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Mosca. Alcune ore dopo l’incidente aereo.
Ora locale 11:20.
La Ford Crown Victoria si fermò direttamente lungo la pista dell’aeroporto Vnukovo. Era una vecchia auto – in dotazione al dipartimento di polizia di Mosca fin dagli anni Novanta – e fatta eccezione per la scritta sulla fiancata, ricordava in tutto e per tutto i taxi gialli di New York.
«Mi aspetti qui. Sarà una cosa breve», comunicò all’autista l’ispettore Nigel Sforza dell’Interpol. Scese sull’erba bagnata e strizzò gli occhi: oltre le nuvolaglie che si muovevano veloci sopra il terminal cercava di farsi strada un pallido sole.
«Piacere di conoscerla, ispettore. Sono il tenente Anatoly Bogdanow del МУР». L’uomo, di bassa statura e dall’aspetto simile a quello di un capo cameriere, tese la mano.
«Addirittura il dipartimento investigazioni criminali?». Sforza la strinse e sorrise. Aveva già sentito nominare Bogdanow ma non ricordava dove. In ogni caso, si aspettava di trovare la zona dell’incidente poco presidiata, invece, oltre al militare che gli era andato incontro, c’erano diversi mezzi e agenti di supporto. Nel punto dove il velivolo si era schiantato, l’asfalto era cosparso di una schiuma bianca e i resti erano già stati spostati sulla blast pad, la zona iniziale della pista. «Mi hanno detto che si è trattato di un incidente. Non è così?»
«Omicidio colposo, in effetti».
«L’autista di uno dei mezzi dell’aeroporto. Giusto?»
«Corretto. Ha già confessato. Era ubriaco», confermò il poliziotto. «Il caso è chiuso, ma se desidera fargli delle domande lo metto a sua disposizione per qualche minuto».
Sforza annuì e si infilò i Ray-Ban. Era un cinquantenne dal portamento giovanile, di bell’aspetto e con la battuta sempre pronta. Ispettore navigato dell’Interpol, si trovava a Mosca da due mesi: la scusa era l’indagine sull’omicidio di uno degli esponenti di Opposizione Russa, ma la vera ragione era più personale. Quando a Lione era giunta la notizia che monsignor De Lestes (cittadino francese e personaggio molto noto) era saltato per aria, gli avevano chiesto di intervenire. L’indagine, come spesso accadeva in quei casi, sarebbe stata gestita direttamente dalle autorità locali, le quali però gli avrebbero consentito di dare almeno un’occhiata.
«Il colpevole si chiama Oleg Zaitsev», illustrò Bogdanow, mentre attraversavano un piazzale tinteggiato con strisce gialle e nere. Poco lontano, un grosso Airbus A320, con il logo AЭРОФЛОТ sulla livrea d’argento, si stava muovendo. «Cinquantasei anni, qualche precedente per droga e guida in stato di ebrezza».
Quando lo raggiunsero, il reo confesso era accomodato nella parte posteriore di un furgone, il mento abbassato sul petto. Tarchiato e corpulento, aveva l’aspetto di un giocatore di rugby in pensione. Mentre con lo sguardo setacciava le sue sneakers bianche, giocherellava con il quadrante del cronografo.
«È tutto suo. Nel frattempo le faccio preparare le immagini delle telecamere a circuito chiuso: la dinamica è molto chiara».
Zaitsev alzò gli occhi, dondolando le gambe come un bambino su una sedia troppo alta. Accanto a lui c’era un altro agente in divisa che stava annotando gli estremi del passaporto su un bloc-notes.
«Buongiorno, sono Sforza dell’Interpol». L’ispettore parlò in un russo corretto ma un po’ ingessato.
«Racconti all’ispettore quello che ha detto a noi», lo spronò Bogdanow.
L’uomo, dopo un lungo silenzio, cominciò a parlare con tono cantilenante. «L’aereo. Non l’ho visto. Avevo un carico di valigie da portare al terminal e sono finito sulla pista. È stato un incidente».
«Il luogo dello scontro, là in fondo, è piuttosto distante da dove si fermano i voli di linea». Sforza si guardò attorno, fingendosi spaesato. Si portò una mano sulla fronte a mo’ di visiera. «Non era un po’ lontano dalla zona di carico bagagli?».
Zaitsev lo studiò in silenzio, un mezzo ghigno. Allargò le braccia.
«In effetti risulta che fosse notevolmente fuori posizione», intervenne il tenente.
Sforza annuì e poi si rivolse all’uomo. «Lavora qui da molto?»
«Dieci anni».
«Si trova bene?»
«È un lavoro come un altro».
«Posso chiederle se è sposato?»
«Vedovo con quattro figli».
«E beve molto?»
«Ogni tanto».
«Questa mattina aveva bevuto?»
«Un po’».
«Un bel po’», lo corresse il tenente. «Aveva un tasso alcolemico di 1,4».
L’ispettore accennò un sorriso comprensivo. Il colpevole, come l’aveva definito Bogdanow, sembrava abbastanza tranquillo, considerando quello che aveva fatto. Era fin troppo loquace e soprattutto non aveva né l’aspetto né l’odore di un bevitore abituale.
«Posso dare un’occhiata ai documenti?», domandò all’agente di polizia sull’attenti a fianco del furgone. Quello interrogò con lo sguardo il tenente e dopo un’occhiataccia gli porse una cartellina. All’interno c’era il passaporto di Zaitsev – la foto molto recente – dal quale risultava soltanto un viaggio in Albania, circa un mese prima. C’erano anche due fogli A4, uno con la confessione già firmata, l’altro con i turni di lavoro.
«Posso farle una domanda un po’ personale?», bofonchiò, fissando il bell’orologio e le scarpe nuove di Zaitsev. «Si guadagna molto a lavorare in aeroporto?».
L’uomo non rispose e ci fu un istante d’imbarazzo. Il tenente si spostò di un passo e si fece restituire i documenti. «Temo che il tempo a nostra disposizione sia terminato. Se non le dispiace, adesso vorremmo prenderlo in custodia: il magistrato vorrebbe ascoltarlo».
Sforza annuì, un sorriso di circostanza sulle labbra. Era tutto fin troppo chiaro: avevano già il loro colpevole e non vedevano l’ora che lui se ne andasse. Mentre rimuginava sul breve colloquio, gli venne finalmente in mente dove aveva già sentito il nome di Bogdanow. Il poliziotto era recentemente balzato alle cronache per essersi occupato del cosiddetto “delitto degli infanti dalla bocca cucita”. Si trattava di un fatto di cronaca a cui la stampa russa aveva dato ampio rilievo: poco a nord di Mosca erano stati ritrovati i corpi di due bambini, presumibilmente di quattro o cinque anni, le cui labbra erano state sigillate con una potentissima colla. Sembrava che fossero morti di fame nell’impossibilità di alimentarsi. La particolarità, che aveva scatenato la morbosità dei giornalisti, era che entrambi avevano sei dita nelle mani.
Scosse la testa allontanando quel pensiero; un istante prima che i due agenti chiudessero lo sportello del furgone, Sforza li bloccò con un gesto della mano. «Un’ultima cosa», sentenziò, all’indirizzo di Zaitsev. «Stando al prospetto che ho letto, il suo turno di solito termina alle cinque, mentre l’incidente è avvenuto poco dopo le sette. Potrei sapere chi le ha ordinato di rimanere in servizio più a lungo?».