Personaggi
Strano Anello 641: un sostenitore delle idee di Anelli nell’io
Strano Anello 642: un critico delle idee di Anelli nell’io
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SA 642: Desolata, oh quanto desolata. In realtà, la tua immagine dell’anima non è soltanto desolata, è completamente vuota. Vacua. Non ha proprio nulla di spirituale. È soltanto mera attività fisica e niente più.
SA 641: Cos’altro ti aspettavi? Cos’altro ti potevi aspettare? A meno che tu non sia un dualista, cioè uno di quelli che credono che le anime sono cose spirituali, non fisiche, che non appartengono all’universo fisico, eppure possono comandarne delle parti di qua e di là.
SA642: No, non voglio dire questo. È solo che deve esserci qualcosa di estremamente speciale che dia conto dell’esistenza in questo mondo fisico di esseri spirituali, mentali, che sentono, che percepiscono - insomma, qualcosa che spiega la nostra luce interiore, la nostra consapevolezza, la nostra coscienza.
SA 641: Non potrei essere più d’accordo. Una spiegazione di fenomeni così elusivi richiede sicuramente qualcosa di speciale. Costruire un’anima pezzo per pezzo a partire dalle sue componenti fisiche più minute è una bella sfida. Ma ricorda che, nella mia concezione, la coscienza è un pattern materiale di genere molto atipico, con un’organizzazione complessa, non una semplice attività fisica purchessia. Non è il dondolio di una catena, la caduta di una pietra in uno stagno, lo spruzzo di una cascata, il turbine di un uragano, la ricarica di uno sciacquone, l’autoregolazione della temperatura in una casa, il flusso di elettroni in un programma che gioca a scacchi, il rapido movimento di uno spermatozoo in cerca dell’ovulo, le scariche neurali nel cervello di una zanzara che ha fame… anche se, via via che l’elenco procede, ci stiamo avvicinando sempre di più.77 Salendo in questa gerarchia una «luce interiore» comincia ad accendersi. La luce è incredibilmente fioca anche verso la fine dell’elenco, ma se lo prolunghiamo e lo scorriamo verso l’alto passando attraverso i cervelli di api, pesci rossi, conigli, cani e neonati, questa luce diventa di gran lunga più intensa. Finché diventa intensissima quando arriviamo agli esseri umani adolescenti e adulti, e tale rimane per decenni. Sì, ciò che conosciamo come nostra coscienza non è nient’altro che l’attività fisica che si verifica dentro un cervello umano che abbia vissuto nel mondo per un certo numero di anni.
SA 642: No, nella tua descrizione manca l’essenza della coscienza. Hai descritto un complesso insieme di attività cerebrali che coinvolgono simboli che si attivano fra loro, e sono disposto a credere che all’interno dei cervelli qualcosa di simile abbia effettivamente luogo. Ma la storia non finisce qui, perché in questa storia io non sono da nessuna parte. Non c’è posto per un io. Tu hai parlato di miriadi di particelle inconsapevoli che rimbalzano di qua e di là, o magari di grosse nubi formate dall’attività di particelle - ma se l’universo fosse soltanto questo, allora non ci sarebbero né me, né te, né punti di vista. Sarebbe la condizione della Terra prima che la vita evolvesse - milioni di albe e tramonti, venti che soffiano di qua e di là, nubi che si formano e si disperdono, temporali che si abbattono sulle valli, massi che crollano dalle cime e scavano voragini, acqua che scorre negli alvei e scolpisce burroni, onde che si spezzano su spiagge sabbiose, maree che fluiscono e rifluiscono, vulcani che vomitano mari di lava rovente, alture che erompono all’improvviso dalle pianure, continenti che vanno alla deriva e si dividono, e così via. Tutto molto scenografico, ma senza alcuna vita interiore, senza pensiero, senza luce interiore, senza io - senza nessuno che gioisca di questo maestoso scenario.
SA 641: Concordo con te sul senso di aridità che comunica un universo fatto soltanto di fenomeni fisici, ma esistono alcuni particolari sistemi fisici in grado di rispecchiare ciò che sta fuori di loro e di intraprendere azioni in risposta a ciò che hanno percepito. Questa è la «luce in nuce». Quando raggiunge un sufficiente livello di complessità, la percezione può determinare fenomeni che non hanno alcun corrispettivo in sistemi che percepiscono soltanto in modo primitivo. Per sistemi percettivi «primitivi», intendo per esempio entità come termostati, ginocchia, spermatozoi e girini. Questi sistemi sono troppo rudimentali per meritare il termine «coscienza», ma quando la percezione ha luogo in un sistema dotato di un insieme di simboli veramente ricco ed estensibile a piacere, allora un io nascerà con la stessa inevitabilità con cui nell’arida roccaforte dei Principia Mathematica nascono strani anelli.
SA 642: Percezione?! Chi è che percepisce? Nessuno! Il tuo universo continua a essere un vacuo sistema fatto di oggetti fisici e dei loro movimenti intricati, intrecciati, inviluppati - galassie, stelle, pianeti, venti, rocce, acqua, frane, increspature, onde sonore, fuoco, radioattività, e così via. Magari anche proteine e RNA e DNA. Magari anche i tuoi amati anelli a feedback - missili termoguidati, termostati, sciacquoni, feedback video, catene di tessere di domino, tavoli da biliardo inondati da sciami di microscopiche sfere magnetiche. Ma in questa scena desolata manca qualcosa di cruciale, ed è la me-ità. Io sono in un luogo preciso. Io sono quii Cosa sarebbe in grado di individuare un qui in un mondo fatto di acqua e sfere galleggianti in migliaia di vasche, o in un mondo con fantastilioni di catene di domino? Non c’è nessun qui, lì.
SA 641: Mi rendo benissimo conto di come tale questione ti possa assillare, visto che assillerebbe ogni persona in grado di pensare. La mia risposta è questa: nel vasto universo dei più disparati eventi fisici che hai appena evocato con la tua descrizione così vivida, ci sono alcuni rari punti di attività localizzata in cui è possibile trovare uno speciale tipo di pattern vorticante in maniera astratta. Questi luoghi speciali e privilegiati - almeno quelli in cui ci siamo imbattuti finora - sono i cervelli umani, e gli io si trovano solo in questi luoghi privilegiati. Tali luoghi privilegiati sono una rarità nel vasto universo; sono pochi e molto distanti fra loro. Ovunque emerga questo speciale e insolito genere di fenomeno fisico, là c’è un io e un qui.
SA 642: La tua espressione «pattern vorticante in maniera astratta» mi fa pensare a un vortice fisico, come un uragano o un mulinello o una galassia a spirale78 - ma presumo che queste cose non siano abbastanza astratte per te.
SA 641: No, effettivamente non lo sono. Mulinelli e uragani sono solo vortici che ruotano - parenti fluidi di trottole e giroscopi. Per fare un io ci vogliono significati, e per fare dei significati ci vogliono percezione e categorie - in pratica, un repertorio di categorie che continua ad autoalimentarsi, e che cresce, cresce, cresce sempre più. Nei vortici fisici da te menzionati non c’è proprio nulla di tutto ciò. È questa la ragione per cui la struttura delle formule autoreferenziali scoperte da Godel nell’universo apparentemente arido di PM è una metafora di gran lunga migliore per un io. Le sue formule, come gli io umani, sono strutturate in maniera estremamente complessa e sofisticata, e non sono certo formule comuni. Le formule «ordinarie» di PM, come, poniamo, «0+0=0» o una formula che affermi che ogni intero è la somma di un massimo di quattro quadrati,79 sono analoghe agli oggetti fisici inerti privi di io, come granelli di sabbia o palle da bowling. Queste formule di tipo semplice non hanno significati autoavvolgenti di alto livello come li hanno le stringhe speciali di Godel. Ci vuole un bel po’ di attrezzatura di teoria dei numeri per passare dalle asserzioni ordinarie sui numeri alla complessità degli strani anelli gòdeliani, e analogamente ci vuole un bel po’ di evoluzione per passare dai semplicissimi anelli a feedback alla complessità degli strani anelli nei cervelli.
SA 642: Supponiamo che io ti conceda che ci sono innumerevoli «strani anelli» astratti vaganti per l’universo, costituitisi in qualche modo nel corso di miliardi di anni di evoluzione - strani anelli che risiedono in crani, un po’ come gli anelli a feedback audio che risiedono negli auditori. Possono essere complessi quanto vuoi; della complessità della loro attività fisica non m’importa un bel niente. La questione spinosa che comunque continuerebbe ostinatamente a sussistere è: cosa potrebbe rendere uno di questi strani anelli me? Quale di loro lo sarebbe? Non puoi rispondere a questa domanda.
SA 641: Posso, anche se la mia risposta non ti piacerà. Quello che rende uno di loro te è il risiedere in un particolare cervello che è passato attraverso tutte le esperienze che hanno fatto diventare te te.
SA 642: Ma questa è una mera tautologia!
SA 641: Non proprio. E un’idea sottile il cui nocciolo è che ciò che tu chiami «io» è un risultato, non un punto di inizio. Tu ti sei costituito in un processo non pianificato, venendo a esistere solo poco per volta, non all’istante. All’inizio, quando il cervello che avrebbe in seguito ospitato la tua anima stava ancora formandosi, non c’era alcun te. Ma poi, pian piano, quel cervello è cresciuto e, pian piano, si sono accumulate le sue esperienze. In qualche punto di questo percorso, man mano che continuavano a capitargli sempre più cose, e a venire tutte registrate e interiorizzate, cominciò a imitare le convenzioni culturali e linguistiche in cui era immerso, e dunque cominciò esitante a dire di sé stesso «io» (anche se il referente di tale termine era ancora molto sfuocato). È più o meno questo il momento in cui si è accorto di essere da qualche parte - e, cosa per nulla sorprendente, era là dove c’era anche un certo cervello! A quel punto, però, non conosceva nulla del suo cervello. Ciò che conosceva, invece, era il contenitore del suo cervello, che era un determinato corpo. Ma anche se non conosceva nulla del suo cervello, l’io nascente seguì sempre tale cervello fedelmente dappertutto, come fa un’ombra con un oggetto che si muove.
SA 642: Tu non stai affrontando il mio quesito, cioè come distinguere proprio me in un mondo di strutture fisiche indistinguibili.
SA 641: Va bene, arriviamo allora direttamente a questo. Per te, i cervelli che ospitano strani anelli assomigliano tutti a migliaia di macchine per cucire sparse qua e là, tutte ticchettanti per conto loro. La tua domanda sarebbe: «Quale di queste macchine è me?». Be’, ovviamente nessuna di loro è te - e questo perché nessuna di loro percepisce alcunché. Tu consideri i cervelli che ospitano strani anelli come se fossero inerti e privi di identità alla stregua di macchine per cucire, girandole o giostre. Ma la cosa singolare è che gli esseri i cui cervelli ospitano questi strani anelli non sono d’accordo con te sul fatto di non avere alcuna identità. Uno di loro si ostina a dire: «Io sono proprio questo qui, che sta guardando questo fiore color porpora, non quello laggiù, che sta bevendo un frappé!». Un altro si ostina a dire: «Io sono quello che sta bevendo questo frappé al cioccolato, non quello che sta guardando quel fiore!». Ciascuno di loro è convinto di essere da qualche parte e di vedere e udire cose e di avere esperienze. Cosa ti induce a non tener conto di quello che loro sostengono?
SA 642: Non è che non ne tengo conto. Anzi, penso che sia perfettamente valido - solo che la validità di quello che loro sostengono non ha nulla a che fare con cervelli che ospitano strani anelli. Tu stai focalizzando la tua attenzione sulla cosa sbagliata. Ogni affermazione su «essere qui» e «essere cosciente» è valida perché c’è qualcosa in più, qualcosa sopra e oltre gli strani anelli, che fa sì che il cervello sia il luogo privilegiato di un’anima. Solo non sono in grado di dirti che cosa sia, ma so che è così, perché io non sono costituito soltanto di roba fisica che si trova per caso da qualche parte nell’universo. Io faccio esperienza di cose, come quel fiore color porpora in giardino e il baccano di quella motocicletta un paio di isolati più in là. E la mia esperienza è l’insieme di dati primari su cui si basa ogni altra mia affermazione, perciò non è possibile negare quello che io sostengo.
SA 641: E che differenza ci sarebbe con quello che ho descritto? Un cervello con un sufficiente livello di complessità non solo è in grado di percepire e categorizzare, ma può anche verbalizzare queste categorie. Come te, è in grado di parlare di fiori e giardini e rombi di motocicletta, ed è in grado di parlare di sé stesso, dicendo dove è e dove non è, di descrivere le sue esperienze presenti e passate e i suoi scopi e convinzioni e confusioni… Che cosa potresti volere di più? Perché tutto questo non dovrebbe essere ciò che viene chiamato «esperienza»?
SA 642: Parole, parole, parole! Il punto è che l’esperienza implica di più che mere parole - implica sensazioni. Ogni soggetto di esperienza degno di questo nome deve poter vedere quel brillante color porpora del fiore e poterlo smtire come tale, 80 e non semplicemente emettere il suono «porpora» con la voce automatica di un risponditore telefonico a menu. Il vedere un nitido color porpora è qualcosa che si verifica al di sotto del livello di parole o idee o simboli - è più primordiale. È un’esperienza direttamente sentita dal soggetto che la fa. Questa è la differenza tra la vera coscienza e una pura e semplice «segnalazione artificiale» come quella che si sente in un menu telefonico meccanico.
SA 641: Diresti che gli animali non dotati della facoltà di parola possono fare queste esperienze «primordiali»? Le mucche si godono il porpora sgargiante di un fiore con la stessa identica intensità con cui lo fai tu? E le zanzare? Se dici «sì», non rischi forse quasi di suggerire che le mucche e le zanzare hanno esattamente tanta coscienza quanta ne hai tu?
SA 642: Il cervello delle zanzare è molto meno complesso del mio, perciò loro non possono avere la stessa ricchezza di esperienze che ho io.
SA 641: Ehi, aspetta un momento. Non puoi tenere il piede in due scarpe. Un attimo fa insistevi a dire che la complessità del cervello non conta nulla - che se un cervello manca di quello speciale je ne sais qnoi che separa le entità che sentono da quelle che non sentono, allora non è un luogo privilegiato di coscienza. Ora, però, dici che la complessità del cervello in questione una differenza la fa.
SA 642: Be’, suppongo che debba farla, in una certa misura. Una zanzara non è equipaggiata come lo sono io per apprezzare un fiore color porpora. Ma magari una mucca lo è, o almeno ci va vicino. In ogni caso, la complessità da sola non rende conto della presenza di sensazioni ed esperienze nei cervelli.
SA 641: Consideriamo un po’ più a fondo questa nozione dell’avere esperienza del mondo esterno e sentirlo. Se ti capitasse di fissare un grande lenzuolo di puro e uniforme color porpora, la tua tonalità preferita in assoluto, che riempie per intero il tuo campo visivo, la tua esperienza sarebbe altrettanto intensa di quando vedi quel colore nei petali di un fiore che sboccia in un giardino?
SA 642: Non credo. Parte di ciò che rende la mia esperienza di un fiore purpureo così intensa sta in tutte le sottili sfumature che vedo su ciascun petalo, nel modo delicato in cui ciascun petalo si piega e nel modo in cui i petali si avvolgono tutti insieme a spirale attorno a una radiosa parte centrale fatta di decine di minuscoli puntini…
SA 641: Per non parlare del modo in cui il fiore è sospeso su un ramo, e il ramo è parte di un cespuglio, e il cespuglio è soltanto uno dei tanti in un giardino risplendente di colori…
SA 642: Stai forse suggerendo che io non assaporo il porpora di per sé, ma soltanto a causa del modo in cui si trova immerso in una scena più vasta? Stai andando troppo oltre. Il contorno può intensificare la mia esperienza, ma a me piace quel magnifico e vellutato color porpora puramente di per sé, a prescindere da qualsiasi altra cosa.
SA 641: Perché dunque lo descrivi con la parola «vellutato»? Le mosche o i cani hanno forse esperienza dei fiori purpurei come se fossero «vellutati»? Questa parola non è quindi un riferimento al velluto? Non significa forse che la tua esperienza visiva risveglia ricordi sepolti in profondità, magari ricordi tattili infantili, del far scorrere le tue dita lungo un cuscino color porpora fatto di velluto? O forse sei inconsciamente ricondotto con la memoria a un vino rosso intenso che hai bevuto una volta, descritto sulla sua etichetta come «vellutato». Come puoi sostenere che la tua esperienza del color porpora «prescinde da qualsiasi altra cosa al mondo»?
SA 642: Tutto quello che sto cercando di dire è che ci sono esperienze di base primordiali sulle quali vengono costruite quelle più ampie, e che anche avere esperienze primordiali è qualcosa di radicalmente e qualitativamente diverso da quanto si verifica in sistemi fisici semplici come, per esempio, funi, che oscillano nella brezza o galleggianti degli sciacquoni. Una fune che oscilla non sente nulla quando viene mossa dalla brezza. Non c’è nessuna sensazione lì dentro, non c’è alcun qui, lì. Ma quando io vedo il color porpora o sento il sapore del cioccolato, quella che sto avendo è un’esperienza sensoriale, ed è su milioni di esperienze sensoriali come questa che si costruisce la mia vita mentale. C’è un grande mistero qui, in questa frattura.
SA 641: Le tue parole hanno un che di attraente, ma temo, ahimè, che tu veda la cosa tutta a rovescio. Queste piccole esperienze sensoriali sono per il grandioso pattern della tua vita mentale quello che le lettere di un romanzo sono per la sua trama e i suoi personaggi - segni irrilevanti, arbitrari, piuttosto che portatori di significato. Non c’è nessun significato nella lettera «b»,81 ma è a partire da questa e dalle altre lettere dell’alfabeto, unite in sequenze complesse, che derivano tutta la ricchezza e l’umanità di un romanzo o di un racconto.
SA 642: Questo è il livello sbagliato per parlare di un racconto. Gli scrittori scelgono parole, non lettere, ed è chiaro che le parole sono intrise di significato. Metti insieme molti di quei minuscoli significati e otterrai qualcosa di più grande dotato di significato. In modo analogo, la vita è fatta di molte minuscole esperienze sensoriali, che, collegate l’una con l’altra, producono un’unica enorme esperienza sensorio-emozionale.
SA 641: Aspetta un attimo. Nessuna parola isolata dalle altre può avere profondità o potere. Se viene incorporata in un contesto complesso, una parola può essere molto potente, ma non se rimane da sola. È pura illusione attribuire un qualche potere alla parola stessa, ed è un’illusione ancora più grande attribuire un qualche potere alle lettere da cui è formata.
SA 642: Concordo sul fatto che le lettere non hanno potere né significato. Ma le parole, quelle sì! Le parole sono gli atomi di significato con i quali si costruiscono strutture di significato più ampie. Non puoi ottenere grandi significati se gli atomi sono privi di significato!
SA 641: Ah, davvero? Pensavo tu avessi appena ammesso che è proprio questo che succede nel caso di parole e lettere. Ma va bene - passiamo a un altro esempio. Ti sentiresti di dire che la musica ha significato?
SA 642: La musica è tra le cose più ricche di significato che io conosca.
SA 641: E allora, secondo te, hanno significato anche le singole note? Per esempio, senti attrazione o repulsione, bellezza o bruttezza, quando ascolti il do centrale?
SA 642: Direi di no! Non più di quanto mi succeda quando vedo isolate dalle altre le due lettere «d» e «o».
SA 641: Esiste qualche nota isolata che di per sé ti attragga o ti respinga?
SA 642: No. Una nota isolata non contiene significato musicale. Chiunque sostenesse di essere commosso da una singola nota non farebbe altro che darsi un’aria.
SA 641: Tuttavia, quando senti un pezzo musicale che ti piace oppure che ti ripugna, senza dubbio ne sei attratto o respinto. Da dove viene allora quella sensazione, visto che nessuna nota di per sé ti suscita una qualche attrazione o repulsione?
SA 642: Dipende da come le note sono combinate in strutture più grandi. Una melodia è attraente perché possiede un qualche tipo di «logica». Un’altra potrebbe respingerti perché manca di logica, o perché la sua logica è troppo semplicistica o puerile.
SA 641: Questa dà senz’altro l’idea di essere una reazione a un pattern, non una sensazione primitiva. Un brano musicale può avere un grande significato emozionale pur essendo costituito di minuscoli atomi di suono che di per sé sono privi di qualunque significato emozionale. Ciò che conta, dunque, è il pattern di organizzazione, non la natura dei costituenti. Questo ci riporta alla tua perplessità circa la differenza fra soggetti di esperienza come possiamo essere tu e io, e non-soggetti di esperienza come le funi oscillanti e i galleggianti di plastica. A tuo parere, questa differenza cruciale deve derivare da un qualche ingrediente speciale, da una cosa o sostanza tangibile, che i soggetti di esperienza hanno nella loro costituzione, e che i non-soggetti di esperienza non hanno. È così?
SA 642: Sì, penso che le cose debbano stare più o meno in questo modo.
SA 641: Allora proviamo a chiamare questo ingrediente speciale, che permette ai soggetti di esperienza di nascere, «sensio». Peccato che nessuno abbia mai trovato un singolo atomo o molecola di sensio, e ho il sospetto che, quand’anche trovassimo una sostanza misteriosa presente in tutti gli animali superiori ma non in quelli inferiori, per non parlare delle semplici macchine, tu cominceresti a domandarti come può essere che una qualche mera sostanza, di per sé insensibile e inanimata, possa dare origine alle sensazioni.
SA 642: Il sensio, se esistesse, sarebbe con tutta probabilità più simile all’elettricità che agli atomi o alle molecole. O forse sarebbe simile al fuoco o alla radioattività - comunque sia, qualcosa che sembri avere vita propria, qualcosa che per sua stessa natura danzi in modi un po’ folli - non semplicemente materia inerte.
SA 641: Quando hai descritto la Terra in epoche precedenti all’evoluzione della vita, c’erano vulcani, tuoni e fulmini, elettricità, fuoco, luce e suono - e il sole, questa enorme palla a fusione nucleare. Eppure non eri disposto a concepire che la presenza di fenomeni di questo tipo, in una loro qualsiasi combinazione o permutazione, potesse mai dare origine a un soggetto di esperienza. Senonché, proprio poco fa, nel parlare della misteriosa essenza creatrice di anima che ho chiamato «sensio», tu hai usato la parola «danza», come nell’espressione «simboli danzanti». Stai forse involontariamente cambiando musica?
SA 642: Ecco, io posso immaginarmi ciò che distingue i soggetti di esperienza dai non-soggetti di esperienza come una «danza» sfavillante e simile a un fuoco. E’ per me sotto un certo aspetto persino attraente pensare che la danza del sensio, semmai risultasse esistere, potrebbe essere in grado di spiegare la differenza tra soggetti di esperienza e non-soggetti di esperienza. Ma anche qualora giungessimo a comprendere la fisica del modo in cui il sensio produce l’esperienza, mancherebbe ancora qualcosa di cruciale. Supponi che il mondo fosse popolato da soggetti di esperienza definiti da un qualche tipo di pattern che coinvolge il sensio. Supponiamo addirittura, per giunta, che il pattern centrale di ogni soggetto di esperienza fosse uno strano anello, come tu ipotizzi. Orbene, in virtù di questo pattern fisico elusivo ma portentoso che si realizza almeno in parte nel sensio, c’è in giro una gran quantità di «luci accese» disseminate in punti particolari qua e là nell’universo. L’impasse rimane: quale di loro è me? Cosa rende uno di loro diverso da tutti gli altri? Qual è la fonte della «io-ità»?
SA 641: Perché dici che saresti diverso dagli altri? Ciascuno di loro protesterebbe a gran voce che è lui quello che è diverso. Tutti voi stareste sbandierando soltanto lo stesso identico pensiero. In questo senso, sì, sareste tutti veramente indistinguibili!
SA 642: Credo che tu voglia provocarmi. Sai benissimo che io non sono la stessa cosa di tutti gli altri. Il mio fuoco interiore è qui, non da qualche altra parte. Vorrei sapere che cosa distingue questo particolare fuoco da tutti gli altri.
SA 641: È come ho detto prima: tu sei un satellite del tuo cervello. Come un focolare, un determinato cervello è in un punto determinato. E ovunque gli capiti di essere, lo strano anello che lo abita chiama quel luogo «qui». Che c’è di così misterioso in tutto questo?
SA 642: Non stai rispondendo alla mia domanda. Credo che tu non ne abbia neppure sentito il suono.
SA 641: Come no - io suono qui, tu suei lì!
SA 642: Ahia. Ora ascolta solo un momento. La mia domanda è molto semplice e diretta. Chiunque è in grado di capirla (eccetto forse te). Perché io sono in questo cervello? Perché non sono andato a finire in qualche altro cervello? Perché non sono andato a finire nel tuo cervello, per esempio?
SA 641: Perché il tuo io non era una cosa ben definita a priori e predestinata a saltare in un qualche particolare momento, già matura e delineata, in un qualche recipiente fisico vuoto appena creato. Né il tuo io è nato all’improvviso, del tutto inatteso ma già perfettamente sviluppato. Invece, il tuo io è emerso a poco a poco da un enorme numero di eventi imprevedibili capitati a un determinato corpo e al cervello che vi era ospitato. Il tuo io è la struttura autorinforzante che è arrivata a esistere passo passo non solo in quel cervello, ma grazie a quel cervello. Non avrebbe potuto arrivare a esistere in questo cervello, perché questo cervello è passato attraverso esperienze differenti che hanno prodotto un differente essere umano.
SA 642: Ma perché non avrei potuto avere io quelle stesse esperienze che hai avuto tu così facilmente?
SA 641: Attento, adesso! Ogni io è definito come il risultato delle sue esperienze, e non viceversa! Pensare il contrario è una trappola molto invitante e allettante in cui cadere. In quello che dici continua a manifestarsi il tacito assunto che ogni io, malgrado sia cresciuto solo all’interno di un determinato cervello, non sia profondamente radicato in quel cervello - che lo stesso io avrebbe potuto crescere altrettanto bene in, ed essere associato a, ogni altro cervello; che il legame che c’è tra un dato io e un dato cervello sia altrettanto debole del legame che c’è fra un dato canarino e una data gabbia. Come se tu potessi scambiarli in modo del tutto arbitrario.
SA 642: Ancora non afferri il nocciolo del mio discorso. Invece di chiedere perché io sono finito in questo cervello, sto chiedendo perché io sono partito proprio in questo cervello fra i tanti che c’erano, e non in qualche altro. Non c’è nessuna ragione per cui dovesse essere proprio quel cervello lì.
SA 641: No, sei tu che non afferri l’essenziale. Il
punto centrale, per quanto sgradevole possa essere per te, è che
non c’è qualcuno che sia partito in questo cervello -
proprio non c’è. Era tanto disabitato quanto una fune oscillante o
un mulinello. Ma, a differenza di questi sistemi fisici, poteva
percepire ed evolvere in sofisticazione, e così, col passare delle
settimane, dei mesi e degli anni, lì dentro arrivò gradualmente a
esserci qualcuno. Tuttavia, quell’identità personale non è
apparsa all’improvviso e già interamente sviluppata; si è invece
addensata e delineata poco per volta, come una nuvola in cielo o
come condensa sul vetro di una finestra.
SA 642: Ma chi era destinata a essere quella persona? Perché non sarebbe potuta essere qualcun altro?
SA 641: Ci sto arrivando. Ciò che lentamente giunse a pervadere quel cervello era un insieme complicato di attitudini mentali e abitudini verbali che stanno ora ripetendo in modo insistente questa domanda: «Perché sono qui e non lì?». Come puoi notare, questo cervello qui (il mio, cioè) non conduce la sua bocca a fare in continuazione questa domanda. Il mio cervello è molto diverso dal tuo cervello.
SA 642: Mi stai dicendo che non ha senso porre la domanda: «Perché io sono qui e non lì?».
SA 641: Sì, sto dicendo questo, tra le altre cose. Ciò che rende tutto questo così controintuitivo - tendendo talvolta all’incomprensibile - è che il tuo cervello (come il mio, come quello di chiunque) ha raccontato a sé stesso un milione di volte una storia autorinforzante il cui attore principale è chiamato «io», e uno degli aspetti fondamentali di questo io, un aspetto che è veramente una conditio sine qua non per la «io-ità», è che è in grado di guizzare con molta scioltezza entrando in altri cervelli, almeno in parte. Per intimità, empatia, amicizia, parentela (e per altre ragioni), l’io del tuo cervello compie piccole e rapide incursioni in altri cervelli, vedendo in tal modo le cose in certa misura dalla loro prospettiva, e convincendosi di conseguenza che potrebbe benissimo essere ospitato anche in questi cervelli. E poi, naturalmente, comincia a chiedersi perché mai non vi sia ospitato.
SA 642: Be’, se lo chiederebbe senz’altro. Niente di più naturale.
SA 641: E una parte della risposta è che in minima misura il tuo io è ospitato in altri cervelli. Sì, il tuo io è ospitato un po’ nel mio, ahimè ottuso e testardo, cervello, e viceversa. Eppure, malgrado questo confuso riversarsi verso l’esterno che trasforma la versione strettamente comunale di Te nel Grande Te Metropolitano, il tuo è ancora molto localizzato. Certo, il tuo io non è uniformemente distribuito tra tutti i cervelli sulla superficie della terra - non più di quanto la grande distesa metropolitana di Città del Messico abbia sobborghi in Madagascar! Ma c’è un’altra parte della risposta alla tua domanda «perché io sono qui e non lì?», e ti disturberà. Ed è che il tuo io non è ospitato da nessuna parte.
SA 642: Come, scusa? Questa non ha l’aria di essere la tua solita posizione.
SA 641: Ecco, è soltanto un altro modo di guardare a queste cose. In precedenza, ho descritto il tuo io come una struttura che si autorinforza, nonché una favola che si autorinforza, ma ora rischierò davvero di irritarti chiamandolo un mito che si autorinforza.
SA 642: Un mito?! Poco ma sicuro che io non sono affatto un mito, e sono qui a dirtelo.
SA 641: Alt, frena un attimo. Pensa all’illusione della biglia solida e tridimensionale nella scatola di buste. Se io insistessi nel dire che quella scatola di buste contiene una biglia reale, tu diresti che io ho abboccato come un allocco all’amo di un’illusione tattile, non è vero?
SA 642: Infatti lo farei, sebbene la sensazione che lì dentro ci sia qualcosa di solido non è un’illusione.
SA 641: Su questo siamo d’accordo. Allora quello che io sostengo è che il tuo cervello (come il mio e quello di chiunque altro) ha inventato, per assoluta necessità, qualcosa che chiama «io», ma che quella cosa è tanto reale (o meglio, irreale) quanto lo è quella «biglia» in quella scatola di buste. In questo senso, il tuo cervello ha abbindolato sé stesso. L’io - il tuo, il mio, quello di chiunque - è un’efficacissima illusione, e lasciarci irretire da questa illusione ci garantisce favolose chance di sopravvivenza. I nostri io sono illusioni autorinforzanti che sono un inevitabile sottoprodotto degli strani anelli, i quali sono essi stessi un inevitabile sottoprodotto di cervelli dotati di simboli che guidano i corrispondenti corpi attraverso le pericolose asperità e gli infidi meandri della vita.
SA 642: Tu mi stai dicendo che un io in realtà non c’è. Tuttavia, il mio cervello mi assicura con altrettanta forza e determinazione che un io c’è. Allora tu mi dici che questo è soltanto dovuto al fatto che il mio cervello mi sta imbrogliando con un trucco. Ma scusami - il mio cervello sta imbrogliando chi? Mi hai appena detto che questo me non esiste, perciò chi sta imbrogliando il mio cervello? E - chiedo scusa ancora una volta - come posso addirittura chiamarlo «il mio cervello» se non c’è alcun me a cui possa appartenere?
SA 641: Il problema è che, in un certo senso, un io è qualcosa creato dal nulla. E siccome non è certo possibile creare qualcosa dal nulla, il presunto qualcosa risulta alla fine essere un’illusione, ma un’illusione molto potente, come la biglia fra le buste. Tuttavia, l’io è un’illusione molto più radicata e recalcitrante dell’illusione della biglia, perché nel caso dell’io non c’è un semplice atto rivelatore corrispondente al capovolgere la scatola e scuoterla, poi scrutare fra le buste e trovare che non c’è nulla di solido e sferico lì dentro. Noi non abbiamo accesso ai meccanismi interni dei nostri cervelli. E dunque la sola prospettiva da cui poter considerare la nostra biglia di «io-ità» ci viene dall’analogo dello stringere tutte le buste in una volta, e quella prospettiva ci dice che essa è reale!
SA 642: Se questa è l’unica prospettiva possibile, allora cosa ci potrebbe dare il pur minimo sentore che stiamo forse prestando fede a un mito?
SA 641: Una cosa che tende a insinuare in molte persone il vago sospetto che questa nozione di «io» potrebbe essere in qualche modo un mito è proprio quello che ti ha dato dei problemi durante tutta la nostra discussione - vale a dire che sembra esserci un’incompatibilità tra le dure leggi della fisica e l’esistenza di cose vaghe e indistinte chiamate «io». Come possono dei soggetti di esperienza arrivare a esistere in un mondo in cui ci sono in giro soltanto cose inanimate? Sembra quasi come se percezione, sensazione ed esperienza fossero qualcosa in più, ben oltre la fisica.
SA 642: A meno che, naturalmente, ci sia il sensio, ma questo è ben lungi dall’essere evidente. In ogni caso, sono d’accordo nel dire che i conflitti con la fisica suggeriscono che questa nozione di «io» è molto sfuggente e richiede a gran voce una spiegazione.
SA 641: Un secondo indizio del fatto che qualcosa abbia bisogno di essere riconsiderato ha a che fare con che cosa percepiamo essere causa di che cosa. Nella nostra vita quotidiana diamo per scontato che un io è in grado di causare eventi, di comandare cose di qua e di là. Se io decido di andare in macchina al supermercato, va a finire che la mia automobile da una tonnellata si muove ed effettivamente mi porta là e mi riporta indietro. Ora, questo sembra davvero molto bizzarro nel mondo della fisica, dove ogni cosa si verifica soltanto come risultato di una certa interazione fra particelle. Che spazio lascia la storia delle particelle all’idea che un oscuro ed etereo io sia in grado di causare il movimento di una pesante macchina verso un qualche luogo preciso? Anche questo getta un po’ di incertezza sulla realtà della nozione di «io».
SA 642: Forse - ma, nel caso, è un dubbio molto molto debole.
SA 641: Non importa. Questo dubbio debolissimo è in aperto contrasto con ciò che tutti noi diamo per scontato sin dalla più tenera infanzia, ovvero l’idea che gli io esistano davvero - e nella maggior parte delle persone quest’ultima convinzione s’impone alla grande senza colpo ferire. Nella mente della maggior parte delle persone la lotta non ha neppure inizio mentre in un ristretto numero di persone questa lotta si scatena: fisica contro io. E sono state proposte varie vie di uscita, comprese la nozione che la coscienza sia un nuovo tipo di fenomeno quantistico,82 o l’idea che la coscienza risieda uniformemente in tutta la materia, e così via. La mia proposta per una tregua che metta fine a questa lotta è quella di considerare l’io come un’allucinazione percepita da un’allucinazione, il che suona molto strano, o, formulando la cosa in modo forse ancor più strano, di considerare l’io come un’allucinazione allucinata da un’allucinazione.
SA 642: Questo suona ben più che strano. Suona folle.
SA 641: Forse, ma come molti strani frutti della scienza moderna può suonare folle e tuttavia essere corretto. Una volta suonava folle dire che la terra si muovesse e il sole fosse immobile, poiché era palesemente ovvio che fosse il contrario. Oggi possiamo vederla in entrambi i modi, in base alle circostanze. Se siamo in uno stato d’animo ordinario, diciamo: «Il sole sta tramontando», mentre se siamo in uno stato d’animo scientifico ci ricordiamo che è soltanto la terra a girare. Siamo creature flessibili, capaci di cambiare punto di vista a seconda delle circostanze.
SA 642: E dunque, nella tua visione, dovremmo anche essere in grado di cambiare punto di vista sull’esistenza di un io?
SA 641: Decisamente. La mia affermazione che un io è un’allucinazione percepita da un’allucinazione è in certo modo simile al punto di vista eliocentrico - può produrre nuove idee ma è molto controintuitivo, e di certo non facilita la comunicazione con gli altri esseri umani, i quali credono tutti con indomito fervore nei loro io. E’ postulando l’esistenza del nostro proprio io e di entità analoghe nelle altre persone che siamo soliti spiegare il nostro comportamento e quello degli altri. Questo punto di vista ingenuo ci consente di parlare del mondo delle persone in termini che per le persone sono perfettamente sensati.
SA 642: Ingenuo?! Noto che tu non hai smesso di dire «io»! L’hai detto probabilmente un centinaio di volte negli ultimi cinque minuti!
SA 641: Vero. Hai assolutamente ragione. Anche se è un’illusione, questo «io» è un concetto necessario e indispensabile per tutti noi, come pensare che il sole stia girando intorno alla Terra perché sorge, attraversa il cielo e tramonta. È soltanto quando il nostro punto di vista ingenuo sull’io va a cozzare contro il mondo della fisica che s’imbatte in ogni genere di difficoltà. Ed è allora che quelli di noi che sono portati per la scienza si rendono conto che deve esserci una qualche altra versione dei fatti da raccontare in proposito. Ma per la maggior parte di noi credere nella versione semplice dell’io è un milione di volte più importante che immaginare una spiegazione scientifica dell’io, perciò il risultato è che non c’è competizione. Il mito dell’io stravince alla grande, senza nemmeno che ci sia stato un dibattito - anche nelle menti della maggioranza delle persone portate per la scienza!
SA 642: Com’è possibile?
SA 641: Suppongo per due ragioni. La prima è che il mito dell’io è infinitamente più centrale per il nostro sistema di convinzioni di quanto lo sia il mito del «sole che gira intorno alla terra»; la seconda è che ogni possibile alternativa scientifica è molto più sottile e disorientante di quanto non fosse il passaggio all’eliocentrismo. Ed è così che il mito dell’io è assai più difficile da scacciare dalle nostre menti del mito del «sole che gira intorno alla terra». Per un adulto tipico, smantellare l’io ha più o meno lo stesso potere di attrazione che avrebbe per un bambino tipico smantellare Babbo Natale. A dire il vero, rinunciare a Babbo Natale è banale in confronto a rinunciare all’io. Smettere di credere del tutto nell’io è di fatto impossibile, perché è indispensabile per la sopravvivenza. Che ci piaccia o no, a noi umani tocca rimanere incollati a questo mito.
SA 642: Perché continui a dire che l’io è solo un mito o un’allucinazione o un’illusione, proprio come quella benedetta non-biglia? Mi ha stufato il tuo continuo tirare in ballo la trita e ritrita metafora della biglia. Voglio sapere cosa sono le allucinazioni di cui parli.
SA 641: Va bene, mettiamo per un momento da parte la metafora della biglia. L’idea di base è che la danza dei simboli in un cervello è essa stessa percepita da simboli, e questo passaggio estende la danza, cosicché il tutto continua a girare e girare. Ecco, detto in due parole, cos’è la coscienza. Ma, se ti ricordi, i simboli non sono altro che vasti fenomeni costituiti di attività neurale non-simbolica, perciò è possibile cambiare punto di vista e liberarsi del tutto del linguaggio dei simboli, nel qual caso l’io si disintegra. Semplicemente svanisce nel nulla, e così non c’è più posto per la causalità verso il basso.
SA 642: Che cosa significa, più precisamente?
SA 641: Significa che in questo nuovo quadro non ci sono convinzioni, desideri, tratti caratteriali, senso dell’umorismo, idee, ricordi o nient’altro di mentalistico; rimangono solo eventi fisici minuscoli (collisioni di particelle, in pratica). Si può fare lo stesso nel carambio, dove puoi cambiare punto di vista, guardando le cose al livello dei simmbili, ovvero guardandole al livello delle simm. Al primo livello sono del tutto invisibili le simm, e al secondo livello sono del tutto invisibili i simmbili. Questi punti di vista rivali sono veramente agli antipodi, come le visioni eliocentrica e geocentrica.
SA 642: Concordo su tutto, ma perché continui a sottintendere che una delle due visioni è un’illusione e l’altra è la verità? Tu attribuisci sempre il primato al punto di vista delle particelle, il punto di vista microscopico di basso livello. Perché sei così prevenuto? Perché non vuoi vedere soltanto due visioni rivali altrettanto valide fra le quali possiamo oscillare quando lo riteniamo opportuno, un po’ come i fisici che, quando hanno a che fare con i gas, possono oscillare fra termodinamica e meccanica statistica?
SA 641: Perché, per nostra grande sfortuna, la visione senza particelle implica svariate modalità di pensiero magico. Richiede di operare una divisione del mondo in due generi radicalmente diversi di entità (soggetti di esperienza e non-soggetti di esperienza), implica due generi radicalmente diversi di causalità (verso il basso e verso l’alto), implica anime immateriali che sbucano dal nulla e a un certo punto improvvisamente si estinguono, e altro ancora.
SA 642: Accidenti, come sei contraddittorio! Ti piaceva la spiegazione della caduta della tessera del domino che faceva appello alla primalità di 641! Addirittura la preferivi! Continuavi a dire che era quello il vero motivo per cui la tessera non cadeva, e che l’altra spiegazione era miope e irrimediabilmente inutile.
SA 641: Touché! Ammetto che la mia posizione ha in sé effettivamente una punta d’ironia. Qualche volta il punto di vista scientifico in senso stretto è irrimediabilmente inutile, anche se è corretto. Questo è il dilemma. Come dicevo, la condizione umana è, per sua stessa natura, quella di credere in un mito. E noi siamo permanentemente intrappolati in questa condizione, il che rende la vita piuttosto interessante.
SA 642: Molto tempo fa il taoismo e lo zen intuirono la paradossalità di questo stato di cose e si ripromisero di smantellare o decostruire l’io, o semplicemente di liberarsene.83
SA 641: Sembra un fine nobile, ma è destinato a fallire. Proprio come noi abbiamo bisogno dei nostri occhi allo scopo di vedere, abbiamo bisogno dei nostri io allo scopo di essere! Noi umani siamo creature il cui destino è quello di essere capaci di percepire astrazioni, e di sentirci fortemente spinti a farlo. Siamo esseri che trascorrono le loro vite classificando il mondo in una sempre più ampia gerarchia di pattern, tutti rappresentati da simboli nei nostri cervelli. Di continuo veniamo fuori con nuovi simboli mettendo insieme simboli già noti in nuovi tipi di strutture, quasi all’infinito. Inoltre, essendo macroscopici, non possiamo vedere fino al livello più basso che è il luogo della causalità fisica, e così per compensare troviamo ogni sorta di formule abbreviate che sono meravigliosamente efficaci nel descrivere ciò che accade, perché il mondo, benché piuttosto folle e caotico, è malgrado tutto molto ricco di regolarità su cui poter contare per buona parte del tempo.
SA 642: Di che tipi di regolarità stai parlando?
SA 641: Oh be’, per esempio le altalene di un parco giochi oscilleranno in modo molto prevedibile quando le spingi, anche se i dettagli di come si muovono le loro catenelle e i loro sedili sono di gran lunga al di là della nostra capacità di previsione. Ma a noi di quel livello di dettaglio non importa un bel niente. A noi sembra di sapere molto bene come si muovono le altalene. Allo stesso modo, i carrelli per la spesa vanno più o meno dove vogliamo che vadano quando li spingiamo, anche se quelle rotelle traballanti danno loro, com’è piuttosto prevedibile, un divertente pizzico di imprevedibilità. E qualcuno che passeggiando sul marciapiede viene verso di noi potrà anche fare qualche movimento un po’ imprevedibile, ma si può contare sul fatto che non si trasformerà in un gigante e non ci ingoierà in un boccone. Sono questi i tipi di regolarità che tutti noi conosciamo a fondo e diamo per scontate, e sono regolarità incredibilmente distanti dal livello delle collisioni di particelle. L’abbreviazione in assoluto più efficace e irresistibile è quella di attribuire convinzioni e desideri astratti a certe entità «privilegiate» (quelle con una mente - animali e persone), e di impacchettare tutte queste cose insieme in una singola unità che si presume indivisibile la quale rappresenta l’«essenza centrale» di tale entità.
SA 642: Intendi l’«anima» di quella entità?
SA 641: Pressappoco. O, se non vuoi usare quella parola, allora è ciò che tu presumi che quella entità senta dentro di sé - il suo punto di vista interiore, diciamo. E dunque, per coronare il tutto, siccome ogni entità che percepisce è sempre immersa nella propria attività interiore e nelle sue infinite conseguenze, non può trattenersi dall’architettare una storia, o favola, particolarmente intricata sulla propria anima, sulla propria essenza centrale. Questa storia non differisce qualitativamente dalle storie che inventa per le altre entità dotate di mente che vede intorno a sé - è soltanto molto più dettagliata. Inoltre, la storia di un io è una favola su un’essenza centrale che non scompare mai dalla vista8 (a differenza dei «tu» e dei «lei» e dei «lui», che tendono ad apparire per un episodio o due e poi a uscire di scena).
SA 642: Dunque è il fatto che il sistema sia in grado di osservare sé stesso che lo condanna a questa illusione.
SA 641: Non solo che è in grado di osservare sé stesso, ma che in effetti lo fa, e che lo fa tutto il tempo. Questo, oltre al fatto cruciale che non ha altra scelta se non quella di semplificare radicalmente tutto quanto. Le nostre categorie sono vaste semplificazioni di pattern presenti nel mondo, ma se ben selezionate sono efficacissime nel permetterci di sondare e anticipare il comportamento del mondo intorno a noi.
SA 642: E perché non possiamo liberarci delle nostre allucinazioni? Perché non possiamo raggiungere quel puro e disinteressato stato «disidentizzato» cui aspirerebbero gli adepti dello zen?
SA 641: Possiamo tentare tutto quello che vogliamo, ed è un esercizio interessante per un breve periodo, ma non possiamo spegnere il nostro macchinario percettivo e continuare a sopravvivere in questo mondo. Non possiamo forzarci a non percepire cose come alberi, fiori, cani e altre persone. Possiamo fingere di stare al gioco, dire a noi stessi che ci siamo riusciti, sostenere che li abbiamo «non-percepiti», ma questo è un puro e semplice autoinganno. Il fatto è che siamo crea ture macroscopiche, per cui la nostra percezione e le nostre categorie sono a grana enormemente grossa rispetto a quella del tessuto in cui risiede la vera causalità dell’universo. Ci tocca rimanere al livello della semplificazione radicale, nel bene e nel male.
SA 642: E sarebbe una tragedia? Lo fai sembrare un destino molto triste.
SA 641: Niente affatto - è la nostra gloria! Sono solo quelli che prendono lo zen e il tao molto seriamente che la considerano una condizione contro cui lottare con le unghie e con i denti. Respingono le parole, respingono la suddivisione del mondo iti parti separate e l’idea di assegnare loro dei nomi. E perciò forniscono delle ricette - come per esempio i loro buffi koan - per provare a combattere questo impulso universale e integrato dentro di noi a usare le parole. Da parte mia, non ho alcun desiderio di lottare contro l’uso delle parole nel mestiere di capire i misteri del mondo - tutto il contrario! Ma ammetto che usare le parole presenta uno svantaggio davvero enorme.
SA 642: E quale sarebbe?
SA 641: Sarebbe che dobbiamo convivere con un paradosso, e conviverci in strettissima intimità. E la parola «io» è emblema di tutto questo.
SA 642: Non vedo proprio nulla di paradossale che riguardi la parola «io». Di fatto, non vedo alcuna analogia tra la nozione banale, semplice, concreta di «io» e la nozione esoterica, così sfuggente da essere quasi inafferrabile, di uno strano anello gòdeliano.
SA 641: Bene, allora considera questo. Da un lato, l’espressione «io» denota un insieme di astrazioni di livello molto elevato: la storia di una vita, una serie di gusti, una commistione di speranze e timori, alcuni talenti e alcune lacune, un certo grado di arguzia, un qualche altro grado di distrazione, e così via. Eppure, d’altro canto, l’espressione «io» denota un oggetto fisico fatto di miliardi di cellule, ciascuna delle quali sta facendo le sue cose senza il benché minimo riguardo per il presunto «tutto» di cui non è che una parte infinitesima. Per metterla in un altro modo, dicendo «io» ci si riferisce allo stesso tempo a un substrato biologico altamente tangibile e palpabile e, insieme, a un pattern psicologico altamente intangibile e astratto. Quando dici «io ho fame», a quale di questi due livelli ti riferisci? E a quale ti riferisci quando dichiari «io sono felice»? E quando confessi «io non riesco a ricordarmi il nostro vecchio numero di telefono»? E quando proclami con gioia «io amo moltissimo sciare»? E quando dici sbadigliando «io ho sonno»?
SA 642: Sì, ora che ne parli, convengo che ciò per cui questo «io» sta è un po’ difficile da definire con precisione. A volte il suo referente è concreto e fisico, a volte è astratto e mentale. Eppure, quando si arriva al nocciolo, l’io è sempre, nello stesso tempo, sia concreto che astratto.
SA 641: È soltanto un’unica cosa descritta in due modi fenomenalmente (e fenomenicamente) diversi, ed è esattamente lo stesso per la proposizione di Godel. Questa è la ragione per cui è legittimo dire che essa è riferita sia ai numeri che a sé stessa. In modo analogo, l’io è riferito sia a una miriade di oggetti fisici distinti sia, anche, a un singolo pattern astratto - proprio quel pattern in grado di far sì che la parola venga pronunciata!
SA 642: Sembra che questo piccolo pronome sia il fulcro di tutto ciò che rende la nostra esistenza umana misteriosa e mistica. È così diverso da qualsiasi altra cosa. L’anello implicato dal pronome «io» con i suoi puntatori intrinseci rivolti su sé stesso 9 - la sua indessicalità, come la chiamerebbero i filosofi - è assolutamente diverso in questa sua essenza da tutte le altre strutture presenti nell’universo.
SA 641: Su questo non sono del tutto d’accordo con te. Anzi, non sono affatto d’accordo. Il pronome «io» non implica un’autoreferenza più potente o più profonda o più misteriosa dell’autoreferenza al cuore della costruzione di Godel. Al contrario! Il punto è proprio che Godel ha spiegato che cosa l’io significa realmente. Ha svelato che dietro le quinte dei cosiddetti «indessicali» ci sono solo codici e corrispondenze che dipendono da sistemi di analogie stabili e affidabili. La cosa che chiamiamo «io» proviene da questa stabilità referenziale, e questo è tutto. Non c’è niente di mistico nell’io, non più che in ogni altro termine referenziale. Semmai, è il linguaggio che è così radicalmente differente da altre strutture presenti nell’universo.
SA 642: Così, per te, l’io non è mistico? Il fatto di essere non è misterioso?
SA 641: Non ho detto questo. Il fatto di essere mi sembra molto misterioso, perché, come chiunque altro, io sono finito e non ho la capacità di vedere abbastanza a fondo nel mio substrato per far svanire nel nulla il mio io. Immagino che, se l’avessi, la vita sarebbe assai poco interessante.
SA 642: Lo penso anch’io!
SA 641: Quando però effettivamente, facendo esperimenti scientifici, guardiamo giù ai nostri substrati a grana fine, ci imbattiamo in piccoli miracoli che sono gòdeliani tanto quanto l’io.
SA 642: Ah, sì, certo - piccoli microgòdelini! Ma… per esempio?
SA 641: Intendo l’autoriproduzione della doppia elica del DNA. Il meccanismo che si cela dietro tutto questo implica proprio le stesse idee astratte presenti nell’autoreferenza gòdeliana. Questo è ciò che John von Neumann mise involontariamente in luce quando, nei primi anni Cinquanta, progettò una macchina in grado di autoriprodursi, e che aveva esattamente la stessa struttura astratta dello stratagemma autoreferenziale di Godel.84
SA 642: Stai forse dicendo, quindi, che i microgòdelini sono macchine autoreplicanti?
SA 641: Sì! È un’analogia sottile ma bella. Il corrispettivo del numero k di Godel è un progetto specifico, un programma. La macchina «genitore» esamina questo progetto e segue esattamente le sue istruzioni - cioè costruisce ciò che il progetto descrive. Per fare questo, deve sapere quali simboli grafici stanno per quali oggetti - un tipo di codice, o mappatura, gòdeliani. L’oggetto appena costruito è una macchina che manca di una parte cruciale - è solo un pre-oggetto. Per colmare questa lacuna, la macchina genitore subito dopo copia il progetto e introduce la copia (che è la parte chiave mancante) nella nuova macchina, e voilà\ - il nuovo oggetto composito è una macchina «figlia», identica al suo genitore.
SA 642: Questo mi ricorda il logo del sale Morton. Dunque, la «macchina figlia» mancante della parte cruciale sarebbe come la «ragazza con l’ombrello» che sta lì a mani vuote? E il progetto sarebbe la scatola di sale piccola?
SA 641: Esatto! Allungale la scatola piccola e la corsa comincia! Infinità, avanti tutta! E, cosa incredibile, solo pochi anni dopo i biologi molecolari scoprirono che il meccanismo gòdeliano di von Neumann era lo stesso stratagemma che la Natura aveva scoperto per costruire entità fisiche in grado di autoriprodursi. Il DNA, ovviamente, è il progetto. Tutto s’impernia sull’esistenza di mappature stabili (in questo caso, della mappatura chiamata «codice genetico») e dei significati che ne derivano. E guarda a cosa ha portato tutto questo - a tutta quanta la vita, fin dove è arrivata, e verso dove mai sta ancora andando! Infinità, avanti tutta!
SA 642: Tu sostieni, quindi, che la sensazione di essere un’entità vivente unica, rispecchiata nella magica indessicalità della sfuggente parola «io», non è poi un fenomeno così profondo, ma soltanto una banale conseguenza dell’esistenza di mappature?
SA 641: Non penso proprio di aver detto questo! La sensazione di essere vivi e di essere qualcosa di unico in questa catena infinita è certamente profonda! Solo che non trascende le leggi fisiche.
Al contrario, qui le leggi fisiche sono state sfruttate fino in fondo - nulla di meno banale! D’altronde, il desiderio fin troppo comune di avvolgere nel mistero il pronome «io», come se celasse un enigma più profondo di quanto non facciano altre parole, confonde veramente il quadro della situazione. Alla radice di tutti questi strani fenomeni c’è solo la percezione, con il suo portare all’interno dei sistemi fisici simboli e significati. Percepire è fare uno straordinario balzo dalla «rigogliosa e ronzante confusione» di William James per arrivare a un livello astratto e simbolico. E poi, quando la percezione si gira all’indietro e si focalizza su sé stessa, come inevitabilmente tende a fare, si hanno conseguenze ricche e in apparenza magiche. In apparenza magiche, bada, ma non veramente magiche. Si ha un anello a feedback con attraversamento di livelli la cui apparente solidità sovrasta la realtà di qualunque altra cosa al mondo. Questo «io», questa irreale ma ostinatissima biglia nella mente, questo «Epi» fenomeno, assume semplicemente il controllo di tutto, consacrandosi a essere la Realtà Numero Uno, e da quel momento non se ne andrà più, per quante parole si possano spendere.
SA 642: Perciò l’io è fin troppo merabiglioso - troppo merabiglioso per dirlo?85
SA 641: Che cosa?! Pensavo tu pensassi che l’idea di «io» che sono andato spiegando a gran voce fosse campata in aria.
SA 642: E vero, lo pensavo, ma ora penso di stare afferrando il succo de! tuo discorso. Forse sto un po’ cambiando opinione. La tua visione strano-anulare dell’io sfiora il paradossale, eppure non del tutto. È come Mani che disegnano di Escher - è paradossale quando sei risucchiato dentro il disegno dal suo fantastico realismo, ma il paradosso si dissolve quando fai un passo indietro e lo vedi dall’esterno. A quel punto è soltanto un altro disegno! Assolutamente affascinante. È un po’ un barare alla Berry. È tutto troppo, troppo berrybilmente merabiglioso per dirlo…
SA 641: Ah, questa è musica per le mie orecchie! Sono così felice che tu riconosca un po’ di valore alle mie idee. Come sai, sono soltanto metafore, ma mi aiutano a dare un qualche senso a quell’immenso enigma che è l’esistenza e, come tu continui a sottolineare, all’enorme enigma del sentire di essere qui. Ti ringrazio per la splendida occasione che mi hai dato di scambiare i nostri punti di vista su tali questioni così sottili.
SA 642: Il piacere, te lo assicuro, è stato tutto mio. E aspetterò il nostro prossimo incontro con alacrità, celerità, assiduità, vigore, vibrazione, vitalità, savoir-faire e smodata velocità.86 Adieu fino ad allora, e sfammi bene!
[Escono.]