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Colline del Chianti, Toscana, 17 agosto.
Ora locale 10:30.
La pallina da golf si sollevò verso il cielo azzurro e dopo una parabola di duecento metri cadde esattamente sul green.
«Ottimo swing, presidente», si complimentò l’editore Michele De Giovanni, il suo solito tono vagamente effeminato. Si trovava in compagnia di Tommaso Signorini e due caddie, sulla nona buca di uno splendido comprensorio immerso tra gli oliveti e i cipressi della Toscana. Il sole non era ancora alto e dorava appena la cresta delle colline, rilucendo lontano su un piccolo specchio d’acqua.
«Vedremo il mio score alla fine…». Il presidente del Consiglio si girò sui calcagni e accennò un inchino divertito. «Ma battere l’amministratore del più grande gruppo editoriale del Paese forse non è la scelta più saggia!».
«Presidente, sai benissimo che per i miei giornali è un onore dare risalto al tuo Governo». De Giovanni, fisico asciutto e carnagione pallida come cera, si posizionò sulla piazzola sorridendo. «Ricordami il punteggio».
«Michele, sei avanti di quattro lunghezze», lo rimbrottò il presidente, armeggiando con l’impugnatura del suo legno 1. Quella mattina, al posto del consueto doppiopetto, indossava abiti perfettamente in sintonia con l’appuntamento sportivo: una polo bianca e pantaloni neri con la riga abbinati a scarpe da golf bicolore in stile anni Venti.
«Troppo poche. Ancora troppo poche».
Signorini sorrise, scuotendo il capo. Più che da golf, lui era sempre stato un tipo da basket. Alto poco meno di due metri e con un fisico atletico, aveva giocato a livello amatoriale fino alla soglia dei trent’anni. Poi, gli impegni della politica e la necessità di trasferirsi a Roma lo avevano costretto a smettere.
Ma ne era valsa la pena: dopo diversi anni in cui il suo partito era stato relegato all’opposizione, con le ultime elezioni le cose erano cambiate radicalmente.
Il vecchio leader del Fronte Autonomista del Nord, costretto a dimettersi dopo alcuni scandali, gli aveva ceduto il testimone e Signorini aveva sbaragliato la concorrenza. Cavalcando il tragico evento dell’assassinio di Alberto Zorzi, il suo predecessore ucciso in un attentato, aveva saputo parlare al cuore della gente. Aveva detto che il presidente del Consiglio era stato ucciso a causa delle sue idee critiche sull’Unione Europea. Aveva anche spiegato che era necessario riconquistare l’autonomia persa con le cessioni di sovranità a Bruxelles. Il suo euroscetticismo, unito alla disillusione di molti cittadini, gli aveva così consentito di ottenere la maggioranza in parlamento.
Con grande prontezza di spirito, Signorini si era adattato in fretta alla nuova posizione di potere. Ma proprio dalla prospettiva di Palazzo Chigi aveva cominciato a vedere le cose in modo diverso. Aveva conosciuto banchieri, burocrati e lobbisti e si era scontrato con dinamiche di palazzo che non aveva mai minimamente considerato. Le stesse che lo avevano persuaso quasi subito a mutare i suoi propositi battaglieri: dalla sera alla mattina si era così rimangiato tutte le promesse elettorali.
«Abbiamo bisogno di più Europa», aveva cominciato a predicare, supportato dai giornali di Michele De Giovanni. «L’Unione non è il problema ma è parte della soluzione».
Così facendo, come un bruco che si trasforma in farfalla, era diventato membro di rilievo di quelle élite che aveva sempre detto di odiare. E la cosa aveva cominciato a piacergli: il potere lo aveva stregato a tal punto che pur di mantenerlo avrebbe fatto di tutto. Compreso assecondare il capriccio di un cardinale o trovarsi su quel campo da golf.
«Presidente…». Una delle guardie del corpo gli si avvicinò, sussurrando all’orecchio: «È arrivato il suo ospite».
Tommaso Signorini alzò lo sguardo: nei pressi del driving range, la zona destinata alla pratica dei principianti, individuò Niccolò Nobile. Indossava un cappellino da baseball e camminava nervosamente sul prato all’ombra di un pergolato. Di tanto in tanto fissava l’orologio: dava l’impressione di sentirsi a disagio.
«È lui?», si informò De Giovanni, incuriosito. Avevano parlato di quello sfortunato ambasciatore poco prima di cominciare la partita. In un modo o nell’altro, entro breve i suoi giornali se ne sarebbero dovuti occupare.
«Sì. Scusami un secondo, è solo una formalità. Torno subito», dichiarò il premier mentre sistemava la mazza nella sacca di pelle.
«Doppia N!», salutò Nobile un istante più tardi, andandogli incontro. I suoi occhi azzurri lo setacciarono dalla testa ai piedi come uno scanner. «Mi fa piacere che sei riuscito a venire con così poco preavviso. Come va, stai bene?». Si sfilò il guanto e tese la mano con i suoi modi informali che tanto piacevano alla gente.
«Non c’è male, grazie», bofonchiò l’amico, una punta di incertezza nella voce nonostante conoscesse Signorini da molti anni. «Anche tu, vedo». Non sapeva cosa aspettarsi da quell’incontro, ma dopo tutto ciò che gli era successo negli ultimi giorni, non riusciva a immaginare qualcosa di positivo.
Il politico drizzò la schiena e mise una mano attorno alla spalla dell’ambasciatore. Per qualche istante non aprì più bocca, limitandosi a far cadere lo sguardo sul paesaggio verdeggiante. «Posso farti una domanda? Promettimi di essere sincero».
«Certo, ci mancherebbe».
Signorini si voltò, diede le spalle alla buca e posizionò una mano davanti alle labbra. «Che cazzo hai combinato? Di cosa ti sei fatto?», sbraitò fra i denti.
A quelle parole, Nobile rimase interdetto. Sulle prime indietreggiò come colpito da uno schiaffo. In un solo istante, l’espressione dell’amico era cambiata radicalmente: adesso, certo che nessuno potesse udirlo o leggere il suo labiale, aveva assunto uno sguardo truce e un tono aggressivo.
«Mi hai messo in difficoltà!», aggiunse subito dopo Signorini, abbassando il tono di voce.
In difficoltà.
«Tommaso…», provò a balbettare Nobile, ma la voce faticò a uscire dalle corde vocali.
«Mi dicono che sei stato interrogato per la morte di Leonardo Domianello».
«Tommaso», riprovò l’ambasciatore, la voce tremante. «Non so cosa ti hanno raccontato, ma io non c’entro nulla».
«Niccolò, sei un uomo pubblico e occupi un posto che io ti ho fatto avere. Tutto quello che fai si ripercuote inevitabilmente su di me».
«Questo lo so bene. Ma non ho nulla a che fare con la morte di Domianello».
Signorini deglutì ripetutamente, come se avesse una pallina da golf in gola. Anche se aveva già deciso come agire, aveva fatto venire l’amico fino in Toscana per essere sicuro che non ci fossero equivoci. Gli amici non avrebbero tollerato errori.
«Sì. Sì, io ti credo», aggiunse. Ma la voce si fece rauca come quella di un corvo, tremante al pari di una corda tesa. Aveva lo stesso piglio e lo stesso linguaggio corporeo di quando mentiva ai tempi delle superiori: per essere un politico – uno che si guadagnava da vivere con le fandonie – non era affatto un bravo bugiardo. «Sembra che l’indagine sia complessa. Ci sono persone a cui stai complicando la vita con il tuo comportamento».
«Il mio comportamento?». Nobile non era sicuro di capire cosa intendesse Signorini. Qualcosa di sinistro cominciò però a rimbalzargli nella mente. Il suo comportamento aveva a che fare con il codice segreto e con l’inseguimento? Oppure con lo strano documento dell’OMS mostratogli dal PM?
«Lascia che siano le autorità a trovare i colpevoli. Tornatene a New York, subito». Il presidente del Consiglio si fermò, questa volta più accondiscendente. Si guardò di nuovo alle spalle. «Se ti dimentichi in fretta di questa storia sono sicuro che tutto si sistemerà. In caso contrario non sono certo che potrò ancora guardarti le spalle».