Telepresenza contro presenza «reale»
Forse la mia esperienza più intensa di telepresenza è stata nei giorni in cui ero impegnato nella composizione tipografica del mio libro Godel, Escher, Bach. Era la fine degli anni Settanta, quando era ancora impensabile che un autore facesse una cosa del genere, ma io avevo la fortuna di avere a disposizione uno dei due soli sistemi computerizzati per la composizione tipografica esistenti al mondo a quell’epoca, che per caso si trovavano entrambi a Stanford. Il problema era che io a quel tempo ero professore associato all’Università dell’Indiana nella lontana Bloomington e dovevo fare lezione il martedì e il giovedì. A rendere le cose ancora più difficili, non c’era Internet, perciò non potevo assolutamente svolgere il lavoro di composizione dall’Indiana. Per comporre il mio libro dovevo trovarmi fisicamente a Stanford, ma il calendario dei miei corsi mi consentiva di andarvi soltanto nei fine settimana, e per di più neanche tutti. Così, ogni volta che volavo a Stanford per un fine settimana, schizzavo all’istante nella Ventura Hall, mi fiondavo sul terminale nella cosiddetta «stanza Imlac» e mi immergevo freneticamente in un lavoro intensissimo. Una volta lavorai per quaranta ore di fila, prima di crollare.
Ora, cosa c’entra tutto questo con la telepresenza? Be’, ogni lunga ed estenuante sessione di lavoro a Stanford era a dir poco ipnotica, e quando me ne andavo mi sentivo quasi come se fossi ancora un po’ là. Una volta, dopo aver fatto ritorno a Bloomington, mi accorsi di aver commesso un serio errore di composizione in un capitolo e così, in preda al panico, telefonai al mio amico Scott Kim, che in quel periodo era solito trascorrere come me interminabili ore nella stanza Imlac, e con mio grande sollievo lo trovai là. Scott fu più che lieto di sedersi a un terminale Imlac e di trovare il programma giusto e il file da correggere. Così ci mettemmo a lavorare al testo, con me che a voce guidavo Scott per tutto il lungo e dettagliato processo, e Scott che mi leggeva quello che vedeva sullo schermo. Avendo appena trascorso tantissime ore proprio laggiù, mi era molto facile vedere con gli occhi della mente tutto ciò che Scott mi riferiva, e ricordo il mio disorientamento ogniqualvolta realizzavo che il mio corpo si trovava ancora a Bloomington, perché mi sentivo in tutto e per tutto come se fossi a Stanford, a lavorare direttamente sul terminale Imlac. E badate bene, questa potente sensazione visiva di telepresenza si verificava esclusivamente attraverso la modalità acustica di un telefono. Era come se i miei occhi, pur essendo a Bloomington, stessero guardando uno schermo Imlac in California, grazie agli occhi di Scott e alla chiarezza delle sue parole all’apparecchio.
Potete chiamare la mia sensazione un’«illusione», se volete, ma, prima di farlo, considerate quanto fosse rudimentale questa ormai obsoleta implementazione di telepresenza. Al giorno d’oggi, è facile immaginare di ruotare verso l’alto, di vari ordini di grandezza, tutte le possibili manopole tecnologiche. Potrebbe esserci laggiù in California un robot semovente i cui movimenti fossero soggetti al mio controllo preciso e istantaneo (di nuovo l’idea del joystick) e i cui «organi sensoriali» multimediali trasmettessero a me nell’Indiana in tempo reale qualunque cosa stessero registrando. Come risultato, potrei essere completamente immerso in un’esperienza virtuale a migliaia di chilometri da dove si trova il mio cervello, e la cosa potrebbe continuare per un periodo di tempo indefinito. A confondermi di più sarebbero sempre i momenti di transizione, quando, nel rimuovere il casco che mi fa sembrare di essere in California, verrei trasportato in una frazione di secondo più di tremila chilometri verso est - o, viceversa, quando indossando il casco coprirei in un lampo tutta la distanza fino alla costa ovest.
Cosa mi indicherebbe, alla fine, che la mia presenza in Indiana sarebbe «più reale» della mia presenza in California? Un indizio, suppongo, sarebbe il fatto rivelatore che per «essere» in California dovrei sempre indossare un qualche tipo di casco, laddove per «essere» a Bloomington non avrei bisogno di un simile dispositivo. Un’altra spia potrebbe essere il fatto che, se girovagando per la California trovassi del cibo, non potrei metterlo nel mio stomaco residente nell’Indiana! Questo piccolo problema, però, potrebbe essere risolto con facilità: basterebbe che mi attaccassi un dispositivo di alimentazione tipo flebo nell’Indiana e lo predisponessi per pompare sostanze nutrienti nel mio flusso sanguigno ogni volta che io - cioè il mio corpo robot - riuscissi a trovare del «cibo» in California (e non dovrebbe necessariamente essere cibo vero e proprio, fintantoché laggiù l’atto di posarvi sopra le mie remote mani robotiche attivasse il dispositivo di alimentazione endovenosa a casa nell’Indiana).
Ciò di cui uno comincia ad accorgersi, nel riflettere su queste idee sconcertanti ma tecnologicamente realizzabili di presenza virtuale «altrove», è che con il perfezionarsi della tecnologia di telepresenza la localizzazione «primaria» diventa sempre meno primaria. In effetti, ci si può immaginare un proverbiale «cervello nella vasca» a Bloomington che controlla un robot in giro per la California, e che crede fermamente di essere una creatura fisica là nell’Ovest, non credendo affatto di essere un cervello in una vasca. (Molte di queste idee sono state esplorate, fra l’altro, da Dan Dennett nella sua fantasia filosofica Dove sono?)2