Ma dov’è la coscienza nella mia stralunata storia stranulare?
FIN dalle prime battute di questo libro ho usato alcuni termini chiave in modo abbastanza intercambiabile: «sé», «anima», «io», «una luce accesa dentro» e «coscienza». Per come la vedo io, sono tutti nomi dello stesso fenomeno. È possibile che ad altri questi nomi non sembrino designare un’unica cosa, ma così sembrano a me. È un po’ come per i numeri primi della forma An + 1 e per i numeri primi che sono somme di due quadrati - apparentemente sembrerebbero descrizioni di due entità completamente diverse fra loro, ma a un’analisi più approfondita risultano designare esattamente le stesse entità.
Nel mio modo di vedere le cose, tutti questi fenomeni si presentano in sfumature di grigio, e qualsiasi sfumatura venga assunta da ciascuno di essi in un particolare essere (naturale o artificiale), anche tutti gli altri avranno quella stessa sfumatura. Di conseguenza, la mia sensazione è che parlando di «io-ità» io abbia sempre parlato anche di coscienza. Benché possa aver trattato questioni di identità personale, e forse anche i concetti di «io» e di «sé», so tuttavia che alcuni mi contesteranno di non aver neppure sfiorato l’enigma di gran lunga più profondo e più misterioso della coscienza. Costoro mi chiederanno in tono scettico: «Cos’è, allora, l’esperienza nei termini dei tuoi strani anelli? In che modo gli strani anelli nel cervello ci dicono qualcosa su cosa si prova a essere vivi, a sentire l’odore del caprifoglio, a vedere un tramonto, o ad ascoltare le gocce di pioggia picchiettare su un tetto di lamiera? Dopotutto, la coscienza è proprio questo! E in che modo questo ha qualcosa a che fare con le tue strane idee anulari?».
Dubito di poter rispondere a domande del genere in un modo che soddisfi questi scettici irriducibili, perché sicuramente costoro troveranno ciò che dico troppo semplice e, insieme, troppo evasivo. Ecco comunque la mia risposta, ridotta all’essenziale: la coscienza è la danza dei simboli all’interno del cranio. O, in termini ancora più concisi, la coscienza è il pensiero. Come disse Cartesio, cogito ergo sum.
Purtroppo ho il sospetto che questa risposta sia davvero eccessivamente sintetica anche per i lettori meglio disposti, perciò tenterò di esporla un po’ più. in dettaglio. Per la maggior parte del tempo, qualunque simbolo nel nostro cervello resta latente, come un libro che giace inerte sugli scaffali di un’enorme biblioteca. Di tanto in tanto, un qualche evento attiverà il processo di recupero del libro dagli scaffali, che allora verrà aperto e le sue pagine torneranno a vivere per un qualche lettore. In maniera analoga, all’interno di un cervello umano gli eventi percepiti attivano ininterrottamente un processo altamente selettivo di recupero di simboli dalla latenza, che li induce a tornare in vita sotto forma di ogni genere di inattese e inedite configurazioni. La coscienza è questa danza di simboli nel cervello. (Così come lo è il pensiero.) Si noti che dico «simboli» e non «neuroni». Perché possa costituire la coscienza, la danza deve essere percepita a quel livello. Ecco dunque, a vostra disposizione, una versione un po’ più esplicita della risposta.