Capitolo 2
La sedia finì sul pavimento con un rumore a metà tra il canto di una balena e la sirena di un battello a vapore, e Nathaniel rabbrividì dentro, anche se stava ascoltando musica con gli auricolari. Christian si alzò, stiracchiò le braccia, sbadigliò rumorosamente e disse qualcosa. Nathaniel si sfilò gli auricolari e soffiò via la frangia dagli occhi.
«Cosa hai detto?»
«Ho detto che è ora di cominciare il fine settimana».
Erano quasi le tre e mezzo, e Nathaniel fu sorpreso che il suo compagno d’ufficio non avesse già cominciato ufficialmente il weekend da un bel po’.
«Hai piani per il fine settimana?» chiese Christian.
«Devo lavorare».
«Lavori già abbastanza. Hai bisogno di una festa. Anche ai geni serve una pausa ogni tanto, lo so benissimo. Fa bene al cervello farsi distrarre un po’. Specialmente da ragazze carine del primo anno. Chiedono di te, sai?»
Nathaniel non era sicuro che alle piccole carine facesse altrettanto bene essere distratte da Christian. Quanto a lui, doveva ancora incontrarne una con cui fosse davvero interessante parlare. A volte si chiedeva se Christian mettesse volutamente in giro storie su di lui. Mezzo afroamericano, un quarto indiano, un quarto bianco, cento percento misterioso.
«I satelliti saranno pronti entro oggi, quindi...»
«Davvero? Entro oggi?»
«Sì» rispose Nathaniel, e si pentì subito di averlo detto.
«Ok, allora capisco. Wow. Chi l’avrebbe creduto?»
«Io, per esempio?»
«Be’, certo. Allora speriamo in risultati positivi, e...»
Nathaniel si alzò di scatto spingendo indietro la sedia con un nuovo raschio stridente. «Andrà bene. In bocca al lupo per stasera, è una festa grande».
«Sì, sarà fantastico».
«Non ne dubito. Mi racconterai lunedì».
Non lo intendeva sul serio, ma qualsiasi cosa era meglio che parlare dei risultati che aspettava. Christian sparì fuori dalla porta, in ritardo come sempre. Nathaniel si prese dell’acqua dal bollitore. Il dipartimento era già vuoto, per fortuna.
Mancava poco alle sei quando iniziò a sentire i morsi della fame. A pensarci bene, non mangiava dalla colazione. Non rimaneva altro da fare che aspettare i risultati. Se tutto era andato secondo i piani, i satelliti dovevano aver svolto il proprio lavoro. Certo, ci voleva del tempo per la trasmissione dei dati, ma nemmeno tantissimo. Le dita gli prudevano dal desiderio di scrivere una mail per sapere se la trasmissione era andata a buon fine, ma lasciò perdere. Però per sicurezza compose la mail e la salvò nelle bozze. La pazienza poteva pure essere una virtù, ma non ancora una delle sue.
Spense il computer, controllò di avere le chiavi, il portafoglio e il cellulare e uscì. Sul prato la gente si godeva il sole, circondata da borse, vestiti, termos e pile di libri e carte. Due persone si lanciavano a vicenda un frisbee, irritando tutti gli altri. Nathaniel era felice di aver finito il periodo degli esami.
Scelse una direzione che gli permetteva di avere il sole in faccia, e si incamminò.
Dopo quattro anni aveva provato quasi tutte le combinazioni di ciascun percorso del campus, ma gli piaceva la sfida di ricordarsele tutte e di crearne di nuove. Si ricordava il primo giorno in cui era arrivato, un ragazzino sedicenne dagli enormi riccioli neri. Se li era subito tagliati. Sembrava una vita fa. Solo quando si era seduto sull’erba davanti all’istituto con i libri appena comprati aveva realizzato di aver cominciato gli studi universitari. Era facile ricordare quella sensazione. La pensava come un’immagine, ma era molto di più di una semplice fotografia. Non gli piacevano le comuni fotografie: quando vedeva quelle della sua infanzia non si ricordava mai nulla, tranne quello che gli era stato raccontato. Perfino le foto dei primi anni dell’adolescenza non corrispondevano a veri ricordi. Che senso avevano i ricordi se non erano i suoi? Così, invece di una macchina fotografica, Nathaniel possedeva una sua propria tecnica. Anche se forse non era corretto dire che era sua, perché non la controllava del tutto. Quando era il momento giusto, o quando una sensazione lo colpiva mentalmente e fisicamente, si fermava ad assaporare l’attimo, e sapeva che avrebbe potuto ricordare quell’esatto momento in seguito. Qualunque cosa lo poteva far scattare: la sensazione delle gocce di pioggia sul viso, capire un problema di matematica, l’odore di un libro nuovo o sentirsi felice senza alcun motivo apparente. Perché funzionasse, perché lui fosse in grado di ricordare con precisione quegli attimi a distanza di tempo, non lo sapeva.
Due ricordi gli balzarono in mente mentre camminava. Il giorno che aveva avuto l’idea del progetto, e la notte in cui aveva finalmente risolto le equazioni necessarie per portarlo a termine. Si ricordava soprattutto la notte, perché si era ripromesso di tenere a mente l’attimo in cui aveva finito. Era passato più di un anno, e da allora aveva svolto ancora una quantità incredibile di lavoro, ma in quel preciso momento aveva avuto l’assoluta convinzione di essere nel giusto. Tutti i dubbi erano scomparsi per non ritornare mai più. Neppure il suo maestro e mentore, che alla fine era arrivato a chiamare l’intero progetto pseudo-scienza, rifiutandosi di parteciparvi, era riuscito a convincerlo del contrario. Nathaniel si fidava nel modo più assoluto della matematica. Una prova matematica non si poteva ignorare, come non si poteva negare che uno più uno fa due. Lo aveva deluso che il mentore non avesse capito le formule, nonostante Nathaniel gliele avesse spiegate per ore. A dire il vero non le capiva nessuno. Ma da quel giorno non ne avrebbero avuto bisogno, i risultati avrebbero parlato da sé. Avrebbero parlato per lui. Per la prima volta nella storia si sarebbe saputo esattamente quanti abitanti ci fossero sulla Terra. Be’, quasi: la gente moriva e nasceva a ogni secondo, e il sistema non poteva venir aggiornato in continuazione. Ma il suo nome sarebbe stato associato per sempre a qualsiasi censimento. Tirò fuori il cellulare e controllò che le impostazioni di avviso fossero giuste. Si chiese se quella capacità di controllare e preoccuparsi per cose che in fondo sapeva essere a posto non l’avesse ereditata da uno dei genitori. Dubitava che fosse toccata a Martha, la sorella maggiore, ma una volta doveva chiederlo a Emma. Era lei la più simile a lui.
Quando il cellulare finalmente squillò, Nathaniel si trovava dalla parte opposta del campus. Tornò all’ufficio sudato e affannato, e si mise subito a scaricare i dati. Da lì a poco tutto fu pronto: non gli rimaneva che eseguire il programma che avrebbe confermato il suo trionfo. Doveva solo scrivere la riga di comando e premere Invio. Pensò che una piccola fanfara sarebbe stata appropriata, ma tutto quello che accadde fu che la riga di comando sparì. Perché non aveva inserito una qualche sorta di indicatore che mostrasse l’avanzamento del processo? Non era un errore, ma il non averci pensato lo irritava. Allo stato delle cose, era impossibile vedere con che velocità venivano elaborati i dati. L’unica indicazione che qualcosa stava succedendo era il rumore dell’hard disk, che sembrava voler fuoriuscire dal suo piccolo guscio metallico. E non era un suono rassicurante. Nathaniel prese in mano The Reality Dysfunction di Peter F. Hamilton ed estrasse alcune bustine di tè dal cassetto. C’era ancora acqua nel bollitore, ma la buttò via e ne fece bollire di nuova prima di tornare a sedersi. Come al solito aveva dimenticato il segnalibro e cominciò a scorrere le pagine cercando il punto a cui era arrivato. Trovò il paragrafo, ma c’era qualcosa che non andava. Gli ci vollero alcuni secondi per realizzare che era il silenzio a disturbarlo. L’hard disk mostrava una mancanza di attività alquanto sospetta. Nathaniel rimosse il salvaschermo, e un breve messaggio lo informò che tutto era stato eseguito correttamente. Aprì la mappa e vi trovò cinque file di immagini, proprio come si aspettava. Eppure non poteva essere giusto. Per comporre tutti i file il computer avrebbe dovuto impiegare almeno qualche ora. Nathaniel cliccò due volte sul file, così lentamente che invece di aprirlo cominciò a redigerne il nome. Imprecò tra sé a voce bassa. Lo schermo venne coperto da un’immagine dell’Africa di Google Earth che aveva già visto troppe volte in passato. Aveva creato lui stesso il programma che permetteva di collocare le localizzazioni del GPS sulla carta geografica. Non fu sorpreso che l’immagine fosse la stessa di sempre. Avrebbe dovuto essere piena di puntini bianchi, ciascuno rappresentante una persona, ma naturalmente non poteva funzionare al primo tentativo.
Avviò uno degli altri programmi.
Controllò l’insieme dei dati grezzi ed estrasse alcuni singoli risultati. Le coordinate arrivarono, una dopo l’altra. Dopo trenta risultati lasciò perdere. Doveva esserci qualche errore nel disegno sulla carta. Ingrandì le dimensioni di uno dei puntini bianchi e inserì il risultato di un test nel centro dell’Africa. Anche quello funzionò come doveva. Nathaniel appoggiò il gomito destro sulla scrivania e si sostenne il viso con la mano, mentre con la sinistra si tamburellava sulla coscia. Avviò il programma da capo, ritrovò il suo libro e bevve un sorso di tè tiepido.
Ottenne lo stesso risultato.
Il mondo non aveva abitanti, ma i test indicavano che tutto era a posto. Anche se era una cosa stupida, ingrandì la dimensione di tutti i puntini e aprì di nuovo l’immagine. Si riappoggiò all’indietro sulla sedia.
In Africa si trovavano circa ottanta persone.
Questo spiegava un problema, ma ne poneva almeno uno nuovo. A Nathaniel si torse lo stomaco. Non aveva voglia di avviare l’ultimo programma che aveva preparato. Era quello che avrebbe dovuto fornire la cifra di cui tutto il mondo avrebbe parlato nei giorni successivi, quello che avrebbe dovuto essere il suo trionfo.
Quattrocentoventuno.
C’erano quattrocentoventuno persone sulla Terra. Nathaniel si mise a ridere. Era una bella cifra, ma non esattamente una cifra che il mondo avrebbe notato. Le dita cercarono la frangia e la tirarono di lato. Ci sarebbe voluta un’eternità per controllare i dati, per non parlare di ripetere tutto il processo matematico, ma non aveva molte alternative.
Erano le cinque di mattina quando tornò a casa a dormire.
Non c’era nemmeno un errore. Nathaniel non sapeva se questo doveva tranquillizzarlo o allarmarlo. I dati producevano ogni volta la stessa quantità di risultati, e solo un segnale era forte abbastanza da poter essere collocato con relativa precisione. L’ultima cosa che Nathaniel fece fu mandare una mail alla persona di riferimento con un nuovo programma di controllo per verificare la calibrazione dei satelliti, assieme alla richiesta di poter effettuare un nuovo test. Cliccò su Invio con uno strano presentimento.
Il cellulare lo strappò al sonno con la suoneria consueta. Non pensò neanche a che ore fossero prima di controllare la mail. Non era quello che aveva sperato. Il direttore d’istituto, Reynolds, voleva incontrarlo per discutere il futuro e il proseguimento del suo lavoro. A Nathaniel la formulazione non piacque per nulla. Reynolds suggeriva di vedersi in un piccolo caffè appena fuori dal campus quella domenica. Già di per sé questo era strano, ma Nathaniel rispose di sì: se non altro, forse Reynolds poteva aiutarlo a procurarsi più tempo con i satelliti.
Gli serviva più tempo.