Io sono il simbolo più complesso del mio cervello
Come un carambio (e anche come il sistema PM), un cervello può essere visto ad (almeno) due livelli - un livello basso, che riguarda processi e oggetti fisici molto piccoli (forse particelle, forse neuroni - fate voi), e un livello alto, che riguarda grandi strutture attivabili di volta in volta dai processi percettivi, che in questo libro ho chiamato simboli, e che sono quelle strutture che nel nostro cervello costituiscono le nostre categorie.
Tra le innumerevoli migliaia di simboli che fanno parte del repertorio di un normale essere umano, ce ne sono alcuni di gran lunga più frequenti e dominanti di altri, e uno di essi prende, un po’ arbitrariamente, il nome di «io» (almeno nella nostra lingua). Quando parliamo di altre persone, lo facciamo in termini di cose quali le loro ambizioni, abitudini, avversioni, e quindi abbiamo bisogno di formulare per ognuna di loro l’analogo di un io, che risiederà, naturalmente, nel loro cranio, non nel nostro. È chiaro, poi, che questa controparte del nostro io riceve varie etichette a seconda del contesto, come «Danny» o «Monica» o «tu» o «lui» o «lei».
Il processo di percezione del proprio sé nella sua interazione col resto dell’universo (formato soprattutto, ovviamente, dalla propria famiglia, dagli amici, dai brani musicali preferiti, dai libri e film preferiti, e così via) continua per tutta la vita. Ne segue che il simbolo dell’io, come tutti i simboli del nostro cervello, parte piuttosto semplice e scarno, ma poi cresce e cresce e cresce, fino a diventare la struttura astratta più importante fra tutte quelle che risiedono nei nostri cervelli. Ma dove esattamente? Non è localizzato in un piccolo punto: è sparso ovunque, perché deve contenere così tante cose su così tante cose.