Non riuscì a focalizzare l’attenzione su un punto preciso del fogliame perché in quell’istante udì uno stridio di pneumatici.

Si voltò strizzando gli occhi e oltre gli alberi vide comparire un grosso fuoristrada con vetri oscurati. Era un’auto del tutto anonima, non fosse stato per il piccolo logo in cirillico sulla fiancata: УЛЫБКА, ulybka, pronunciato in russo. Socchiuse appena le labbra ma non fece in tempo a dire nulla: l’auto frenò davanti a lui e ne uscirono tre uomini in abito scuro.

«Sforza!», urlò il primo. «Venga con noi!».

Lo presero di peso e lo caricarono sul sedile posteriore.

In dodici secondi era tutto concluso: come era arrivata, l’auto ripartì a razzo e imboccò la strada sterrata che serpeggiava nel bosco.