Secondo ingrediente chiave della stranezza
Ma c’è un’altra faccia di questa medaglia, un secondo ingrediente chiave, che consente al loop in un cervello umano di poter essere qualificato come «strano», e che sembra far sbucare un io dal nulla. Questa è, ironicamente, un’incapacità - nella fattispecie la nostra incapacità kludgerotica di scrutare al di sotto del livello dei nostri simboli. È la nostra incapacità di vedere, sentire o intuire in qualunque modo il costante e frenetico dibattersi e agitarsi della «micro-roba», tutto il non percepito gorgogliare e ribollire che sta alla base del nostro pensare. Questo, la nostra innata cecità nei confronti del mondo del minuscolo, ci spinge ad allucinare una profonda scissione tra il mondo materiale privo di intenti fatto di sfere e bastoncini e suoni e luci da una parte, e un mondo astratto pervaso di intenti fatto di speranze e convinzioni e gioie e paure dall’altra, nel quale sembrano regnare tipi di causalità radicalmente diversi.
Quando noi esseri umani, che possediamo simboli, guardiamo un sistema a feedback video, siamo naturalmente attratti dalle figure piacevoli che compaiono sullo schermo e siamo condotti ad assegnare loro etichette fantasiose come «corridoio elicoidale» o «galassia», ma sappiamo pure che, alla fin fine, esse non sono costituite altro che da pixel, e che qualunque pattern appaia davanti ai nostri occhi lo fa soltanto in virtù della logica locale dei pixel. Questa chiara e semplice consapevolezza priva quelle fantasiose forme gestaltiche frattali di qualsiasi apparenza di vita o autonomia proprie. Non siamo tentati di attribuire desideri o speranze, né tantomeno coscienza, alle forme spiraleggianti sullo schermo - non più di quanto siamo tentati di vedere dei vaporosi batuffoli di cotone in cielo come la rappresentazione del profilo di un artista o della lapidazione di un martire.
Eppure, quando si tratta di percepire noi stessi, raccontiamo tutta un’altra storia. Quando parliamo di noi stessi, tutto diventa molto più nebuloso di quando parliamo di feedback video, perché all’interno dei nostri cervelli non abbiamo un accesso diretto ad alcun elemento analogo ai pixel e alla loro logica locale. Sapere a livello razionale che i nostri cervelli sono fitte reti di neuroni non ci rende familiari con i nostri cervelli a quel livello, non più di quanto sapere che le poesie francesi sono fatte di lettere dell’alfabeto latino ci renda esperti di poesia francese. Siamo creature congenitamente incapaci di mettere a fuoco il micromacchinario che fa ticchettare le nostre menti - e purtroppo non possiamo fare semplicemente un salto al negozio all’angolo a prendere un paio di occhiali a buon mercato per rimediare al difetto.
Si potrebbe credere che i neuroscienziati, rispetto ai profani, abbiano acquisito una tale familiarità con l’hardware del livello base del cervello da aver imparato il modo giusto di pensare a misteri come la coscienza e il libero arbitrio. Eppure, spesso è vero proprio il contrario: la grande familiarità di molti neuroscienziati con gli aspetti di basso livello del cervello li rende scettici sulla possibilità di giungere mai a spiegare la coscienza e il libero arbitrio in termini fisici. Sono così sconcertati da quello che ai loro occhi appare come un abisso incolmabile tra mente e materia che abbandonano ogni tentativo di scoprire come coscienza e sé possano emergere da processi fisici, e anzi gettano la spugna e diventano dualisti. È un peccato vedere degli scienziati arrendersi così, ma accade fin troppo spesso. La morale della storia è che essere un neuroscienziato di professione non è per nulla sinonimo di profonda comprensione del cervello - non più di quanto essere un fisico di professione sia sinonimo di profonda comprensione degli uragani. In realtà, a volte essere immersi in una grande quantità di conoscenza dettagliata è proprio ciò che può ostacolare una comprensione profonda.
La nostra innata incapacità umana di scrutare, all’interno del nostro cranio, al di sotto di un determinato livello fa sì che il nostro corrispettivo interno, analogo alla volteggiante galassia a spirale di uno schermo televisivo - la grande e volteggiante galassia a spirale della «io-ità» - ci sembri un incontestabile locus di causalità, piuttosto che un mero epifenomeno passivo che risulta dai livelli più bassi (come una galassia in un feedback video). Siamo a tal punto ingannati dalla percezione della dura sfericità di quella «biglia» nelle nostre menti che le attribuiamo un elevatissimo grado di realtà, pari a quello di tutte le altre cose che conosciamo. E a causa del processo di autostabilizzazione, o locking-in, del simbolo dell’io nell’anello a feedback dell’autopercezione umana, che inevitabilmente si verifica nel corso degli anni, la causalità viene ribaltata ed è l’io che sembra essere al posto di guida.
In sintesi, la combinazione di questi due ingredienti - una capacità e un’incapacità - dà origine allo strano anello del sé, una trappola in cui tutti noi umani cadiamo, dal primo all’ultimo, volenti o nolenti. Benché tutto inizi in modo innocente, come un umile meccanismo a galleggiante in uno sciacquone o un loop a feedback audio o video, per i quali nulla porta ad assumere l’esistenza di una qualsiasi causalità di tipo controintuitivo, l’autopercezione umana finisce giocoforza per assumere l’esistenza di un’entità emergente che esercita sul mondo una causalità sottosopra, portando così al rafforzamento e al definitivo, invincibile, immutabile locking-in di questa convinzione. Il risultato finale è spesso la negazione categorica della possibilità di qualsiasi punto di vista alternativo.