Uno, nessuno, due
Dopo questo lungo intermezzo ritorniamo infine all’enigma Venere- o-Marte dell’Episodio III. Vi ho già detto che Parfit elude in qualche modo la domanda con un semplice «nego l’Ego» (Cartesiano), implicando quindi che la domanda non ha risposte sensate. Ma nel suo libro menziona anche piuttosto spesso quella che definisce «doppia sopravvivenza», ovvero essenzialmente la sua simultanea presenza in due posti diversi. Ribadisce più di una volta che la doppia sopravvivenza non è affatto equivalente alla morte (che sarebbe nessuna sopravvivenza), e che il numero due non dovrebbe essere ridotto al numero zero! Cosa sta dicendo in realtà? Sta dicendo che non c’è risposta alla domanda, o sta dicendo che di fatto è stato duplicato, e che ora ci sono due Derek Parfit?
È difficile per me capirlo, perché penso che lui dica entrambe le cose abbastanza spesso da consentire di sostenere l’una e l’altra cosa. Ma da quale parte sto io su questa questione? Credo di stare, alla fine, dalla parte dei «due me». A prima vista, questo può quasi dare l’impressione che io stia abbracciando la teoria dell’Ego Cartesiano, immaginando semplicemente che l’uovo venga clonato e che arrivino a esistere due Ego Cartesiani identici, uno su Venere e uno su Marte. Ma allora SA 642 comincerebbe a strepitare: «Quale dei due è me?». Sembra, cioè, che io non abbia affatto risposto alla domanda, o che voglia avere l’uovo oggi su Marte e anche la gallina domani su Venere.
Per recuperare un minimo di coerenza, devo tornare alla posizione sostenuta da SA 641 nel dialogo, vale a dire che la nozione di «io» è, essenzialmente, un’allucinazione. Proviamo ad applicare a me invece che a Parfit l’Episodio III, il mio scenario con il teletrasporto di copie nuove su Venere e Marte e con nessuna copia rimasta sulla Terra. In questo caso, ciascuno dei nuovi cervelli - quello su Marte e quello su Venere - è convinto di essere me. Provano entrambi tutto quello che ho sempre provato io a essere me. Lo stesso vecchio impulso a dire «Io sono qui e non lì» balena in ambedue i cervelli con lo stesso riflesso automatico con cui la mia gamba scatta verso l’alto quando qualcuno mi dà un colpetto sul ginocchio. Tuttavia, riflesso automatico o meno, la verità di fondo è che non c’è nessuna cosa chiamata «io» - nessuna biglia dura, nessun tuorlo prezioso protetto da un guscio d’Ego Cartesiano - ci sono soltanto tendenze e inclinazioni e abitudini, incluse quelle verbali.90 Alla fine, dobbiamo credere a entrambi i Douglas Hofstadter quando dicono: «Questo qui è me», almeno nella misura in cui crediamo al Douglas Hofstadter che proprio in questo momento è seduto nel suo studio a digitare al computer queste parole dicendovi nero su bianco: «Questo qui è me». Dire questo e insistere nel sostenere la sua verità è soltanto una tendenza, un’inclinazione, un’abitudine - di fatto, un riflesso automatico - e nulla più di questo, benché sembri essere molto più di questo.
In definitiva, l’io è un’allucinazione, eppure, paradossalmente, è la cosa più preziosa che abbiamo. Come fa notare Dan Dennett in Coscienza, un io è un po’ come una banconota - sembra che valga moltissimo, ma in fin dei conti è soltanto una convenzione sociale, una specie di illusione su cui siamo tutti tacitamente d’accordo senza che nemmeno ci sia mai stato chiesto se lo fossimo, e che, per quanto illusoria, sorregge tutta la nostra economia. Eppure, la banconota è soltanto un pezzo di carta assolutamente privo di valore intrinseco.