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Castel Gandolfo. Alcune ore dopo.
Ora locale 15:40.
La Specola, l’osservatorio astronomico Vaticano, si trova nell’ala nord del Palazzo Apostolico affacciato sul lago Albano.
Nonostante lo staff scientifico si sia trasferito da tempo nel più moderno VATT, in Arizona, l’edificio di Castel Gandolfo è ancora operativo. Oltre alla ricca biblioteca, che contiene opere di Copernico, Newton e Keplero, vi hanno sede gli uffici istituzionali e quelli direttivi.
In uno di questi, adiacente all’imponente cupola progettata negli anni Trenta dalla Zeiss, sedeva padre Mattia Frasca. Giocherellava con l’asticella degli occhiali, gli occhi stanchi posati su una fotografia satellitare in bianco e nero.
Aveva da poco compiuto trentott’anni e come la maggior parte dei componenti del gruppo dirigente era un gesuita. Laureato in filosofia, fin da giovanissimo era stato affascinato da Galileo e aveva sempre cercato di coniugare scienza e religione.
«Un costante dialogo tra modernità e tradizione», amava ripetere ai suoi allievi. Un bisogno di modernità che aveva trovato lo sbocco naturale alla Specola Vaticana, uno degli osservatori astronomici più antichi d’Europa.
Nella sua scelta avevano certamente influito le aspre critiche rivolte alla Chiesa, spesso accusata proprio di essere contraria alla scienza. Critiche che con il suo lavoro, giornalmente, cercava di smentire.
Proprio un suo recente discorso ad alcuni studenti, durante una lezione di astronomia, aveva colpito il cardinale Klaus Vonn e gli aveva permesso di arrivare dov’era.
«Dalla religione viene lo scopo dell’uomo, dalla scienza il suo potere per realizzarlo», aveva esordito il gesuita, citando il premio Nobel William Henry Bragg. «A volte ci chiediamo se la religione e la scienza non si oppongano l’una all’altra. Si oppongono come il pollice e le dita delle mani. È un’opposizione per mezzo della quale tutto può essere realizzato».
Il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze era rimasto immobile ad ascoltarlo e poi, alla fine della lezione, l’aveva avvicinato. Quel giovane dall’aria trasognata e il viso angelico poteva essere la persona che stava cercando. E così, di lì a pochi giorni, da semplice astronomo, si era ritrovato a dirigere l’intera Specola.
«Posso disturbarla, direttore». Una voce, sulla porta, richiamò l’attenzione del religioso. «Ci sono novità su quel sito internet».
Frasca alzò lo sguardo verso Scott Trump, il corpulento addetto alla sicurezza informatica. Aveva tra le mani un grosso tablet, un mazzo di chiavi e alcuni fogli di carta.
«Vieni pure». Rassettò le fotografie satellitari e tolse i documenti per far posto all’americano.
«Come ricorderà, qualche settimana fa avevamo intercettato un’e-mail cifrata», cominciò Trump, depositando disordinatamente le sue cose sul tavolo. Cominciò a sfiorare lo schermo touch in più punti. «In realtà la cifratura era piuttosto banale, un semplice codice ASCII. Una volta decodificata, comunque, le comunicazioni rimandavano a Secure Cloud, s-cloud.org».
«Vai avanti, Scott», ingiunse Frasca, che conosceva bene la storia appena riassunta dall’informatico. Era stato proprio lui, circa un mese prima, quando i partner avevano segnalato il problema “Ararat”, a ordinare di tenere d’occhio monsignor De Lestes. Dai controlli sui suoi account e-mail era emerso un sistema di comunicazione che rimandava a un server criptato. Attraverso quello, il presidente della fondazione Mendel impartiva i suoi ordini e riceveva le risposte.
«Fino a oggi gli utenti che accedevano a s-cloud.org lo facevano in modo anonimo, attraverso delle VPN», proseguì Trump. «Scatole cinesi che cambiavano ogni volta. Senza scomodare le autorità, non era facile sapere chi e dove fossero».
«E qual è la novità?».
Scott sorrise, il viso felice come quello di un gatto che ha afferrato un topo. «Ieri qualcuno si è loggato sul sistema da un indirizzo IP rintracciabile».
A quelle parole padre Frasca trasalì. Era convinto che con l’intervento di Ginevra il problema fosse stato aggirato una volta per tutte. Non doveva esserci nessun altro in grado di accedere al sito per le comunicazioni. Se era accaduto, significava che la questione era tutt’altro che risolta… La “resistenza”, come l’aveva definita Vonn, non era stata estirpata. «E scommetto che tu l’hai già rintracciato».
Scott gonfiò il petto, tronfio. «Naturalmente».
Aprì sul tablet un’applicazione e mostrò lo schermo a padre Frasca. Si vedeva la mappa dell’Italia e una serie di righe tratteggiate, i nodi internet. Due indirizzi IP, nei pressi di Roma, erano sottolineati: il primo cominciava con 88 e il secondo con 31.
«Sono indirizzi pubblici: di un operatore mobile e di uno di fibra ottica».
Il gesuita scrutò alternativamente lo schermo e il viso di Trump, preoccupato. «Pensi che l’abbiano già scoperto anche i nostri amici di Ginevra?»
«Se ci siamo arrivati noi…».
Frasca socchiuse gli occhi, sfinito. Da quando si era imbarcato in quel progetto, più di una volta era dovuto scendere a patti con la sua coscienza. Si era sempre ripetuto che lo faceva in nome della volontà di Dio. Ma era davvero così? Di fronte ai cadaveri dell’Amazzonia aveva vacillato e adesso saltava fuori che non era bastato. Quante altre azioni riprovevoli avrebbe dovuto tollerare?
«Conosciamo i nomi degli utenti?», indagò, lasciandosi cadere sulla poltroncina.
«Non gli utenti», lo corresse l’americano. «Uno solo, pare: il contratto per la fibra ottica è a nome della rappresentanza italiana presso l’ONU di piazza Margana, a Roma. L’intestatario della linea mobile è proprio un ambasciatore, un certo Niccolò Nobile».