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Al largo dell’isola di Saseno, Albania.
09:25.
Il piccolo motoscafo Rascala sobbalzò sulle onde come un fuoristrada su un sentiero sconnesso.
Il mare e il cielo davanti alla prua erano di un blu intenso, il primo più scuro, il secondo più chiaro e punteggiato di nubi. La linea di demarcazione che segnava l’orizzonte era netta. A ore dieci cominciava ad apparire il profilo frastagliato dell’isola.
Avvinghiato alla battagliola, Zeno Veneziani si avvicinò al timoniere, proteggendosi il viso dagli schizzi gelati.
«Siamo alle coordinate che mi ha chiesto», grugnì quest’ultimo in inglese, indicando il display del navigatore incastonato nella pilotina di radica. Segnava 40° 29’ 39.96’’ Nord, 19° 16’ 59.700’’ Est.
«Cosa mi sa dire dell’isola?», si informò il PM, scrutando il lussureggiante pendio verde che si faceva sempre più prossimo. Aveva ingaggiato quello scafista subito dopo essere arrivato al porto di Valona, nel Sud dell’Albania, dall’aeroporto di Tirana. Era un tipo sulla quarantina, magro come uno stecco e indossava un logoro cappello da capitano. Aveva detto di chiamarsi Dangëllia, o qualcosa di simile, e che in passato si era recato più volte sull’isola.
«Per decenni Sazan è stata un avamposto militare», illustrò l’uomo, alzando la voce per sovrastare il clangore del motore. Mosse il timone di qualche grado e azionò i comandi affinché il natante rallentasse. «È grande meno di sei chilometri quadrati, per qualcuno è poco più di uno scoglio affacciato sul canale di Otranto».
«Adesso è disabitata?»
«Come ho detto, caduto il regime comunista di Enver Hoxha la base è stata abbandonata. Si dice che fosse stata costruita dai russi e pare che l’abbiano venduta un paio di anni fa».
La barca virò da dritta e lentamente si avvicinò a un piccolo porticciolo. Un pontile con piloni in legno si estendeva per alcuni metri sulla laguna verdeggiante. La spiaggia era bianca ma sorprendentemente corta. Appena oltre, la vegetazione rigogliosa ricopriva le alture che si innalzavano come cumuli di rocce accatastate.
«Ho sentito che l’acquirente sarebbe una multinazionale svizzera, la SunriseX International».
«Questo non lo so», si schermì il marinaio. «Quello che le posso dire è che chiunque fossero, se ne sono andati definitivamente pochi giorni fa».
«Al porto mi diceva che utilizzavano quei capannoni come depositi». Veneziani, poggiandosi alla pilotina per mantenere l’equilibrio, indicò alcuni grandi edifici che svettavano, tra gli alberi, sul lato nord dell’isola. Da quella posizione non era in grado di stabilire le esatte dimensioni. A giudicare dai tralicci che li sostenevano immaginò però potessero contenere anche un paio di Boeing 747.
«Sì, nell’ultimo anno sono arrivate decine di navi, che hanno stoccato container grossi quanto dei camper». Dangëllia gesticolò con la mano, come per salutare qualcuno. «Da quella parte hanno fatto costruire un eliporto, pannelli solari, perfino una gigantesca sala per computer».
«E all’improvviso se ne sono andati», sintetizzò Veneziani.
Il marinaio scosse il capo. «Non direi all’improvviso: almeno da un paio di mesi stormi di elicotteri facevano avanti e indietro, trasportando i bancali su una nave ormeggiata nel canale di Otranto».
Quelle parole dettero a Veneziani la certezza che, qualunque fossero i piani della SunriseX, erano stati programmati con largo anticipo. Alla luce di quella scoperta, le parole della lettera di Catilina, “hanno cominciato” iniziarono ad assumere un significato sinistro. “L’inizio della fine”.
«È sicuro che i capannoni siano completamente abbandonati?», provò a chiedere ancora il PM. Per elaborare una teoria di cui aveva solo pochi frammenti, doveva capire con cosa aveva a che fare esattamente. «Lei come fa a saperlo con certezza?».
L’uomo fissò il PM di sottecchi. Non aveva nessuna intenzione di rispondere alla domanda. Ma a giudicare dalla padronanza con cui il motoscafo si destreggiò nelle secche del porto, Veneziani sospettò che il marinaio fosse stato lì ben più di recente di quanto diceva. “Contrabbando?”.
Nel frattempo la barca attraccò al pontile e l’uomo saltò giù con agilità. Fissò le cime a un ormeggio e scrutò la spiaggia deserta come un padrone di casa appena rientrato da un lungo viaggio.
Veneziani scese a sua volta dal motoscafo. Se Dangëllia diceva il vero, quel viaggio era stato inutile. Era su una pista morta. Qualunque cosa avesse fatto la SunriseX a Saseno si era da poco conclusa.
Per un istante, mentre inspirava l’aria ricca di salsedine, ripensò a Niccolò Nobile. Solo pochi minuti prima aveva ricevuto un suo messaggio che gli chiedeva un appuntamento.
“Ho una teoria su Muso e Pezza”, diceva l’ambasciatore. Non chiariva nulla di più, ma a quel punto, una teoria alternativa non poteva che essere positiva. L’istinto gli suggeriva che i piani della SunriseX dovevano essere in qualche modo connessi con la morte di Valvano e Domianello. Forse parlare con Nobile poteva aiutarlo a far luce sulla parte della vicenda che ancora non gli era chiara.
Non fece in tempo a completare il ragionamento che la melodia di Vitti ’na crozza, la canzone siciliana che usava come suoneria, lo distrasse. Tirò fuori il cellulare e rispose.
«Boss, mi senti?». Era la voce di De Simone, da Roma.
Veneziani si tappò l’orecchio libero con l’indice, avviandosi sul pontile di legno. «Ciao, maresciallo. Dimmi, ci sono sviluppi?».
Ci fu un istante di silenzio. Il PM non capì se la linea era disturbata o più semplicemente all’altra parte l’interlocutore stava indugiando.
«Purtroppo sì», s’incupì la voce del militare, il tono grave. «Ho una pessima notizia».
Pochi minuti più tardi, un uomo sul promontorio ripose il piccolo binocolo Nikon ed estrasse il cellulare.
Si spostò di qualche passo, aggirandosi tra la spianata di pannelli solari dislocati sull’erba. Davanti a lui si ergeva imponente uno degli edifici utilizzati in passato dai russi, suoi connazionali: all’interno era stato allestito un gigantesco data center, un centro elaborazione dati che diffondeva nell’aria il ronzio persistente dei condizionatori e delle ventole di raffreddamento.
Quando fu sufficientemente lontano da riuscire a parlare al telefono, compose il numero e attese. Il motoscafo, nel frattempo, si stava allontanando dal pontile.
«Ylenia», sussurrò appena la voce del suo interlocutore rispose. «È stato qui».