Capitolo 5
Arthur aprì gli occhi e fissò il soffitto, senza avere la più pallida idea di dove fosse. Poi di colpo la suoneria del cellulare divenne qualcosa in più di un vago ricordo del sogno, e lo riportò bruscamente alla realtà.
«P-pronto!»
«Ciao, tesoro. Perché non rispondi al telefono?» domandò la madre con una punta di irritazione nella voce.
«Stavo dormendo».
Cosa aveva sognato? Era tutto ancora così vivido, riusciva quasi a ricordarlo. Erano degli sprazzi di immagini, ma senza senso logico.
«Non puoi portarti il telefono in camera?»
Arthur sbadigliò. Si era già portato dietro il telefono proprio perché sapeva che la madre avrebbe chiamato. Per quanto tempo aveva squillato accanto a lui, senza svegliarlo?
«Sì, adesso lo porto con me».
«Come ti senti? Va meglio?»
«Stanco. Ma mi sembra che le mani abbiano smesso di tremarmi». Ma cos’era quel mal di testa?
«Bene. Stai tranquillo e riposati».
«Sì».
«È strano, questa è la prima volta che sei malato, sai?»
«Mmh...»
«Ah senti, oggi sei tu che decidi il menu della cena. C’è qualcosa che desideri?»
Arthur si sentì chiudere la bocca dello stomaco. «È lo stesso. Possiamo fare i pancake, così saranno contente anche Julie ed Emilie».
«Ma li facciamo a quasi tutti i compleanni! E non è passato molto tempo dall’ultima volta. Qualcosa di più originale?»
«Decido io oppure no?»
«Ok, vada per i pancake. Ma adesso devo andare. Ci sentiamo più tardi. Ciao!»
«Ciao».
«Ti voglio bene».
«Ti voglio bene anch’io».
Gli dolevano le tempie. Era come se dei minuscoli coltelli fossero al lavoro giusto sotto la sua pelle. Il tremito non era scomparso del tutto, ma Arthur preferiva quello al mal di testa. Non era abituato a quel genere di dolore. Un taglio profondo al braccio, nessun problema. Mal di testa, ed era fuori combattimento. C’era una certa ironia in tutto ciò. Si alzò: nella stanza l’aria era calda e pesante, avvolta nell’odore di sonno. Non c’era da stupirsi che avesse mal di testa. La lingua sembrava volerglisi appiccicare al palato. Avrebbe dato chissà cosa per svegliarsi nel buon vecchio corpo a cui era abituato. Impossibile cercare di riaddormentarsi. Arthur guardò fuori: in cielo c’erano nuvole, ma sottili e velate. Aprì la finestra, e l’aria fresca lo fece sentire più leggero. Erano quasi le dodici: poteva tentare di contattare Lilith in Giappone, ma non in quel momento, non in quella stanza, con quel mal di testa.
Scese giù, prese le scarpe da ginnastica e uscì in veranda. I raggi del sole avevano appena girato l’angolo della casa. Gli unici suoni provenivano dal giardino della babysitter tre case più in giù. Arthur si incamminò nella direzione opposta. Cosa avrebbe detto agli altri Bambini? C’era una parte di lui che si era risvegliata dal letargo. Vecchie idee, pensieri su un’esistenza da adulto tornavano improvvisamente in vita come se lui non li avesse mai respinti.
Cominciò a correre.
La sicurezza del Network si basava in parte sul fatto che loro non arrivavano mai a vivere il giorno del loro quattordicesimo compleanno. Avevano sempre avuto la convinzione che qualcuno o qualcosa li controllasse. La lunghezza della loro vita era prestabilita e seguiva sempre il calcolo del tempo attuale, come se qualcuno li sorvegliasse e adattasse di conseguenza le regole cammin facendo. Cosa succedeva negli anni bisestili? Arthur non era mai nato il 29 febbraio, ma a qualcuno doveva pur essere capitato, no?
Quando avevano messo in piedi il Network il motivo della loro esistenza era stato dibattuto fino alla noia, ma le discussioni somigliavano troppo a dibattiti religiosi. C’erano elementi che potevano far pensare che i Bambini fossero stati creati per uno scopo, ma in fondo era una questione di fede. Quanti anni aveva ormai Arthur? A occhio e croce settemila, cosa che lo rendeva uno dei più vecchi. Di molte delle prime vite ricordava ben poco, con qualche importante eccezione. Si ricordava ancora la sua prima rinascita, e la sensazione che aveva provato: un miscuglio di paura, meraviglia e impotenza. L’unica cosa che ricordava della sua prima vita era la sua morte. Tuttora non gli piacevano i gorilla. Della sua seconda vita, al contrario, ricordava tutto. In un certo senso era stata quella la sua infanzia, e al tempo stesso un risveglio a qualcos’altro. Quante tracce si era lasciato dietro nella valle dell’Indo, quanti pensieri e quante idee? Il piccolo bambino che spaventava tutti, perfino il suo proprio padre, che era il gran sacerdote.
Aveva vuoti di memoria anche per i periodi di pazzia, ma non sapeva se fosse perché non permetteva a se stesso di ricordare. Tutti i Bambini in certi periodi avevano perso il contatto con la realtà, per poi ritrovarlo ciascuno a proprio modo. Forse era inevitabile, dal momento che facevano così tante esperienze. Vivevano molte vite, ma non c’era mai nemmeno un indizio che facesse pensare che fossero parte di un disegno più grande. Gli esseri umani andavano e venivano, ma i Bambini restavano. Migliaia di anni di solitudine.
Il bosco era silenzioso. Arthur afferrò un ramo, strappò tutte le foglie e le gettò a terra. Sulle dita gli restò l’odore di linfa e di verde. Un giorno supplementare di vita, in particolar modo uno splendido giorno di primavera, avrebbe dovuto essere una gradita sorpresa. Dopotutto si era aspettato di risvegliarsi in un’esistenza indicibilmente noiosa e monotona, dentro un corpicino con arti che non rispondevano ai comandi e una vista che registrava solo ombre. Ciò che gli stava accadendo in quel momento era in tutti i sensi infinitamente meglio, ma al tempo stesso non sembrava sufficiente. Doveva parlare con qualcuno. Più di tutto voleva parlare con Raven, ma probabilmente non sarebbe stata raggiungibile prima di qualche ora. Doveva accontentarsi di Lilith, o Natsuyo, che era il suo attuale nome giapponese.
La stanza era ancora troppo calda, ma grazie all’aria era in ogni caso vivibile. Il mal di testa c’era ancora, ma più debole. Arthur accese il computer. Conosceva il normale account MSN di Lilith: il punto era se lei avrebbe accettato l’invito. Creò un nuovo account che chiamò Phoenix. Poi si ricordò che quello era un soprannome già in uso tra loro, ma era troppo tardi. L’invito era un messaggio privato in giapponese. Con sua sorpresa, fu accettato quasi istantaneamente.
«Chi sei? » apparve
subito sullo schermo.
Era la prima volta che Arthur doveva servirsi di un protocollo d’emergenza. Scrisse in inglese usando il nome con cui era conosciuto tra i Bambini.
«Ciao, qui Eshu. Ho risolto l’ultimo rebus su quel sito web. Le lettere sono GRWQNKL».
Poteva vedere nella finestra della chat che l’altra aveva cominciato a rispondere, ma poi cancellò tutto.
«Quel rebus è impossibile. La risposta esatta è YQRCXWA».
Arthur sorrise allo schermo. «Niente è impossibile, secondo me. Che ne dici di IIKRVUT?»
Si scambiarono i successivi cinque codici senza troppi preamboli.
«Baka!»
Strano come alcune parole quasi si traducevano da sole.
Lei continuò in giapponese. «Come hai potuto sbagliarti sul giorno del tuo compleanno?»
«Non mi sono sbagliato. Compio quattordici anni oggi».
«Ah, ah, divertente».
Comparve un invito a iniziare una conversazione.
Arthur trovò il microfono e accettò. «Moshi moshi» disse in giapponese. Ci fu un crepitio nelle orecchie, come se qualcuno strisciasse un dito sul microfono. «Mi senti?» chiese.
«Sì, prima volevo solo sentire la tua voce. Il tuo senso dell’umorismo è parecchio peggiorato».
«Magari fosse una battuta, ma non sto scherzando».
«Sì, bella questa».
«Davvero, non sto scherzando. Perché dovrei mentire su una cosa del genere?»
Nessuna risposta.
«Lo so quello che puoi pensare, e credimi, ho controllato e ricontrollato, ma il fatto è che sono nello stesso corpo. E ho quattordici anni».
«Devi esserti dimenticato qualcosa».
«Hai mai sentito di qualcuno che si sia dimenticato il proprio compleanno?»
«Dimenticato? No. Qualcuno che non sapeva esattamente in che giorno cadeva? Sì».
«Come se io appartenessi a una tribù della giungla vissuta migliaia di anni fa? No, sono sicurissimo. Per qualche strana ragione stanotte non sono trasmutato, anche se era arrivata l’ora».
«Hai informato qualcun altro?»
«No, non ho accesso a nessuno dei normali sistemi, lo sai che adesso sono tagliato fuori».
«Ma ne parlerai con qualcuno?»
«Credo di sì». Il tremito delle mani era ricomparso, forte.
«E adesso cosa fai?»
«Non c’è molto da fare. Aspetto».
«Strano... Perché dovresti trasmutare adesso se non l’hai fatto al momento giusto?»
«Non ne ho la più pallida idea. Mica lo so perché sta accadendo questo». Arthur si appoggiò allo schienale della sedia. Era una frase stupida: in realtà non sapevano neanche perché rinascevano.
«Forse Nishanu una volta tanto ha ragione».
«È il tipo che ha quella teoria che potremo crescere solo quando avremo imparato qualcosa di importante sulla vita?»
«Esatto».
Arthur non aveva voglia di abboccare all’amo.
«A proposito, ti senti diverso? È successo qualcosa di particolare?» chiese Lilith.
«No». La risposta fu un po’ troppo categorica, Arthur stesso se ne rese conto.
«Ok. Suppongo che tu abbia pensato alle conseguenze».
«Difficile non farlo. Ma non voglio pensarci, non ancora».
«Può essere che sia successo prima, e che il Consiglio abbia deciso di non dircelo».
«Quante probabilità ci sono?»
«Quante probabilità ci sono che succeda quello che ti è capitato?»
«Su questo hai ragione, ma sarebbe strano. Perché l’avrebbero tenuto segreto?»
«Non lo so, sto riflettendo ad alta voce».
In effetti Arthur a questo non aveva pensato. E se fosse già successo in passato, e lo avessero tenuto nascosto? In quel caso Raven lo avrebbe saputo, faceva parte del Consiglio da tempo. Non che necessariamente lo avrebbe raccontato a lui.
«Senti, vuoi che mandi a Raven un messaggio da parte tua? Immagino che tu voglia parlare con lei il prima possibile».
«È senz’altro la cosa migliore. Potrei provare il suo account privato, ma se lei non ha mai sentito di un evento simile c’è il pericolo che si rifiuti di parlarmi. A volte è un po’ paranoica».
Lilith si mise a ridere. «Non è forse per questo che svolge quel lavoro? Sotto tutta quell’arroganza, sa quello che fa».
«Sì, sì». Arthur sorrise. Lilith e Raven non condividevano la stessa filosofia in quel campo.
«A proposito, lei dov’è?»
«Da qualche parte negli USA. Su due piedi non ricordo con precisione. Vicino a Boston, credo».
«Ok. Ti fai sentire più tardi?»
«Sì, ma se non lo faccio, sai il perché».
«Speriamo. A dopo!»
C’erano sei ore di differenza tra lui e Raven, e Arthur aveva poca speranza di contattarla prima di sera tardi. Poteva cominciare a scrivere un rapporto o qualcosa di simile, ma non ce n’era motivo. Non ancora. Se avesse trasmutato l’indomani, sarebbe stato come creare una tempesta in un bicchier d’acqua. Per non parlare del fatto che tutti lo avrebbero preso per uno scemo che non si ricordava il giorno del suo compleanno. C’erano modi migliori per impiegare il tempo: poteva cominciare a leggere il libro che aveva ricevuto, ma aveva la sensazione che i suoi pensieri non si sarebbero concentrati sul contenuto, e in quel momento aveva bisogno di distrarsi. Un videogioco era più efficace. Fece partire un turno di Civilization V, stavolta al livello di massima difficoltà. Se doveva conquistare il mondo, gli servivano delle sfide.