15

 

 

 

 

 

Roma.

22:40.

 

Il sostituto procuratore Veneziani arrivò in viale Eritrea a bordo di un’auto civetta. Ordinò all’autista di parcheggiare sotto gli alberi che dividevano in due la strada e subito dietro si fermarono due gazzelle, i lampeggianti spenti.

Poco prima, grazie a una serie di fotografie scattate durante la crociera, aveva ricevuto la conferma che il corpo ripescato dal peschereccio Santa Sabina apparteneva al disperso.

«Leonardo Domianello, trentanove anni, single», illustrò il maresciallo De Simone, mentre chiudeva lo sportello. «Poco da segnalare sulla vita privata: niente ragazza, figlio unico e con i genitori che vivono in Toscana. Era archeologo, appena tornato da una spedizione in Amazzonia. Lavorava per una fondazione religiosa con sede a San Marino».

«La causa della morte è confermata?», indagò il PM, sventolandosi per l’afa e guardandosi attorno: si trovavano in una zona residenziale con vetrine lungo i marciapiedi e palazzoni moderni di dieci piani. Con quelle finestre tutte uguali e quadrate, assomigliavano a giganteschi waffle. Oltretutto, a quell’ora non c’era nessuno, a parte i due senzatetto che stavano rovistando nei bidoni dell’immondizia.

«Non c’era acqua nei polmoni e quindi certamente non è affogato». Mondini, il medico legale, stava scendendo da una della gazzelle parcheggiate poco distanti. «Il decesso potrebbe essere dovuto a shock ipovolemico in seguito alla recisione della giugulare e al conseguente dissanguamento».

«Ora della morte?»

«Il tempo trascorso in mare e quello nella cella frigorifera non ci aiutano a stabilirlo con esattezza. Naturalmente sarò più preciso dopo l’autopsia ma direi che è deceduto almeno da dodici, diciotto ore».

Veneziani sorrise. Mentre attraversava la strada, seguito da tre agenti in divisa, mormorò: «Quindi, se diamo per scontato che i morti non usano il cellulare, il suo telefono è stato utilizzato da qualcun altro».

«È rimasto acceso solo per tre minuti, dalle 16:55 alle 16:58 di oggi pomeriggio», specificò il maresciallo. Passava per un tipo molto efficiente: aveva quarantun anni e nonostante fosse leggermente sovrappeso si muoveva con agilità. Era sudato, e con il viso butterato paonazzo.

Nel frattempo la piccola delegazione raggiunse il numero civico 80, un portone a doppio battente tra le vetrine di una libreria e quelle di un bar.

«Il palazzo dovrebbe essere questo…».

«Finalmente siete arrivati!». La voce di una donna sui sessanta, gonna troppo corta e capelli ramati raccolti in una coda, irruppe da dietro il vetro della portineria. «Vabbè che è quasi Ferragosto, ma se tiravano piatti e stoviglie e non è vvenuto nessuno!».

Veneziani la squadrò, pensoso. «Quale alloggio?»

«Il 42B. Dall’avvocato. L’ho detto alla centralinista».

«A che ora è successo?», la interrogò De Simone, lisciandosi i baffi neri e curati.

«Verso le cinque, cinque e mezza».

«Ci può accompagnare?».

 

Trenta secondi dopo i carabinieri erano sul pianerottolo del quarto piano, in cima a una scala di metallo avvitata attorno alla gabbia dell’ascensore. Davanti a loro campeggiava una targa d’ottone con la scritta STUDIO LEGALE VALVANO.

«Ecco fatto!». La portinaia aprì con il suo passe-partout e spalancò l’uscio, lasciando entrare gli agenti in fila indiana.

Si ritrovarono in una sala d’aspetto con un bancone in teak. Accanto alla finestra aperta c’erano un attaccapanni vuoto e una piccola panchina di legno coperta da cuscini di velluto. Appese alla parete facevano bella mostra alcune vecchie carte geografiche e appena sotto era sistemata una valigia. L’unica nota stonata in quell’ordine apparente erano dei frammenti di ceramica, probabilmente appartenenti a un vaso, sparsi sul pavimento.

«Per di qua», comunicò, allarmato, il sottotenente che aveva cominciato a perlustrare i locali attigui.

Il PM varcò la soglia e rimase senza fiato: lo studio vero e proprio era una stanza di quattro metri per quattro, con un soffitto abbastanza alto: sopra la scrivania, appeso per il collo a un cappio che pendeva dal ventilatore, penzolava il corpo di un uomo. Gli occhi erano sgranati, come in un’ultima espressione di terrore, e il viso color pervinca.

«Direi che questo chiude il cerchio», commentò Veneziani, rammaricato.

Seguì un momento di sgomento. Un militare si portò le mani alla bocca e uscì di corsa. Subito dopo si udì il rumore di uno scooter in strada.

«Si chiamava Fausto Valvano», annunciò subito dopo il maresciallo, che con un fazzoletto aveva raccolto un portafoglio sul pavimento. La foto sulla carta d’identità era senza dubbio quella della nuova vittima.

«Per essere un suicidio ci sono un po’ troppi vasi rotti», osservò il PM, grattandosi la testa e fissando le pale a cui era stata annodata la corda. «Sembra ci sia stata una colluttazione. Fino a che non arriva la Scientifica non possiamo toccare il corpo, ma nel frattempo date un’occhiata in giro».

«Dottore!». Uno degli agenti attirò l’attenzione del sostituto procuratore. «Forse qui c’è qualcosa».

Veneziani si avvicinò: per terra, in mezzo a numerosi frammenti di porcellana, spiccava un cellulare Next M3, lo stesso modello che si era collegato a internet nel pomeriggio.

«Lo accenda, vediamo se è quello che stiamo cercando».

Pochi istanti dopo, uno degli agenti in divisa confermò i sospetti del PM. «Manca la SIM ma gli account appartengono a Leonardo Domianello».

Veneziani annuì e tornò a fissare il cadavere che penzolava dal soffitto. Incrociò le braccia sul petto. «Ricapitoliamo: il nostro Domianello viene ucciso sulla nave e buttato in mare. Un paio d’ore dopo l’attracco a Civitavecchia, il nostro sfortunato Valvano accende qui il cellulare della prima vittima e poi si suicida. Non so a voi, ma a me qualcosa non torna».

«Boss», richiamò l’attenzione il maresciallo De Simone, seduto alla scrivania dell’ufficio. «Fausto Valvano era uno dei passeggeri della Princess of the Oceans». Si sventolava con la lista dei nomi rilasciata dalla compagnia e nel frattempo muoveva il mouse sul computer dell’avvocato. «Sulla sua e-mail risulta una prenotazione online del 4 agosto. C’è anche una conversazione con tale Doppia N, in cui si parla della crociera».

«Potete risalire agli indirizzi IP usati per quelle e-mail?». Poi si rivolse al carabiniere che sostava sulla porta: aveva già sistemato lo smartphone in un sacchetto per le prove. «Controlliamo le ultime chiamate ricevute dall’archeologo e i file sul telefono».

L’agente esitò. In quelle circostanze, normalmente, il telefono doveva essere consegnato integro ai tecnici della Scientifica per gli accertamenti necessari. Era chiaro però che il PM voleva delle risposte e le voleva subito. Annuì, contento di potersi mettere in mostra con qualcosa che sapeva fare molto bene, e con i guanti di lattice cominciò a sfiorare sapientemente lo schermo. «Poche e-mail recenti: l’ultima è di oggi», annunciò, poco dopo. «Questo invece è interessante: Bitcoin. Tanti Bitcoin».

«Di cosa sta parlando?»

«Quattrocentodieci Bitcoin. Un bel po’ di soldi, circa duecentomila euro, sono stati trasferiti nel pomeriggio da questo telefono a un altro portafoglio».

«Non so esattamente come funziona questa roba ma i soldi di solito sono un ottimo movente». Il sostituto procuratore si dondolò sui mocassini firmati. Mordicchiandosi le labbra si avvicinò di un passo. «E quello invece cos’è?»

«Uno dei file recenti: un PDF allegato a una e-mail della fondazione Mendel». Il carabiniere parve dubbioso. Con pollice e indice zoomò sul titolo del documento. «L’intestazione parla di OMS. È stato aperto più volte».

«Domianello non era un archeologo?»

«Così risulta dai nostri dati, boss». De Simone, che adesso si era spostato accanto alla finestra, annuì convinto.

Il PM lesse meglio il documento e un lieve pallore scolorì quasi all’istante le sue gote. Si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e poi tornò a guardare gli agenti. «E che cosa ci fa un archeologo con un simile rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità?».