Trapianto di pattern

 

Anche qualora la maggior parte dei lettori fosse d’accordo con molto di quello che sto dicendo, forse la cosa più difficile da capire per parecchi di loro è come io possa credere che l’attivazione di un simbolo nella mia testa, per quanto complicato possa essere, sia in grado di catturare una qualsiasi esperienza del mondo fatta in prima persona da qualcun altro, di catturare la coscienza di qualcun altro. Quale follia potrebbe mai avermi spinto a supporre che il sé di qualcun altro - quello di mio padre, quello di mia moglie - potesse provare sensazioni, visto che tutto stava avendo luogo per gentile concessione dell’hardware neurologico dentro la mia testa, e visto che ogni singola cellula del cervello dell’altro era scomparsa da tempo?

La domanda cruciale è perciò molto semplice e molto essenziale: ha importanza l’hardware materiale, fisico? Dobbiamo pensare che soltanto le cellule di Carol, ormai tutte completamente riciclate nel vasto e impersonale ecosistema del nostro pianeta, avevano la potenzialità di supportare ciò che potrei chiamare le «Carol-sensazioni» (come se le sensazioni avessero un marchio che le identifica in maniera univoca), oppure non potrebbero altre cellule, anche dentro di me, fare lo stesso lavoro?

Per come la vedo io, c’è una risposta inequivocabile a questa domanda. Le cellule di un cervello non sono i portatori della sua coscienza: i portatori della coscienza sono pattern. Ciò che conta è il pattern di organizzazione, non la sostanza. Non è la materia, è il movimento! Altrimenti, dovremmo attribuire alle molecole dentro i nostri cervelli proprietà speciali di cui sono prive fuori dai nostri cervelli. Per esempio, se vedo un’ultima patatina in un cestino che sta per essere buttato via, potrei pensare: «Oh, patatina fortunata! Se ti mangio, le tue molecole prive di vita, se sono tanto fortunate da essere portate dal mio flusso sanguigno su fino al mio cervello e stabilirsi lì, potranno assaporare l’esperienza di essere me! E quindi devo divorarti, per non privare le tue inerti molecole della possibilità di assaporare l’esperienza di essere umane!». Mi auguro che una simile idea appaia assurda a quasi tutti i miei lettori. Ma se le molecole che vi costituiscono non sono gli «assaporatori» delle vostre sensazioni, allora cosa lo è? Rimangono solo i pattern. E i pattern possono essere copiati da un medium all’altro, anche tra medium radicalmente differenti. Un’operazione simile è chiamata «trapianto», o anche «trasporto», cioè «traduzione».

Un romanzo può reggere il trapianto anche se i lettori nella «lingua ospite» non hanno vissuto sul suolo dove si parla la lingua originale; ciò che conta è che abbiano vissuto più o meno le stesse cose sul loro proprio suolo. In effetti, tutti i romanzi, tradotti o meno, dipendono da questo genere di trapiantabilità, perché non si dà mai che due esseri umani, anche se parlano la stessa lingua, siano cresciuti esattamente sullo stesso suolo. Come potrebbero altrimenti gli americani contemporanei rapportarsi a un romanzo di Jane Austen?

L’anima di Carol può reggere il trapianto nel suolo del mio cervello perché, pur non essendo cresciuto nella sua famiglia e nelle loro diverse case, conosco, fino a un certo punto, tutti gli elementi principali dei suoi primi anni. In me vivono e sopravvivono saldamente le sue prime radici interiori, a partire dalle quali la sua anima è cresciuta. Il fertile humus del mio cervello è un «humus per animus» non identico, ma molto simile, al suo. E così io posso «essere» Carol, anche se con un leggero accento alla Doug, proprio come il magistrale, melodioso e musicale trapianto inglese, compiuto da James Falen, del romanzo in versi Eugenio Onegìn di Puskin, è certamente e innegabilmente proprio quel romanzo, anche se ha un po’ di accento americano.

La triste verità è, naturalmente, che nessuna copia è perfetta, e che le mie copie dei ricordi di Carol sono estremamente imperfette e incomplete, e non si avvicinano neppure lontanamente al livello di dettaglio degli originali. La triste verità è, naturalmente, che Carol si è ridotta, dimorando nel mio cranio, a una sola minuscola parte di ciò che era. La triste verità è che il mosaico dell’essenza di Carol nel mio cervello è a grana molto più grossa di quanto non fosse il mosaico privilegiato che risiedeva nel suo cervello. Questa è la triste verità. Il dolore acuto della morte non può essere negato. Eppure il dolore acuto della morte non è proprio così assoluto o così totale come potrebbe sembrare.

Quando il sole viene eclissato, rimane una corona intorno a esso, un bagliore circolare. Quando una persona muore, lascia dietro di sé una corona risplendente, un bagliore residuo nelle anime delle persone che le erano vicine. Inevitabilmente, col passare del tempo, il bagliore residuo si affievolisce e alla fine si spegne, ma ci vogliono molti anni perché ciò accada. Quando, alla fine, anche tutte le persone che le erano vicine saranno morte, allora tutte le braci si saranno raffreddate, e a quel punto, sì, sarà «cenere alla cenere e polvere alla polvere».

Diversi anni fa, il mio amico via e-mail James Plath, sapendo delle mie intense meditazioni su questi argomenti, mi inviò un capoverso del romanzo II cuore è un cacciatore solitario di Carson McCullers, con cui concludo questo capitolo.

La mattina seguente si mise a cucire in camera sua. Perché? Perché quando uno ama realmente e perde la persona cara, non commette suicidio per seguirla? Soltanto perché chi è rimasto in vita deve seppellire chi è morto? O perché bisogna adempiere ad antichi e immutabili riti? Perché colui che rimane si trovi esposto per un certo tempo come su un palcoscenico agli occhi di tutti e i secondi trascorrano lenti come secoli? Perché ha una funzione da compiere? O forse è perché, se due esseri si amano, chi è rimasto vedovo deve restare per la resurrezione dell’amato, così che chi se n’è andato non muoia veramente, ma cresca e sia ricreato per una seconda volta nell’anima di chi è rimasto in vita? 

Anelli nell'io
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