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Ospedale da campo Paradise City, Sierra Leone. Contemporaneamente.
Ora locale 10:05.
Christopher “Catilina” Kundé, ormai ridotto a un fantasma, era ammanettato a una sedia.
Dragan Sauer contemplò ciò che rimaneva della videocamera, appena smontata dai suoi uomini. Non era riuscito a vedere il video che conteneva, perché “Catilina” doveva aver formattato l’hard disk prima del loro arrivo. Ma non importava: il messaggio nel computer era comunque molto interessante. Se i dati sugli indirizzi IP erano corretti, il suo lavoro era tutt’altro che terminato.
Si alzò di scatto e inquadrò ancora Kundé attraverso gli occhiali da sole. Nelle ultime ventiquattr’ore la sua occupazione principale era stata torturarlo in ogni maniera e il professore ne portava i segni: era nudo, la pelle ebano coperta di ecchimosi e ferite non ancora rimarginate. Il sangue gli sgorgava da entrambe le palpebre e gli occhi erano atterriti, ormai privi anche della paura.
Quello era il momento che Sauer prediligeva: dopo il dolore inflitto dalle sevizie era gratificante vedere quello, ancor maggiore, causato dal cedere della forza di volontà della vittima.
«Ricominciamo. Vuoi?». Il militare estrasse dalla mimetica il coltello a serramanico e accennò un sorriso truce. «Devi solo consegnarmi la provetta giusta».