Porcellino d’India
All’età di quindici anni avevo un lavoro estivo in cui spingevo pulsanti su un calcolatore meccanico Friden in un laboratorio di fisiologia dell’Università di Stanford. (A quel tempo, nell’intero campus di Stanford c’era un solo computer e la maggior parte dei ricercatori nemmeno sapeva della sua esistenza, né tantomeno pensava di usarlo per i propri calcoli.) «Pigiare numeri» per ore di fila era un lavoro piuttosto snervante, e un giorno Nancy, la studentessa di dottorato per il cui progetto di ricerca stavo facendo tutto questo, mi chiese se, per staccare un po’, volessi cimentarmi con altri tipi di mansioni. Dissi «Certo!», e così quel pomeriggio mi condusse al quarto piano e mi mostrò le gabbie dove tenevano gli animali - per la precisione, porcellini d’India - che usavano come cavie nei loro esperimenti. Ricordo ancora l’odore pungente e lo zampettare frenetico di tutti quei piccoli roditori dal pelo arancione.
Il pomeriggio seguente, Nancy mi chiese se potevo salire al quarto piano a prendere due animali per la sua prossima serie di esperimenti. Non ebbi neppure il tempo di replicare perché, non appena iniziai a immaginarmi nell’atto di infilare la mano in una di quelle gabbie e scegliere due soffici essermi pelosi da uccidere, cominciò a girarmi la testa e in un attimo svenni, sbattendo il capo sul duro pavimento. Il ricordo successivo è di me sdraiato che guardo il viso del direttore del laboratorio, George Feigen, un vecchio amico di famiglia, molto preoccupato che mi fossi fatto male nella caduta. Per fortuna stavo bene, e lentamente mi rialzai, per poi tornare a casa in bici e rimanerci per il resto della giornata. Nessuno mi chiese più di andare a prendere animali da sacrificare per il bene della scienza.