Capitolo 42
Il corpo di Mercer gli crollò addosso come una marionetta coi fili recisi. Il coltello cadde di lato e gli graffiò la pelle, vicino alla gola. Arthur provò a sollevarla, ma lei era troppo pesante. Allora Arthur cercò di farla rotolare di lato. Le orecchie gli fischiavano ancora, e tutto il dolore era tornato con intensità rinnovata. Qualcuno gridò.
Arthur chiamò a raccolta le energie che ancora gli rimanevano, e con un grosso sforzo si tolse da sotto il corpo di Mercer. La pistola giaceva a terra, e Arthur la raccolse mentre si guardava attorno.
Paolo lo stava già prendendo di mira.
Gli spari suonarono come piccoli scoppiettii attutiti. Nello stesso istante attorno a lui si accesero scintille bluastre, e i proiettili ricaddero a terra davanti ai suoi occhi. Lo scudo avvolgeva sia lui che Mercer nei decimi di secondo in cui fu visibile.
Paolo sembrò sorpreso al pari di lui.
Arthur prese la mira e sparò un colpo.
Paolo urlò di dolore nell’attimo in cui il proiettile gli colpì la mano, e la pistola venne sbalzata via. Paolo cominciò a correre verso le macchine. Arthur sparò ancora. Il proiettile stavolta lo colpì al ginocchio, e lui crollò a terra.
Emma corse verso di loro. Nathaniel giaceva immobile, ma c’era qualcosa di strano in lui. Una sostanza grigia ribolliva dalle sue ferite, e si era già estesa a ricoprire tutta la metà inferiore del corpo e parte di quella superiore. Arthur cercò con gli occhi la tavoletta, e la localizzò nel luogo esatto in cui era atterrata dopo che Nathaniel l’aveva gettata a terra.
Paolo arrancò bocconi verso la sua pistola.
Arthur lo prese di mira e stava per premere il grilletto quando gli venne in mente che Paolo gli serviva più da vivo che da morto, o per meglio dire in un corpo che rendeva possibile la comunicazione. Si rialzò, raggiunse il più in fretta possibile la pistola e riuscì a calciarla lontano prima che Paolo potesse impossessarsene.
«Sei arrivato troppo tardi» commentò Paolo con voce tranquilla. Ricordava un bambino che aveva sonno e voleva dormire. Poi si voltò sulla schiena e guardò in aria.
«Stai mentendo» disse Arthur.
«Ho delle ragioni per mentire? Cosa hai fatto a Mercer?»
«Vallo a sapere. Non credo che tornerà».
Paolo non sembrò credergli.
Emma passò accanto a loro correndo.
«Quella ragazza è un tipo fuori del comune» disse Paolo.
Arthur afferrò la pistola dell’altro, svuotò il caricatore e scagliò lontano le due parti.
«Aiutatelo! È vivo! Aiutatelo!» La voce di Emma era lacerante.
Non poteva essere vero. Nessuno era in grado di sopravvivere a una simile esplosione. Ma la materia grigia poteva provenire soltanto dalla tavoletta, e Arthur si fece di colpo insicuro. Non poteva abbandonare Paolo senza controllare se questi aveva addosso altre armi. Lo sguardo di Paolo gli disse che aveva capito a cosa stava pensando.
Arthur estrasse delle fascette da elettricista da una tasca dei pantaloni e infilò la pistola nella fondina sotto l’ascella. Paolo gli porse le mani prima che Arthur facesse in tempo a chiederglielo. Non ebbe la forza di domandare perché. Non ancora. Esaminò la ferita sotto al ginocchio di Paolo. Non era una forte emorragia. Poteva aspettare.
«Per piacere, aiutatelo!» gridò Emma.
Arthur recuperò la tavoletta e si sedette accanto a Nathaniel. Emma era vicina alla sua testa, le mani rosse di sangue, ma stranamente composta.
Nathaniel non era soltanto vivo, era anche cosciente. I suoi occhi li cercarono entrambi, le sue labbra si mossero appena. Arthur guardò il corpo del compagno. L’intera gamba sinistra era scomparsa, solo un moncone grigio rimaneva all’altezza del fianco. La destra era ridotta a brandelli dal ginocchio in su, e sotto non c’era rimasto più niente. Quella materia grigia era dappertutto, e l’emorragia si era arrestata.
Arthur si guardò il braccio, dove il coltello di Mercer aveva reciso i tendini. La stessa sostanza ricopriva anche quella ferita. Emma teneva la mano a Nathaniel. Arthur non sapeva cosa fare. Era solo la tavoletta a mantenere in vita l’amico, ma era evidente che faceva già il possibile. La sostanza grigia copriva tutto lo stomaco.
Arthur non capiva come Nathaniel ci fosse riuscito, ma doveva aver piazzato dell’esplosivo attorno alle gambe.
«Dobbiamo fare qualcosa!» gridò Emma. «Cos’è questa roba? Via! Toglila!»
Arthur appoggiò la tavoletta sullo stomaco di Nathaniel. Questa si illuminò al tatto, e si incollò saldamente al corpo del compagno.
«Ma cosa fai?!»
«L’unica cosa che può salvarlo» rispose Arthur, il più calmo possibile.
Appoggiò la propria mano sulla tavoletta e provò a compiere alcuni movimenti nel modo in cui aveva visto fare al Guardiano. L’oggetto reagì al suo tocco, ma era impossibile capire cosa stesse accadendo. Arthur chiuse gli occhi e si concentrò con tutte le sue forze per mandare un messaggio alla tavoletta. Per un attimo avvertì una specie di contatto, che però svanì rapido com’era sorto.
La tavoletta si fece sempre più calda. La mano gli scottava, ma Arthur non osò lasciare la presa. Nathaniel ebbe qualche colpo di tosse, le sue pupille si contrassero e per un attimo sorrise attraverso i dolori.
«Mi dispiace». La sua voce era roca e a malapena un sussurro.
Emma dapprima si spaventò, poi le lacrime cominciarono a colarle lungo le guance. «Perché...? No, tu non morirai. Non puoi. Ospedale, dobbiamo portarti in un ospedale».
Lo sguardo di Nathaniel era uno sguardo da fratello maggiore. «Emma, ascoltami. Qualunque cosa succeda, devi fidarti di Arthur. Me lo prometti? Capisci quello che ti dico?»
Emma li guardò entrambi confusa. «Ssh, non parlare». Si asciugò le lacrime e si rivolse ad Arthur. «Chiama il 911».
«Emma!»
Lei sussultò. La voce di Nathaniel non era più alta di una voce normale, ma suonò quasi come un grido. «Emma, ascoltami. Non posso spiegare, ma tu devi fidarti di me».
«Dobbiamo aiutarti, possiamo...»
«Emma...» Nathaniel cominciò a tossire, ma sostenne lo sguardo della sorella.
«Sì, prometto, prometto» disse Emma, con le lacrime che continuavano a rigarle le guance.
Nathaniel guardò Arthur con occhi annebbiati. «Li abbiamo fermati?»
«Sì» rispose Arthur, e sperò che fosse vero.
Staccò la mano dalla tavoletta: la palma era coperta da piccole bolle. Temette che se il calore aumentava, avrebbe dato fuoco ai vestiti di Nathaniel.
Quest’ultimo guardò la tavoletta, e poi Arthur. «Non riuscirà a tenermi in vita ancora a lungo, ormai. Posso sentirlo, in un certo senso. Devi portarla con te».
Lentamente, le palpebre di Nathaniel si chiusero.
«No, no, no» gridò Emma. «Non puoi morire! Nathaniel, non puoi!»
Un piccolo sorriso apparve all’angolo della bocca del fratello, ma gli occhi rimasero chiusi. «Emma, avrei rifatto tutto di nuovo, solo per te. Ma molte più vite erano in pericolo, ed è andata bene. Vi voglio un bene immenso, Emma, ma tanto questo lo sai». Aprì gli occhi e guardò verso il cielo. «Strano. Non sono mai stato un sostenitore della vita dopo la morte, ma in questo momento non avrei niente in contrario. Grazie, Arthur. Abbi cura di loro per me».
La sua testa scivolò quasi impercettibilmente di lato, il sorriso ancora sulle labbra. Sembrava che la tavoletta avesse riportato indietro il vecchio Nathaniel per un breve momento.
Emma si gettò su di lui gridando più volte il suo nome.
Ad Arthur sembrò per un attimo di essersi staccato dal suolo, come se vedesse tutto da molto lontano. Da qualche parte dentro di lui c’era un buco che si espandeva pian piano. Si rialzò, e avrebbe voluto essere da tutt’altra parte. Ma non aveva ancora finito.
Paolo era calmo come prima, là dove stava disteso con le mani sullo stomaco e la gamba illesa tirata un po’ su.
«Dov’è la bomba?» chiese Arthur.
«Sottoterra, è ovvio».
«Come hai intenzione di farla esplodere?»
«Il meccanismo di conto alla rovescia è già stato attivato. Non resta che aspettare».
Arthur gli immobilizzò anche i piedi con le fascette da elettricista e andò alla tenda da cui aveva visto uscire Paolo e Mercer. L’interno assomigliava a un piccolo laboratorio, con diverse apparecchiature piazzate su tavoli lungo i lati. Un tavolo in particolare attrasse la sua attenzione: sopra c’era un computer portatile collegato a qualcosa che sembrava un trasmettitore, oltre a una vecchia scatola arrugginita su cui c’erano grossi pulsanti che potevano essere del secolo passato. Tutti gli apparecchi erano collegati fra loro con cavi dall’apparenza casalinga che sembravano essere stati collegati in gran fretta.
Arthur prese il cellulare e compose il numero di Raven, che però non rispose. Arthur cliccò su un tasto del computer, e gli fu richiesta una password. Provò le password che il Guardiano aveva trascritto per loro dai computer trovati nella fattoria, e al terzo tentativo ebbe l’accesso. Per un attimo fu certo che fosse una trappola, e che l’apparecchio gli sarebbe esploso in faccia, ma non accadde nulla. Provò ancora una volta a chiamare Raven.
Sullo schermo apparve una finestra di dialogo.
Arthur cominciò a passare in rassegna i comandi usati di recente. Uno si distingueva dagli altri: era la parola russa per ‘Controllo’. Arthur cliccò Invio e la finestra si riempì di testo. Tutto era in russo, e alla fine c’era una casella di testo con cursore lampeggiante in attesa di un nuovo comando. Arthur ci digitò la parola per ‘Stato’.
Innescata. 74.36.14.
Riprovò.
Innescata. 74.36.10.
Arthur esaminò con attenzione la riga di comando, prima una volta, poi un’altra. Solo uno di essi era esattamente ciò che cercava, ma volle assicurarsene una volta di più prima di inviare l’ordine di disattivazione della bomba.
L’urlo di Emma gli perforò ogni fibra del corpo.
Arthur si precipitò fuori. Controllò per prima cosa Paolo, il quale aveva sollevato la testa e guardava anche lui Emma. Lei era seduta, sola. Nathaniel era scomparso. Solo piccoli resti rimanevano al suolo.
«Che diavolo è successo?» domandò Paolo.
Arthur non disse niente, ma rientrò nella tenda. Sentì gli occhi di Paolo conficcarglisi nella schiena.
Si trovò davanti la riga di comando lampeggiante.
Dopo una breve esitazione, richiese un aggiornamento sullo stato.
Disattivata.
Arthur non sentì nulla. Né speranza, né sollievo. Rimase semplicemente a fissare lo schermo. Per l’ennesima volta prese il cellulare e compose il numero di Raven.
«Hai un minuto di tempo» fu il secco saluto di lei. In sottofondo si sentiva il ticchettio costante di una tastiera.
«La bomba è sottoterra, ma credo di averla disinnescata».
«Eh? Come credi?»
«Perlomeno è quel che c’è scritto sullo schermo».
«Sarebbe una cosa buona che tu ne fossi sicuro, per la miseria».
«Tu come sei messa?»
«Sono più bravi di quel che credessi, ma ho la loro attenzione».
«Bene. Nathaniel è morto».
Al telefono si fece un breve silenzio. «E gli altri?»
«Emma è viva, Mercer è morta, in un certo senso. Paolo è vivo».
«In un certo senso? Come sarebbe a dire?»
«Non ci pensare, è morta. Hai suggerimenti per cosa devo fare adesso?»
«Elimina tutto ciò che può metterti in relazione al luogo. Magari puoi usare dell’esplosivo? Non so. Ma quando prima ti ho detto un minuto non era uno scherzo. Tu stai bene?»
Ad Arthur venne più che altro voglia di ridere di quella domanda. «Sopravviverò. Quanto tempo credi che abbia prima che arrivino le autorità?»
«Almeno una mezza giornata, ma forse non molto di più».
«Va bene, ti richiamo dopo. Non so ancora come farò ad andarmene da qui».
«Ok, in bocca al lupo».
Emma guardava fisso davanti a sé. Teneva fra le mani la tavoletta, che ripuliva minuziosamente da terriccio e polvere. Arthur andò da lei e le si accoccolò di fronte.
Lei gli porse la tavoletta come in trance. «Sono pazza? C’è qualcosa che non va in me?»
Arthur prese la tavoletta, ma non le lasciò la mano. «Ascoltami. Quello che ha tenuto Nathaniel in vita così a lungo è anche quello che ha causato la sua scomparsa. So che lui ha fatto tutto questo per te, ma non so per quale motivo. Dobbiamo andarcene da qui. Tra poco arriverà gente. Pensi di farcela?»
Gli occhi di Emma guizzarono incontrollati attorno. Era come se non volesse fissare lo sguardo su nulla di ciò che la circondava, e chiudendoli si risvegliavano immagini ancora peggiori.
Arthur le strinse forte la mano. «Emma! Nathaniel voleva che ce ne andassimo da qui. Capisci?»
Lei annuì.
«Ok, sali su una delle macchine. Sai guidare?»
Lei annuì di nuovo.
Arthur si alzò e quasi la tirò su di peso. Emma cominciò a camminare. Arthur la seguì passando oltre Paolo, che sembrò non esistere per lei.
«Aspettami in una delle macchine, vedi se riesci ad accendere il motore, e tieniti pronta a partire».
Arthur attese che Emma fosse arrivata a metà strada verso le auto, poi si voltò e tornò da Paolo.
«Cosa hai intenzione di fare di lei?» domandò quest’ultimo.
Arthur sentì crescere in sé il disgusto, ma non sapeva se era a causa dei risvolti impliciti della domanda, o perché ci aveva già pensato anche troppo. «Portarla via di qui. Lei non sa nulla».
«Ne sa abbastanza. Dopotutto ho risposto di buon grado alle sue domande. Non che mi abbia creduto».
Neppure Arthur gli credette, neanche per un secondo. «Sai chi era veramente Mercer? Sai perché qualcuno vuole ucciderci? O sei semplicemente così debole che ti lasci volentieri usare da loro?»
«Ha qualche importanza? Non so cosa siano, ma sono sempre esistiti. È stata una scelta mia, non loro. Avrei potuto fermare tutto in qualunque momento, posso farlo adesso, se voglio»
«Ma non vuoi».
«Non mi dire che non mi capisci, te lo leggo in faccia. Una parte di te sa benissimo di cosa sto parlando».
«Forse lo capisco meglio di te. Non per questo diventa giusto».
Paolo si tirò su a sedere. «Giusto, sbagliato, qui non c’è una soluzione. Se tutti muoiono perché io premo un pulsante, perché non farlo? Tanto tutti muoiono, prima o poi».
«Lo sai che è impossibile uccidere tutti, qualunque cosa tu faccia. Qualcuno sopravviverebbe. Tutto ciò che otterresti è di riportare indietro il tempo. Lei ti ha usato, ti ha manipolato fin dall’inizio, e tutto per uno scopo di cui tu evidentemente non sai nulla».
«Vedremo. In ogni caso adesso è troppo tardi per tornare indietro. Tra qualche anno questo posto esploderà, e il mondo con lui».
«3Fg0j7».
Paolo sembrò aver ricevuto una scossa elettrica.
«Vuoi che continui? Za84jkL, giusto?»
Paolo si irrigidì per un attimo, prima di sferrare un calcio con le gambe legate. Evitarlo fu facile. Il suo volto era contorto dalla rabbia. «Bastardo! Ti ucciderò!»
Arthur non sentì nulla.
Sollevò la pistola. «Lo so che non vuoi dirmi niente adesso, ma avrai abbastanza tempo per ripensarci. Ci vediamo tra qualche mese, io e te. Goditi la tua vita da neonato. Non piangere troppo».
Lo sguardo di Paolo non vacillò.
Arthur premette il grilletto, una volta sola.
Dapprima perquisì le tasche di Paolo, poi andò dove era caduto Nathaniel e raccolse la tavoletta. Era ancora calda al tatto. Svuotò anche le tasche di Mercer, e prese quello che trovò. Non sapeva che genere di corpo Mercer si fosse fabbricata, ma c’era il rischio che contenesse segreti che era meglio non cadessero in mani altrui.
Ricordò le parole del Guardiano a proposito della tavoletta. Sollevò il braccio di Mercer e ci infilò sotto l’apparecchio. Subito dal nulla scaturirono dei lunghi fili grigi che in men che non si dica avvilupparono tutto il corpo. Arthur riprese la tavoletta e indietreggiò. Il corpo emise un bagliore rosso e si disintegrò con un piccolo sbuffo d’aria. Perlomeno su quello il Guardiano non aveva mentito.
Per un attimo Arthur valutò la possibilità di rovistare in tutte le tende, ma era sicuro che non avrebbe trovato nulla di più. Tutto ciò che voleva era allontanarsi da quel luogo il più in fretta possibile. L’accampamento sarebbe stato perquisito da innumerevoli persone.
L’ultima cosa che fece fu versare una tanica di benzina sui corpi. Ci gettò sopra un fiammifero e se ne andò. Ma l’odore di carne bruciata lo raggiunse lo stesso.
Emma partì nell’attimo in cui Arthur si sedette in macchina.
Le ruote slittarono sulla ghiaia, sparando sassolini contro l’auto parcheggiata dietro. La velocità era esagerata, e Arthur pregò Emma di rallentare. Non avevano fretta. Nessuno sapeva cos’era successo in quel luogo, non ancora. Arthur estrasse il cellulare e mandò un sms a Raven pregandola di annullare l’aereo il prima possibile.
Cosa doveva fare adesso? E come doveva regolarsi con Emma? Credeva tuttora che Nathaniel non le avesse raccontato ogni cosa, ma non ne era più del tutto sicuro.
Lei teneva entrambe le mani strette attorno al volante, i tendini visibili sotto la pelle bianca. Sedeva protesa leggermente in avanti, e sembrava così concentrata che Arthur si chiese se avesse sentito che le aveva detto di diminuire la velocità.
«Emma, rallenta ancora. Devo chiederti una cosa».
Lei non rallentò, ma fece un cenno di assenso col capo.
«Ti hanno detto che cosa stava succedendo? Cosa volevano fare?»
«Hanno detto che avevano una bomba atomica. Che volevano far saltare in aria l’intero parco».
Arthur sentì un nodo alla bocca dello stomaco. «Hanno detto chi erano e perché ti avevano rapito?»
«No. Il ragazzino ha detto che Nathaniel aveva qualcosa che a loro serviva. Un’arma. Io non gli ho creduto. Nathaniel non avrebbe mai tenuto con sé un’arma. Giusto?»
«Giusto. Ti ha raccontato qualcosa su di me, o su se stesso?»
«Cosa sta succedendo? Perché vogliono far saltare in aria il parco? Non ha alcun senso! Voi chi siete?»
«Non posso spiegartelo. Nathaniel non voleva che tu venissi coinvolta in tutto questo».
«Ma lo sono già! Nathaniel è morto! Cosa devo raccontare a Martha?»
Era così semplice. Troppo semplice. Niente più domande.
«Non devi dire nulla. Non devi parlare con nessuno di ciò che è accaduto qui, mai, con nessuno. Se lo fai, ti garantisco che qualcuno rovinerà le vostre vite. Quello di cui tua sorella verrà informata è che Nathaniel è morto in un incidente da qualche parte nel mondo. Non ha bisogno di sapere il resto, è la cosa migliore e più sicura per entrambe». Sentì lui stesso quanto duro suonasse quel messaggio. «Non intendevo spaventarti. Le persone che ti hanno rapito non ci sono più, e non torneranno. Le autorità ben presto verranno informate, e faranno tutto il possibile per scoprire cos’è successo. Ma non ci riusciranno. Non devi dire niente a nessuno. Nathaniel e io siamo gli unici a sapere, e ho promesso a Nathaniel di tenerti al di fuori».
«Nathaniel ha detto che dovevo fidarmi di te. Nathaniel non si fidava mai di nessuno. E tu hai sparato a quel ragazzino».
Arthur cercò di immaginare il turbine di pensieri che doveva agitarsi nella mente di Emma. Aspettò che lei dicesse qualcosa. Il silenzio era soffocante. La pistola gli premeva nel fianco. La tirò fuori, l’asciugò e la lanciò fuori dal finestrino. Cosa doveva fare adesso? Tutto era finito, ma la sensazione di vuoto interiore non era diminuita. Si pentì di aver sparato a Paolo. Perché non aveva pensato a portarlo via con sé in macchina?
Pensieri idioti, non erano altro che pensieri idioti.
La strada sterrata finì. Per un attimo Arthur quasi rimpianse gli scossoni e i sobbalzi. Emma guidava come se sapesse dove andare.
«Dove stai andando?» chiese Arthur.
«A casa».
«Allora dobbiamo prendere un pullman, un treno o un aereo. Non possiamo usare questa macchina a lungo».
Emma sembrò riflettere, poi annuì. Accostò al ciglio e si fermò di colpo. «Abbiamo una carta stradale?»
Arthur cercò di richiamare alla memoria la mappa che aveva studiato prima. Conosceva le strade, ma sapeva ben poco su quali possibilità di trasporto pubblico si trovassero nelle vicinanze.
«Continua pure su questa via. Dopo un po’ arriveranno dei cartelli. Dirigiamoci a sud-ovest. Andiamo a Salt Lake City».
Emma ripartì, all’apparenza soddisfatta della risposta.
Arthur non sapeva per quanto tempo lei avrebbe resistito. Probabilmente avrebbe continuato a guidare fino a crollare. Doveva lasciarla subito dopo averla messa sulla via di casa? I pensieri gli si agitavano nella mente, senza trovare alcuna risposta.
Il rumore lo svegliò.
Un basso profondo, come se qualcosa stesse rotolando dentro le ruote della macchina. Proveniva da ogni dove e da nessun luogo preciso. Dapprima Arthur pensò che ci fosse qualche guaio al motore, ma non sembrava che Emma avesse notato nulla.
«Cos’è questo rumore?» chiese Arthur.
«Quale rumore?»
«Quel rumore basso, come una specie di brontolio».
Emma diminuì la velocità e si protese in avanti, come se questo potesse servire. «Ma io non sento niente!»
«Ferma la macchina, per piacere».
Arthur uscì.
Il rumore si fece ancora più forte. Non veniva dalla macchina, era ovunque.
«Che diavolo è?»
Come se qualcuno avesse sentito la sua domanda, la terra cominciò a tremare debolmente. Arthur spalancò le braccia per mantenere l’equilibrio. Si voltò verso la zona che avevano abbandonato. Gli alberi cadevano al suolo come in una coreografia di danza, spaventosa e bellissima allo stesso tempo. In lontananza franavano fianchi di montagne. Il rumore era assordante. Emma rimase seduta immobile, con le mani sul volante, come se niente fosse.
Il suolo sotto i suoi piedi si innalzò spaccandosi, mandandolo a finire a terra a gambe levate. Arthur chiuse gli occhi e si aggrappò al terreno. Non credeva alle casualità, e c’era solo una cosa che poteva aver provocato il terremoto in quel momento. Una strana sensazione gli dilagò per il corpo. Dapprima non la riconobbe. Poi ci lottò contro. Quello che provava era sollievo. Il panico lo afferrò con la stessa facilità con cui il terremoto falciava gli alberi.
Tutti i bastioni di difesa crollarono, e di colpo Arthur si ritrovò di nuovo nella savana.
Le fiamme erano alte metri, su tutti i fronti. Gli ruggivano intorno, assieme alle urla degli animali, che in preda al panico e alla pazzia si attaccavano l’un l’altro. Non c’era alcun luogo in cui rifugiarsi. Il calore lo colpì in raffiche che gli bruciarono la peluria sulla pelle. Il cielo era un buco nero.
Arthur cadde in ginocchio e cercò di ritrovare la propria voce, ma respirare era doloroso. Qualcosa dentro di lui urlava, ma c’era anche una voce quieta, un debole sussurro che lo calmò. Non era forse questo ciò che lui voleva, ciò che attendeva da così tanto tempo? Arthur si costrinse a rialzarsi. Guardò le fiamme e desiderò che sparissero.
Tutto ciò che provava era un senso di vuoto. Un vuoto infinito, che risucchiava tutti i sentimenti e gli suscitava un intenso desiderio di addormentarsi.
Le fiamme si allargarono e giocarono con lui, costringendolo a spostarsi. Gli animali urlavano come ossessi intorno alla pozza d’acqua. Il fuoco stringeva il cerchio attorno a loro, e qualcuno saltò nelle fiamme per pura disperazione. Il mondo veniva divorato sotto i suoi occhi.
Si accorse a malapena di un movimento ai margini del suo campo visivo.
Il leone avanzò su di lui, del tutto incurante del caos che infuriava attorno a loro. C’era qualcosa di regale nel corpo muscoloso che si avvicinava. Gli occhi che lo fissavano erano lo specchio di un’anima perduta. Spalancando le fauci, il leone ruggì verso di lui.
Ogni cosa si placò.
Le fiamme cessarono e lasciarono il posto a un freddo buio che gli penetrò fin dentro il corpo facendo irrigidire i muscoli. Si sentì immensamente stanco. Non ce la faceva più. Non era questo che voleva, ma non ce la faceva più a lottare. Tutto doveva aver fine.
Il leone venne verso di lui senza esitare. Con un enorme balzo gli si lanciò contro in silenzio. Arthur poté vedere ogni dettaglio della bestia con una chiarezza innaturale: i denti, gli artigli, i baffi, la criniera, tutto era come sotto una lente di ingrandimento. Chiuse gli occhi e abbassò le spalle.
Sembrò trascorrere un’eternità.
Non c’era alcun pensiero nella sua mente. Una volta tanto, ogni cosa era ferma e silenziosa.
Era un’eternità.
Perché mai voleva togliersi la vita?
Non osò aprire gli occhi. Un vento fresco lo accarezzò sulle spalle, portando con sé il familiare profumo della savana. Caldo e sole gli fecero ardere il corpo. Gli occhi gli bruciarono, quando li socchiuse per scrutare l’orizzonte.
«Non è ancora finita. Non ancora».
La voce era lì, proprio davanti a lui, ma non lo spaventò. Il leone era sparito. Qualcosa cominciò a prendere forma. Migliaia di piccole gocce di pioggia danzavano nell’aria, si fusero l’una con l’altra e formarono una figura. Arthur riuscì a discernere braccia, gambe, un tronco e una testa, ma la figura si disfaceva in continuazione e si dissolveva in qualcos’altro. Non faceva mai in tempo a pensare a ciò che vedeva prima che fosse scomparso.
Arthur chiuse gli occhi per cercare di concentrarsi abbastanza da parlare. «Sei il Guardiano?»
I sentimenti della creatura traboccarono su di lui. Lo avvolsero di gioia, orgoglio, tristezza, scetticismo, incertezza e curiosità. Laddove il Guardiano era stato un rubinetto da cui sgocciolavano sensazioni, questo era un fiume in piena.
«Non esiste nessun Guardiano. Hanno frainteso la funzione in cui sono incappati».
La voce era esattamente come la forma: danzava tra un tono e l’altro. Arthur udì in contemporanea molte voci conosciute. Il padre e la madre, Nathaniel, Paolo, il Guardiano. Non era una sola lingua. Erano tutte, ma insieme divennero qualcosa di più che una somma delle parti. Ogni parola era perfetta. Non c’era spazio per malintesi, e allo stesso tempo erano presenti tutte le sfumature.
«Sei uno di coloro che ci hanno creato?» Arthur riaprì gli occhi. Non poté vedere alcun volto, ma ciascun sentimento si poteva leggere come una parola. Non c’era nulla di ostile. La creatura nutriva un profondo rispetto per lui, e al tempo stesso era insicura nei suoi confronti.
Cos’era accaduto?
«Tu non eri solo te stesso. Voi non siete stati creati per affrontare le memorie l’uno dell’altro. Dentro di te ormai c’era anche l’altro, e questo stava per distruggerti».
Arthur non avvertiva alcuna differenza rispetto a un attimo prima. Si ricordava ancora quello che aveva vissuto Paolo.
«Non è possibile per te avvertire la differenza, perché ho eliminato ciò che era fuori posto».
Arthur indietreggiò. «Tu sai quello che penso».
Un sentimento si fece più forte degli altri: umiltà.
«In questo momento sì. Ma ora ti lascio».
«Non capisco. Perché sei qui? Perché proprio ora?»
Vergogna.
«Ho scelto di mostrarmi ora».
Perché la creatura si vergognava?
«Chi siete? Perché ci fate questo? È stata la bomba a causare il terremoto, vero?»
«Noi siamo ciò che siamo, ma non abbiamo nulla a che fare con questo. Il terremoto è venuto dalla bomba».
«Quindi non l’ho fermata?» Arthur avvertì l’amarezza dentro di sé.
Tristezza.
«Io l’ho riattivata».
«Cosa?!»
«È l’alternativa migliore».
Le parole erano appesantite da una tale pregnanza di significato che ascoltarle faceva male.
Arthur sapeva di non desiderare la risposta, ma doveva chiedere. «Perché? Come può essere questo il meglio per l’umanità?»
Speranza.
«Vi dà tempo».
«Tempo per cosa? Non possiamo arrestare il terremoto adesso».
«Avete tempo per pianificare, perché sarebbe successo comunque».
Immagini gli vorticarono nella mente. Il vulcano che stava per risvegliarsi alla vita da solo, dopo centinaia di migliaia di anni di sonno. La bomba che avrebbe reso l’esplosione meno intensa.
Quell’improvvisa consapevolezza gli fece dimenticare di respirare. Non voleva che fosse vero. Non poteva essere vero. Tutto, ma non questo. Non era giusto. Era assurdo.
«P-perché?» balbettò. «Perché tutto questo, se non serve a nulla?»
«Non posso darti spiegazioni. Noi non abbiamo il permesso».
«Noi. Noi chi? Chi è Mercer, chi è il Guardiano? Cosa volete da noi?»
Aspettativa.
«Voi non siete pronti per la risposta. Non ancora».
«Pronti?! Qualcuno ci vuole sterminare, ucciderci tutti!»
Dolore.
«Ci sono destini peggiori della morte».
«Allora perché mi avete fermato? Perché non mi avete lasciato morire?» Arthur avvertì una sottile sensazione di disagio dopo aver formulato la domanda. Non aveva inteso parlare così.
Vergogna. Orgoglio. Curiosità.
«Equilibrio».
«Equilibrio?»
Curioso.
Non arrivò alcuna risposta.
«Quello di Paolo? Equilibrio tra cosa?»
«No, Paolo ha il suo proprio equilibrio».
Meraviglia.
«Vuoi dare a Paolo un nuovo inizio?»
«Un nuovo inizio? Cosa intendi dire? Ho bisogno di Paolo e della sua conoscenza. Devo sapere che cosa ha progettato».
«Non hai risposto alla domanda».
«Non capisco cosa mi stai chiedendo!»
«Lo capirai. Sarà una tua scelta».
Tutti i sentimenti scomparvero, e rimase soltanto uno strano buco nello spazio. Le gocce di pioggia si muovevano più lentamente e offrivano solo un lieve accenno di tutte le forme che avevano creato.
La creatura era sparita.
I sentimenti si agitavano selvaggiamente dentro di lui, ma Arthur non aveva più alcun bisogno di nasconderli. Era un bene che ci fossero. Sapeva cosa c’era alle sue spalle, aveva un’idea di cosa doveva fare. Il mondo era ancora un incubo a cui fare ritorno, ma lui non aveva paura. Non c’era più nessun vuoto. Esistevano davvero destini peggiori della morte.
Aprì gli occhi.
Il terremoto era finito, per quella volta.
Arthur sedette in macchina, tolse le mani di Emma dal volante e le tenne fra le sue.
Erano solo le sue lacrime a scorrere.