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Civitavecchia. Nello stesso istante.
Ora locale 20:45.
Il peschereccio Santa Sabina entrò nel porto di Civitavecchia mentre le ultime luci del giorno si spegnevano nel Tirreno. Manovrò lentamente, seguendo passo passo gli addetti del porto, e fu fatto ormeggiare al molo 25 nel silenzio più totale.
La banchina antistante, solitamente destinata ai parcheggi, era invece gremita degli uomini della capitaneria di porto, accompagnati da numerosi carabinieri. Due gazzelle con i fari accesi e i lampeggianti blu inseriti, rischiaravano la scena.
«Buonasera, mi chiamo Zeno Veneziani». Appena le cime furono assicurate agli ormeggi, un uomo distinto e brizzolato si fece avanti. Sfoggiava un costoso abito di lino con cravatta regimental intonata e avanzò deciso lungo la passerella. «Sono il sostituto procuratore».
«Piacere, capitano Parisi». L’omone tese la mano. Era in piedi, pantaloncini corti e gambe larghe, al centro del ponte dell’imbarcazione ancora non del tutto ferma. «Venga, faccio strada».
I due, seguiti da un nutrito numero di marinai e da tre agenti in divisa, si spostarono verso poppa, appoggiandosi alla battagliola. La Santa Sabina era un’imbarcazione fatiscente e relativamente piccola, anche se dotata di numerosi strumenti per la pesca a strascico. Allo scafo mezzo arrugginito erano assicurati un verricello a motore e un rullo scorrevole. Accanto alla pilotina si allineavano vistose antenne per le comunicazioni radio VHF.
«È rimasto impigliato nelle reti verso le sette, questa mattina. Poco dopo l’alba», cominciò il capitano, mentre con entrambe le mani apriva un portellone che dava accesso a una minuscola scala a pioli. «Per fortuna abbiamo a bordo una cella frigorifera».
«Stando ai nostri dati eravate in acque territoriali italiane». L’imbarcazione beccheggiava lievemente e il PM si dovette appoggiare a due ganci sulla paratia. Scese i gradini e si ritrovò in un ambiente angusto, colmo di reti e cime arrotolate. Il pavimento e le pareti erano in metallo e ogni piccolo passo rimbombava come in una caverna. «Centonovanta miglia a ovest della Sardegna».
«Duecentodieci, veramente», precisò Parisi, scuotendo il capo. E la differenza era notevole perché, oltre le duecento miglia dalla costa, si sarebbero trovati in acque internazionali e quindi senza obblighi di tornare subito in Italia. «Ci avete fatto fare una bella deviazione per essere qui stasera».
Veneziani lo ignorò e inspirò il forte odore del pesce appena pescato. Era stato lui, con una piccola forzatura, a ordinare al peschereccio di riparare nel porto di Civitavecchia. Ma l’aveva fatto a ragion veduta: dopo lo sbarco dei passeggeri, la Princess of the Oceans aveva segnalato l’assenza di un crocerista, tale Leonardo Domianello. Stando a una coppia di testimoni, pareva fosse caduto in mare, ma vedendo le riprese a circuito chiuso era chiaramente emerso che l’uomo era stato spinto. Dalla nave non avevano avuto certezza dell’accaduto fino a quel pomeriggio, quando con l’assistenza dei carabinieri avevano riesaminato i video. Visto che il transatlantico batteva bandiera tricolore e l’omicidio era stato commesso a bordo, era chiara la competenza delle autorità italiane.
«Senta, dottò, abbiamo segnalato per tempo il ritrovamento alla capitaneria. E siamo rientrati come avete chiesto». Il capitano posizionò le mani lungo i fianchi, come se stesse dando ordini ai suoi uomini. «La sfortuna ha voluto che la Princess of the Oceans incrociasse proprio la nostra rotta…».
«La fortuna, vorrà dire». Veneziani lo esternò in tono scherzoso ma comprendeva bene le rimostranze del capitano.
«Cerchi di capirmi, siamo pescatori: più stiamo in porto, più soldi perdiamo!».
«Be’ ormai siete qui: se non fosse stato per le vostre reti avremmo rischiato di non trovare mai quel cadavere. Tempi e coordinate coincidono. Non si preoccupi: appena avremo verificato se si tratta del passeggero disperso vi lasceremo andare».
A quelle parole, un lieve sorriso si dipinse sul viso duro di Parisi, che già si prefigurava un seccante fermo cautelativo in attesa di “verifiche”. Senza indugiare oltre, aprì uno sportello metallico e lasciò che il pubblico ministero guardasse dentro. «Eccolo qui: è tutto vostro».
La cella frigorifera, rischiarata da una luce al neon, era un piccolo spazio ricavato tra lo scafo e la cabina di pilotaggio. Era alta poco più di un metro e profonda non più di due, con una paratia obliqua che si addentrava verso il centro del peschereccio come una specie di sottoscala. Non c’erano pesci, fatta eccezione per un grosso tonno surgelato, e il cadavere era coperto da un panno.
Zeno Veneziani ne scostò un lembo: il corpo era composto con le mani in grembo e gli occhi chiusi. Lo esaminò per un istante, il taglio alla gola che spiccava come una macchia di inchiostro sulla pelle pallida. Era esattamente come lo avevano descritto i marinai alla radio, il motivo principale per il quale aveva ordinato alla Santa Sabina di rientrare in porto. Prese a grattarsi la folta chioma argentata, come faceva sempre quando stava pensando e si rimise in piedi, stiracchiandosi. «Dottor Mondini, questa è la sua materia».
Il medico legale, che era rimasto nell’ombra, si fece avanti e si accosciò accanto al cadavere. Nello stesso istante, un carabiniere si affacciò in cima alla scaletta e si rivolse al PM. «Dottore, ci sono novità importanti».
Veneziani lo esaminò, incuriosito. Si spolverò la giacca con il dorso della mano e risalì sul ponte. Nel frattempo aveva fatto completamente buio e le luci giallognole del porto si riflettevano sullo scafo della Santa Sabina.
«Il sistema di localizzazione: il GPS del disperso», chiarì il militare, gesticolando come per dirigere un’orchestra. «Nei nuovi cellulari c’è un sistema che rivela la posizione in caso di furto o smarrimento. Appena il telefono viene acceso…».
«So come funziona. Vai avanti».
«Il telefono di Domianello, dottore. Si è collegato a internet da Roma». L’agente fissò per un istante il foglio di carta che stringeva in mano. «Abbiamo l’indirizzo con un’approssimazione di sei metri: è un edificio del quartiere Africano».