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Cittadina di Anamã, Amazzonia. Nello stesso istante.
Ora locale 12:30.
Caboclo.
Quell’appellativo, tradotto anche con la parola “meticcio”, aveva accompagnato padre Fernandes per la sua intera esistenza.
Pur avendo trascorso oltre la metà della sua vita in Amazzonia, il gesuita era nato dove non c’erano né foreste né fiumi. Le Ande erano state infatti la sua casa fino all’età di diciotto anni: sua madre, una geologa di origine indios, vi aveva conosciuto suo padre, argentino, durante una spedizione sul Cerro Bonete e lì avevano deciso di vivere.
Fin da giovanissimo, Gonçalo aveva avuto una personalità inquieta. Il pensiero di chi siamo, da dove veniamo e cosa facciamo sulla Terra era stato per lui fonte di incertezze e turbamenti. E tutte quelle riflessioni non avevano fatto altro che avvicinarlo alla religione.
Presi i voti, si era spogliato quasi subito del ruolo pastorale e si era lasciato trasportare in una dimensione a lui più consona. Si era unito alle persone più semplici e umili e aveva deciso di farlo in uno dei luoghi in cui la precarietà della condizione umana lo faceva sentire più vicino a Dio.
Dalle montagne dell’Argentina si era così trasferito in Brasile, nella terra di sua madre. Lì aveva abbandonato i ramponi e aveva imparato a manovrare una fragile canoa, a dissodare la terra e a seminarla. Aveva vinto le iniziali paure dei caimani, dei serpenti, delle liane di fuoco, dei nidi di formiche. La spettacolare bellezza di quelle foreste e il richiamo della natura gli avevano dato la certezza che aveva scelto la strada giusta per lui.
La Missione sul fiume Rio Solimões, fondata da un gesuita americano oltre cento anni prima, era diventata la sua casa per tre decenni. Lì aveva vissuto a fianco degli Awá, suo popolo per metà, e aveva condiviso con loro momenti felici e altri tristi. Lì, aveva previsto che sarebbe invecchiato, ma le cose erano andate diversamente…
Un anno prima, durante gli scavi per l’ampliamento della chiesetta, era stata portata alla luce una tomba di cui nessuno conosceva l’esistenza. Nonostante si trattasse di un tumulo umile, due semplici sarcofagi e poche incisioni sul legno, da quel ritrovamento gli eventi erano mutati repentinamente: le ricerche avevano infatti rivelato che si trattava delle spoglie terrene di padre Charles O’Reilly, il fondatore della Missione. Se la notizia non fosse arrivata a Roma, probabilmente tutto sarebbe finito lì, invece nel mese di gennaio si era presentato ai cancelli un certo Leonardo Domianello, un archeologo. E il suo arrivo era coinciso con l’inizio della fine…
«Lascia parlare me», consigliò a John Tan-Tan, mentre con la pagaia remava energicamente. La canoa si avvicinò all’ansa del fiume e oltre gli alberi comparvero le prime casupole.
Dopo essere fuggiti in fretta e furia dalla Missione avevano trascorso la notte nella foresta, accampati su due amache di fortuna, e successivamente erano tornati al pontile. Da lì erano risaliti sulla piccola imbarcazione e si erano spinti a fatica verso ovest.
«Cosa facciamo ora?», aveva singhiozzato John Tan-Tan, appena il missionario era tornato da lui, il volto trasfigurato e uno sguardo di terrore dipinto negli occhi. Il bambino era rimasto lontano dalle scene più cruente ma, dopo quanto accaduto ai genitori, sembrava aver compreso tutto.
«Chiediamo aiuto!», era stata la risposta secca di padre Fernandes. Aveva ripensato ai numerosi colloqui serali con Domianello, davanti a un bicchiere di brandy, e aveva elaborato un piano: si era affrettato a riempire uno zaino con le provviste e poi erano fuggiti sotto la volta verde e impenetrabile della foresta.
E adesso erano lì, in quello sgangherato assembramento di baracche che gli abitanti del posto chiamavano Anamã.
Il villaggio, popolato da poche migliaia di anime, si incuneava come una lingua di deserto nel verde rigoglioso della foresta. Gli edifici ammassati lungo il fiume erano in gran parte di legno, scoloriti e fatiscenti. Alcuni, che svettavano sulla vegetazione circostante, avevano tetti di lamiera, altri coperture di canne. Sotto ragnatele di fili elettrici e un cartello con la scritta BEM-VINDOS svettava un capannone affacciato sul pontile. Attraccate c’erano diverse imbarcazioni di fortuna, un paio di pescherecci mezzo arrugginiti, un gommone e una barca a due piani che ricordava il Mississippi di Tom Sawyer.
«Stiamo andando alla casa de tijolos?», domandò John Tan-Tan, appena ebbe messo i piedi sull’assito scricchiolante. Era già stato ad Anamã qualche mese prima: aveva accompagnato Leonardo Domianello in un edificio di mattoni grigi e lo aveva aspettato fuori per quasi un’ora.
«Jonathan, ti ricordi dov’è, esattamente?», lo interrogò il missionario, ormeggiando la canoa a un palo di legno che fuoriusciva dall’acqua verdastra.
Il bambino annuì e indicò in direzione di alcune casupole. Un tempo le travi di legno dovevano essere state blu ma adesso erano di un colore tendente al marroncino. «Da quella parte».
Padre Fernandes gli diede la mano, sistemò lo zaino in spalla e si addentrò in un sentiero di terra battuta. Percorsero poche centinaia di metri, superando una chiesa e costeggiando una schiera di palafitte, tutte con il portico direttamente sul fiume. Raggiunta la fine della via, trovarono un anziano a torso nudo affacciato a una finestra. Il missionario si avvicinò e chiese indicazioni.
«Siamo quasi arrivati. Metti le mani in tasca e non parlare con nessuno», comunicò subito dopo al bambino. E in effetti, al di là di una casa coloniale a due piani, sulla cui facciata sventolavano panni stesi ad asciugare, comparve un edificio con il tetto di cemento.
CASA DE TIJOLOS. IMPORT & EXPORT, diceva una piccola insegna accanto alla porta. Al vetro erano affissi alcuni adesivi raffiguranti marchi di American Express, Visa e MasterCard e le veneziane erano oscurate.
«C’è nessuno?». Padre Fernandes entrò, lasciando il bambino fuori dalla porta. Sopra di lui una campanella tintinnò.
Il locale era spoglio, con un grosso pappagallo variopinto appollaiato sul trespolo e una scrivania abbastanza sgombra e ordinata. I fogli fuori dai raccoglitori erano etichettati e impilati. Faceva fresco.
«Buongiorno». Da una porta laterale sbucò una donna mora sulla trentina, i lineamenti inconfondibili degli indios. «Sono Amélia, come posso aiutarla?»
«Devo recapitare un messaggio», cominciò padre Fernandes in portoghese. «È di massima urgenza: riguarda Ararat». Pronunciò l’ultima parola lentamente e con enfasi, per essere certo che fosse percepita nel modo corretto.
«Prego?»
«Sono sicuro che sa di cosa sto parlando», azzardò. Non conosceva tutti i dettagli, ma Domianello usava proprio quell’import-export per spedire i reperti rinvenuti alla Missione. Era probabile che conoscessero il progetto o quantomeno che fossero in contatto con “l’organizzazione”.
La donna lo studiò senza dire nulla. Osservò gli abiti sporchi e logori del missionario, cercando di capire chi avesse di fronte.
«Senta, so cosa contenevano quelle provette», rincarò la dose il religioso, accompagnando le sue parole con un gesto plateale delle braccia. «Erano state prese alla Missione O’Reilly, la mia Missione… e adesso, per colpa di Ararat, è stata rasa al suolo: hanno ucciso tutti; sono tutti morti!».
Amélia apparve colpita. Rimase ancora in silenzio per diversi secondi, la lingua che affiorava nervosamente tra le labbra. Alla fine si avvicinò al religioso e sussurrò: «Forse posso mettervi in contatto. Qual è il messaggio?».