Compagni d’anima e anime compagne
Il vero obiettivo della fantasia su Dimondo era di seminare almeno in piccola misura qualche dubbio su un dogma, solitamente incontestato nel nostro mondo, che potrebbe essere formulato come uno slogan: «Un corpo, un’anima.» (Se non vi piace la parola «anima», potete benissimo sostituirla con «io», «persona», «sé» o «luogo specifico della coscienza».) Questa idea, benché di rado espressa a parole, viene data a tal punto per scontata da sembrare assolutamente tautologica alla maggior parte delle persone (escluse quelle che negano del tutto l’esistenza delle anime). Ma visitare Dimondo (o riflettere su di esso, se non si può organizzare un viaggio) costringe questo dogma a uscire allo scoperto, dove si vede che deve perlomeno essere affrontato, se non abbattuto. E così, se sono riuscito a far sì che i miei lettori aprissero le loro menti all’idea controintuitiva di una coppia di corpi come del potenziale luogo congiunto di un’unica anima - cioè a metterli in condizione di identificarsi con una parsona come Chiara o Giorgio altrettanto facilmente di come si identificano con C1-P8 o con D-3BO di Guerre stellari - allora Dimondo avrà assolto bene al suo compito.
Una delle fonti di ispirazioni per la mia fantasia su Dimondo era stata l’idea di una coppia sposata come di un tipo di «individuo di livello più alto», composto da due individui normali, ed è per questo che l’imbattermi nel foglietto con la scritta O du angenehmes Paar è stata una coincidenza così sbalorditiva. Molte coppie sposate acquisiscono quest’idea in modo naturale nel corso del loro matrimonio. In effetti, io avevo avuto intuitivamente un vago sentore di qualcosa di simile prima di sposarmi, e ricordo come, nelle settimane di trepidazione che avevano preceduto il matrimonio, avevo scoperto che questa idea era il tema sottinteso e commovente del libro Married People: Staying Together in the Age ofDivorce di Francine Klagsbrun. Per esempio, alla fine di un capitolo su terapia e consulenza per coppie sposate, Klagsbrun scrive: «Credo che un terapista dovrebbe essere neutrale e imparziale verso i partner, i due pazienti del matrimonio, ma che non ci sia alcuna violazione dell’etica nell’essere prevenuti nei confronti del terzo paziente, il matrimonio». Fui profondamente colpito dalla sua idea del matrimonio stesso come di un «paziente» che si sottopone a terapia per rimettersi in salute, e devo dire che, nel corso degli anni, il senso di verità di questa immagine mi ha aiutato moltissimo nei periodi più critici del mio matrimonio.
Il legame che si crea tra due persone che sono sposate da molto tempo è spesso così stretto e intenso che, alla morte di una delle due, anche l’altra muore nel giro di poco tempo. E se sopravvive, è spesso con l’orribile sensazione che le sia stata strappata via metà della sua anima. In tempi più felici, durante il matrimonio, i due coniugi hanno ovviamente interessi e stili di vita individuali, ma allo stesso tempo inizia a svilupparsi un insieme di interessi e stili di vita comuni, e col passare degli anni comincia a prendere forma una nuova entità.
Nel caso del mio matrimonio, quella entità era Carol-e-Doug, detta ogni tanto scherzosamente «Doca» o «Cado». Il nostro «essere uno in due» iniziò a emergere in modo chiaro nella mia mente in diverse occasioni durante il primo anno di matrimonio, in particolare tutte le volte in cui, dopo che gli amici che avevamo invitato a cena se ne erano andati, Carol e io cominciavamo a riordinare. Portavamo i piatti in cucina e poi stavamo lì insieme a lavare, sciacquare e asciugare, ripercorrendo tutta la serata per quanto ci era possibile farlo nella nostra mente congiunta, ridendo di gusto delle battute spontanee e riassaporando gli scambi inattesi, facendo commenti su chi aveva l’aria felice e chi aveva l’aria triste - e la cosa che colpiva di più in queste decompressioni post partyum era che noi due ci trovavamo quasi sempre d’accordo su tutto. Qualcosa, qualche cosa, stava nascendo, ed era fatta di noi due insieme.
Ricordo come, dopo alcuni armi di matrimonio, ogni tanto qualcuno ci faceva la più strana delle osservazioni: «Vi assomigliate così tanto!». Questo mi lasciava di stucco, perché avevo l’immagine di Carol come di una bella donna e di aspetto completamente diverso dal mio. E tuttavia, con il passare degli anni, cominciai a notare come ci fosse qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di come lei guardava al mondo, che mi ricordava il mio stesso sguardo, il mio stesso atteggiamento nei confronti del mondo. Stabilii che la «somiglianza» che i nostri amici vedevano non stava nell’anatomia dei nostri visi, ma che era come se qualcosa delle nostre anime venisse proiettato verso l’esterno e fosse percepibile come una caratteristica molto astratta delle nostre espressioni. Potevo vederlo chiaramente in certe foto di noi due insieme.