Il mistero della carne inanimata
In alcune lingue, come l’inglese e anche l’italiano, non si usa dire che mangiamo il maiale o la mucca, ma che mangiamo la carne di maiale o la carne di manzo. Mangiamo sì pollo - ma non mangiamo i polli. Una volta la giovanissima figlia di un mio amico raccontò tutta allegra al padre che la parola usata per un certo uccello d’allevamento che chiocciava e faceva le uova era anche quella per definire una sostanza che lei trovava spesso nel suo piatto all’ora di cena. Alla bimba questa sembrava una coincidenza davvero buffa, simile alla buffa coincidenza per cui, per esempio, «venti» indica sia il plurale di «vento» che il numero successivo a diciannove. Rimase molto turbata, inutile dirlo, quando le spiegarono che quel cibo saporito e l’animale che deposita uova e fa coccodè erano esattamente la stessa cosa.
Probabilmente passiamo tutti per questo stesso stato di confusione quando, da bambini, scopriamo che stiamo mangiando animali che la nostra cultura ci dice essere carini e graziosi - agnellini, coniglietti, vitellini, pollastrelle, e così via. Ricordo, seppur vagamente, la mia stessa sincera confusione infantile di fronte a questo mistero, ma siccome il mangiar carne era un così incontestato luogo comune, di solito mettevo tutto sotto il tappeto e non stavo troppo a pensarci su.
Tuttavia, i negozi di alimentari avevano un loro modo sgradevole di sollevare chiaramente il problema. C’erano grandi banconi che mettevano in mostra ogni genere di masse informi dall’apparenza viscida e di vari strani colori, etichettate «fegato», «trippa», «cuore» e «reni», e qualche volta perfino «lingua» e «cervello». Non solo queste suonavano come parti animali, ne avevano anche tutta l’apparenza. Fortunatamente, quello chiamato «manzo macinato» non era poi così tanto simile a una parte animale, e dico «fortunatamente» perché aveva un così buon sapore. Non avrei mai voluto essere dissuaso dal mangiare quello! Anche la pancetta era buonissima, e le strisce di quella roba erano così sottili e, una volta cotte, così croccanti che non facevano proprio pensare a un animale. Che fortuna!
Erano le banchine di scarico sul retro dei negozi di alimentari a riproporre il mistero a viva forza. A volte si fermava un grosso camion, e quando il portellone posteriore si spalancava vedevo enormi pezzi di carne e ossa penzolare senza vita da spaventosi ganci metallici. Guardavo ogni volta con morbosa curiosità queste carcasse che scorrevano lungo traverse sopraelevate, così da poter essere spostate con facilità. Tutto questo metteva molto a disagio il preadolescente che ero, e contemplando una carcassa non potevo impedirmi di riflettere: «Chi era quell’animale?». Non mi stavo chiedendo il suo nome, sapevo bene che gli animali d’allevamento non ne avevano; stavo cercando di afferrare qualcosa di più filosofico - come ci si era sentiti a essere quell’animale piuttosto che un altro. Che cos’era quella irripetibile luce interiore che si era improvvisamente spenta quando quell’animale era stato ammazzato?
Quando da ragazzo andai in Europa, il problema si ripresentò in modo ancor più crudo. Là, corpi di animali senza vita (di solito scuoiati, privati di testa e coda, ma a volte anche interi) erano in bella mostra di fronte a tutti i clienti. Il mio ricordo più vivo è quello di una grossa drogheria che, nel periodo natalizio, aveva esposto su un bancone una testa di maiale. Se a uno capitava di avvicinarglisi da dietro, poteva vedere una sezione piatta con tutte le strutture inteme del collo dell’animale, proprio come se fosse stato ghigliottinato. C’erano tutte le fitte linee di comunicazione che tuta volta avevano collegato le varie parti remote del corpo di questo individuo al «quartier generale» nella sua testa. Visto dalla parte opposta, questo maiale aveva stampato in faccia quello che sembrava un sorriso congelato, e la cosa mi faceva accapponare la pelle.
Ancora una volta non potei fare a meno di chiedermi: «Chi c’era stato un tempo dentro quella testa? Chi aveva vissuto lì? Chi aveva guardato attraverso quegli occhi, sentito con quelle orecchie? Chi era stato davvero questo pezzo di carne? Era un maschio o una femmina?». Non ottenni alcuna risposta, ovviamente, e nessun altro cliente pareva prestare attenzione a quell’esposizione. Mi sembrava che nessun altro si stesse confrontando con le intense domande su vita, morte, e «identità porcinale» che quella testa muta e immobile suscitava in modo così potente e tumultuoso nella mia.
A volte mi ponevo la stessa domanda dopo aver schiacciato una formica o una farfallina di tarma o una zanzara - ma non tanto spesso. D’istinto ero portato a pensare che in questi casi avesse meno senso chiedersi «Chi c’è “lì dentro”?». Ciononostante, la vista di un insetto parzialmente schiacciato che si agita in modo convulso sul pavimento mi induce sempre a un qualche tipo di riflessione interiore. E in effetti, il motivo per cui ho evocato tutte queste immagini cruente non è quello di fare una crociata per una causa sulla quale con tutta probabilità molti dei miei lettori avranno già riflettuto a lungo; quanto piuttosto sollevare la scottante questione di che cosa sia un’«anima», e di chi o cosa ne possieda una. E’ una questione che riguarda ciascuno di noi per tutta la durata della nostra vita - almeno implicitamente, e per molte persone anche esplicitamente - ed è la questione centrale di questo libro.