Capitolo 27
Di colpo, i giorni presero a passare veloci. Ogni mattina c’era un nuovo messaggio di Noorah ad attenderlo. Gli aveva già procurato parecchie delle cose che le aveva chiesto: indirizzi email sicuri, cellulari non rintracciabili, modulatori vocali e computer superportatili. Arthur aveva perfino fatto un disegno di Mercer nel caso dovessero ingaggiare aiuto per cercarla. Ma tutto ciò era qualcosa che accadeva sullo sfondo: l’attività a cui Arthur e Nathaniel dedicavano più tempo era un sano turismo vecchio stile.
Nathaniel aveva creduto che non si sarebbe sentito tranquillo a sprecare tempo a quel modo. Era come se una parte di lui sapesse che la normalità, se poteva chiamarla così, era scomparsa per sempre, e quei giorni bisognava tenerli da conto.
Nel corso della settimana dovevano aver visto tutte le attrazioni conosciute e sconosciute di cui era a conoscenza Arthur. A volte Nathaniel doveva corrergli dietro, quando guizzavano tra case, parchi, musei e caffè. Perfino un muro ridipinto di un orribile color giallo riportava alla vita storie che facevano arrossire Nathaniel suo malgrado. Era un’altra epoca, e per molti versi un altro luogo, ma tutti i racconti trattavano di persone con gioie e dolori che Nathaniel poteva capire e in cui poteva riconoscersi.
Scesero lungo gli Champs-Élysées e si fermarono a guardare la Senna presso l’obelisco di Place de la Concorde. Il loro aereo sarebbe partito l’indomani. Arthur aveva telefonato a casa per dire che sarebbe rientrato prima dalla conferenza. Nathaniel non aveva capito molto della conversazione, ma era stata una strana esperienza guardare qualcuno mentire in quel modo: labbra sorridenti, ma voce esitante. Corpo energico, ma vocali strascicate. Arthur era cambiato negli ultimi giorni: era più contento, ma il suo umore si alterava in fretta, e non sempre per una ragione apparente.
Nathaniel prese un sorso di coca-cola e fissò l’obelisco e i geroglifici che lo ricoprivano. Arthur gli aveva raccontato tutto quello che c’era da sapere sul suo conto, e gli aveva tradotto gran parte del testo. Gli ultimi giorni era stato come andare in giro assieme a un’enciclopedia. Aveva intuito cosa voleva dire essere una città ricca di storia, e il contrasto rispetto a qualunque altra città americana era quasi triste. E ora lui stava accanto a un monumento che puntava verso il cielo e poteva guardarli dall’alto in basso in una prospettiva temporale incomprensibile a chiunque.
O quasi a chiunque.
Si rivolse ad Arthur, con la mano davanti agli occhi per proteggerli dagli ultimi raggi di sole. «Siamo progrediti?»
Arthur distolse gli occhi dal suo cellulare. «A cosa ti riferisci?»
«Siamo diventati migliori come esseri umani? C’è stato un progresso, la scienza ci ha portato a uno sviluppo?»
«Ultimamente me lo sono chiesto anch’io».
«Ma tu lo sai, no? Tu ti ricordi come eravamo migliaia di anni fa. Saprai bene se siamo cambiati?»
Arthur si strinse nelle spalle. «Se solo fosse così semplice. Credi che le azioni di una persona si possano giudicare disgiunte dal tempo e dalla cultura in cui vive?»
Nathaniel ci pensò su. «Se intendi dire che c’è un relativismo etico, e che sono le circostanze esterne a decidere cosa è giusto o sbagliato, allora non lo credo. Ci sono cose sbagliate, indipendentemente da tempo e luogo. Omicidio, tortura, stupro. Cose di questo genere non si possono giustificare».
«Vuoi dire che anche uccidere per autodifesa è sbagliato?»
«Se è davvero autodifesa, si può giustificare».
«E che diciamo della tortura?»
«La tortura non è mai giusta».
«Mai?» ribatté Arthur rapido. «Non trovi che ‘mai’ sia una parola troppo forte? Come puoi dire che un omicidio per autodifesa può essere giustificato, e al tempo stesso che la tortura non può mai esserlo?»
Nathaniel si sentì attaccato. Il tono di Arthur era stranamente aggressivo.
«Non c’è alcun rapporto tra le due cose» obiettò. «Per torturare si dev’essere in una posizione di potere, mentre nell’autodifesa si viene assaliti».
«Quando uccidi qualcuno per autodifesa, privi una persona della vita per salvare la tua, giusto?»
«Sì...» convenne Nathaniel un po’ esitante.
«Quindi ritieni che uccidere qualcuno sia giusto o sbagliato sulla base del perché lo si fa?»
«Sì. Quale sarebbe l’alternativa? I Dieci Comandamenti. La convenzione di Ginevra?» Nathaniel si pentì immediatamente del proprio sarcasmo.
«E l’intero scopo dell’autodifesa non è forse proprio impedire che qualcosa accada?»
Fu più il tono di voce che le parole a far esitare Nathaniel un’altra volta. «Sì, ma anche la situazione conta, non ci sono alternative».
«Immagina che ci siano alternative. Tortureresti una persona piuttosto che ucciderla? Oppure che cosa sceglieresti, la tortura o la morte?»
Nathaniel allargò le braccia. «Ma non vale!»
«Rispondi alla domanda. O non la capisci?»
«A meno di non rimanere mentalmente distrutto per il resto della vita, sceglierei la tortura, certo» esclamò Nathaniel a voce così alta che una coppia anziana di turisti che passava di lì lo guardò incuriosita.
Arthur li ignorò e proseguì. «Allora diciamo che un gruppo terroristico ha piazzato in segreto una bomba con del materiale radioattivo nella tua città natale per distruggerla, a meno che tu non trovi la bomba e la disinneschi. In qualche modo hai catturato uno dei terroristi. Questo sa dov’è la bomba, ma si rifiuta di parlare. È irrilevante perché. Per quel che ne sai tu può credere in un dio, nella natura o nei marziani. Il tempo stringe, non riusciresti nemmeno a far evacuare la zona. Migliaia di persone moriranno, molti in conseguenza dell’avvelenamento radioattivo. Non sai se l’uomo parlerà se viene torturato, ma sai che la maggior parte finisce per parlare. Diciamo che c’è il novantacinque percento di probabilità che parli. Diresti che è sbagliato torturare quest’uomo per salvarne diverse migliaia?»
Nathaniel stava per rispondere, ma si fermò. Capì dove sarebbe arrivato Arthur.
«Ho capito cosa vuoi dire, ma secondo me è sbagliato lo stesso. Quello che non riesco ad afferrare è cosa c’entra tutto questo con la mia domanda, ossia se siamo migliorati come esseri umani».
«Il punto è, molto semplicemente, che la maggior parte delle azioni si può giustificare da una certa prospettiva, date certe premesse. Tu non puoi difendere l’omicidio o la tortura in se stessi, ma di fatto nel mondo a volte devi scegliere il male minore. È facile essere categorici contro qualcosa finché non si è costretti a prendere posizione rispetto al problema specifico. Alla domanda se siamo progrediti o meno si può rispondere in più di un modo. Siamo quello che siamo sempre stati. Gli uomini sono stati egualmente intelligenti per tutto il tempo in cui ho vissuto. Ma l’intelligenza è prima di tutto la capacità di capire l’informazione che si ha a disposizione. La gente in generale era più stupida prima semplicemente perché non aveva istruzione o possibilità di acquisire conoscenza in altri modi, e in più la loro conoscenza era spesso erronea. Per noi che viviamo oggi la situazione è migliore e più facile in quanto, perlomeno in alcune parti del mondo, possiamo evitare di dover scegliere tra due mali. D’altro canto ci sono sempre persone senza scrupoli che fanno di tutto per ottenere ciò che vogliono. Si può dire che noi siamo più sviluppati o civilizzati perché spesso esiste un sistema che limita l’impunità di queste persone. Ma ci sono parecchi luoghi sulla Terra oggi che non si distinguono granché dalle situazioni peggiori in cui ho vissuto. Anzi, certi posti forse sono peggiori che mai».
C’era in Arthur una rabbia che Nathaniel non aveva mai visto prima.
Gli venne in mente che, fino a quel momento, ogni volta che avevano parlato di storia l’argomento della conversazione erano stati gli uomini fantastici. Ma la storia non poteva essere solo quello. Oltre a tutto il buono, doveva esserci stato anche molto marciume. Cose che Nathaniel non era sicuro di voler sapere.
«Ma vale la pena di salvarci?» domandò un po’ scherzando e un po’ serio.
«Se altri là fuori ritengono di sì, chi siamo noi per opporci?»
Nathaniel si avviò di nuovo verso gli Champs-Élysées, a passo lento. Poteva darsi che qualcuno là fuori trovasse gli uomini interessanti abbastanza da essere salvati, ma allora anche l’eventualità opposta era possibile.
Passarono dalla Biblioteca un’ultima volta, se non altro per controllare che tutto continuasse a funzionare come doveva, e ci rimasero per quasi un’ora. Era buio quando uscirono in giardino. Nathaniel non sapeva cosa pensare del viaggio di ritorno a casa: se lo lasciavano riflettere troppo a lungo, gli veniva spesso la sensazione che c’era qualcos’altro che avrebbe dovuto fare. Provava un’inquietudine che gli rendeva difficile rilassarsi. Si immaginava che Arthur provasse lo stesso, ma non gliel’aveva chiesto.
Arthur scelse un percorso insolito per tornare all’hotel. Lo guidò attraverso vecchie vie dove non erano mai stati prima. Nathaniel sapeva all’incirca dove si trovavano, e non sembrava che Arthur stesse camminando senza meta, anche se era immerso nei propri pensieri. Da tempo ormai avevano lasciato i quartieri più eleganti, e su ogni lato c’erano alti palazzi tutti uguali.
Nathaniel li vide molto prima di Arthur. Ce n’erano quattro, tutti più vecchi di Arthur e più giovani di lui. Due di loro erano seduti su una panchina mentre gli altri stavano in piedi lì accanto, e ridevano ad alta voce per qualcosa. Uno di loro fece un cenno con la testa verso Arthur e Nathaniel, e gli altri si girarono. A Nathaniel non piacque la loro espressione.
Uno dei ragazzi si alzò dalla panchina e venne loro incontro. Nathaniel stimò che avesse sui sedici anni. Non aveva nulla di speciale, fece loro perfino un sorriso, ma questo non tranquillizzò Nathaniel, anzi.
«Non dire niente» lo ammonì Arthur.
Il ragazzo li guardò, disse ciao e qualcos’altro che Nathaniel suppose fosse una domanda. Arthur rispose qualcosa. Il ragazzo fece una risata, li indicò, e voltò la testa verso gli altri tre. Questi lo avevano quasi raggiunto, e uno disse qualcosa che fece ridere tutti a eccezione di uno. Era quel ragazzo che preoccupava sul serio Nathaniel: il suo sguardo esprimeva il desiderio di allontanarsi da quella situazione.
Arthur si ficcò le mani in tasca e domandò qualcosa in francese. Il leader del gruppo si strinse nelle spalle e disse di no. Seguì uno scambio di battute. Si guardarono intorno, e Nathaniel fece lo stesso: non c’era nessun altro nelle vicinanze.
Il ragazzo fece un passo avanti.
Nathaniel avvertì il proprio corpo indietreggiare, mentre Arthur rimase fermo, ancora con le mani in tasca. Per un attimo il ragazzo sembrò valutare qualcosa, ma il commento di uno dei suoi amici ridanciani gli fece stirare le labbra in una specie di sorriso. La mano affondò nella tasca e ne riemerse con un coltello.
Arthur continuò a restare immobile, ma estrasse lentamente le mani dalle tasche.
Il ragazzo gesticolò con la mano libera. Arthur tirò fuori il portafoglio, lo aprì e glielo gettò.
L’oggetto fu agguantato ed esaminato in un lampo.
Poi il ragazzo guardò Nathaniel, e fece un cenno con la testa.
«Tranquillo, dagli pure il portafoglio» disse Arthur.
La mano di Nathaniel si fece strada all’interno della giacca. Il portafoglio sembrò stranamente pesante. Il ragazzo gli disse qualcosa: i suoi amici stavano ancora dietro di lui senza dire niente, ma sembravano altrettanto tesi. Nathaniel lo aprì e tirò fuori le foto. Il ragazzo fraintese. Nathaniel non ebbe bisogno della traduzione per capire il significato delle parole che vennero pronunciate. Con troppa foga lanciò il portafoglio, che colpì il ragazzo sul petto e cadde a terra.
«Ce que c’était?» chiese il ragazzo, indicando le fotografie.
«Family photos» rispose Nathaniel.
«Non, non, non» replicò il ragazzo scuotendo la testa.
Arthur disse qualcosa, e il ragazzo per un attimo fu sorpreso. Poi fece di nuovo un sorriso e si mise a ridere.
«We are leaving now» disse Arthur.
Nathaniel capì che quella frase era stata un errore. Arthur fece alcuni passi indietro. Il ragazzo si lanciò un’occhiata alle spalle, poi si mise a correre verso Arthur. Ed era veloce: Nathaniel fece appena in tempo a sbattere le palpebre che era già accanto ad Arthur. Lo afferrò per il bavero e puntandogli il coltello contro il viso gli gridò qualcosa.
Arthur rimase del tutto calmo.
Nathaniel sentì di avere il corpo inchiodato a terra. Cercò di dire qualcosa, ma non un suono gli uscì dalle labbra.
Poi Arthur si mosse.
Nathaniel non riuscì a vedere cosa facesse, ma di colpo l’amico era arrivato a due passi di distanza dal ragazzo. La sua voce era tranquilla, come se nulla fosse successo. Il ragazzo gli si gettò contro a capofitto brandendo il coltello. All’ultimo momento Arthur fece un piccolo passo di lato, il ragazzo volò oltre, inciampò nel piede di Arthur e finì a terra. Nella caduta il coltello emise un rumore metallico. Il ragazzo fece appena in tempo a imprecare che Arthur gli sferrò un calcio al mento con un suono soffocato. La testa gli sbatté di lato come quella di un burattino, prima di cozzare sull’asfalto con un altro tonfo sordo. Il ragazzo rimase a terra, gli occhi arrovesciati sotto le palpebre.
Gli altri ragazzi fissarono Arthur.
Non accadde nulla.
Nathaniel sentì la propria voce, ma non aveva alcuna idea di cosa stesse dicendo.
Poi accadde tutto talmente in fretta che lui a malapena avrebbe saputo dire se erano stati i ragazzi ad affondare le mani nelle tasche, o se Arthur si era messo a correre. Non via da loro, ma verso di loro.
Il rumore del ginocchio del ragazzo che veniva dislocato dalla rotula fu nauseante. Le grida che seguirono erano irreali, così esagerate che non potevano essere autentiche. Gli altri due rimasero paralizzati a guardare, poi uno scappò. Il ragazzo rimasto brandiva un coltello, il manico che gli tremava in mano. Arthur gli si mise calmo di fronte e si strinse nelle spalle, con le mani aperte davanti a sé. Il ragazzo lo fissava come se fosse un incubo materializzato. Arthur fece un passo verso di lui, che quasi incespicò arretrando.
«Cours» fece Arthur, calmo.
Il ragazzo se la diede a gambe.
Gli faceva male la mano. Nathaniel la guardò: le sue nocche bianche erano strette attorno al manico di un coltello. Non si ricordava di aver raccolto quello del ragazzo. Il tipo con il ginocchio rovinato stava ancora urlando, ma Arthur non sembrò curarsene. Il ragazzo a cui aveva sferrato un calcio in testa giaceva ancora a terra privo di coscienza. Arthur gli appoggiò per un attimo le dita sul collo, poi prese i portafoglio. Raccolse il coltello da terra, lo richiuse e se lo mise in tasca.
«Okay, andiamo» disse.
Anche dopo, per un pezzo Nathaniel continuò a udire le urla.