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Roma.

21:15.

 

«Forza, Muso. Rispondi». Sprofondato nella poltrona dell’ufficio buio e deserto, Niccolò Nobile tamburellava con le dita sulla scrivania di cristallo. Il telefono squillava libero.

Aveva trascorso l’intero pomeriggio nella sede romana dell’ONU in piazza Margana, e aveva più volte provato a mettersi in contatto con l’amico. Senza fortuna.

Attese quasi un minuto e poi la linea cadde di nuovo.

Cosa doveva fare?

Quella specie di enigma sul monte Ararat e sulla Fenice l’aveva messo in agitazione. Sembrava un messaggio d’addio, inviato segretamente a più destinatari e il Pezza era uno di quelli.

Il finale, “sappiate che da ora anche ciascuno di voi è in pericolo”, continuava a rimbalzargli in testa.

Ciascuno di voi è in pericolo.

Era inutile negare l’evidenza: Domianello era morto pochi minuti prima di ricevere quel messaggio. Non poteva essere una coincidenza. Sapeva che non era una coincidenza.

La domanda però restava. Cosa doveva fare? Doveva avvisare le autorità, rivelando ciò che avevano fatto? Dopotutto la sua voglia di decodificare quello strano codice era stata mossa proprio da quel presentimento: dalla sensazione che nell’e-mail ci fosse qualcosa di utile per capire cosa era accaduto al Pezza.

Scosse il capo. Raccontare la vicenda era assolutamente fuori discussione. Aveva occultato il corpo dell’amico per evitarlo. Ricompose il numero di Fausto Valvano e si alzò di scatto.

Ciascuno di voi è in pericolo.

Anche lui e Muso, adesso, facevano parte di quel “ciascuno di voi”?

Per un secondo fu tentato di aprire il cassetto della scrivania, dove teneva un po’ di coca per le emergenze. Di solito, nei lunghi momenti di solitudine o di sconforto, una tirata gli sollevava il morale.

“Devo restare lucido”, si spronò, cominciando a camminare in tondo nell’ufficio rischiarato solo dalla lampada da tavolo. Mentre si lasciava cadere sulla chaise-longue, il telefono in vivavoce aveva ripreso a squillare a vuoto.