XLI

L’aria mi graffia le narici.

Mi schiaccio contro il pavimento e mi faccio strada verso la parete, attraverso il labirinto di gambe. Alcuni di loro riescono a stare in piedi solo perché non c’è spazio per cadere. Non mi ricordo quand’è stata l’ultima volta che ho dormito. L’eterno sferragliare sopra le traversine è come una ninnananna. Nella parte inferiore della parete trovo un foro di aerazione abbastanza grande da guardarci attraverso e respirare.

Il treno frena in maniera troppo brusca.

Sento grida soffocate nella parte anteriore del vagone, mentre l’ammasso umano si comprime ancora di più. Fuori ci sono soldati dappertutto. Sembrano formiche, con le loro uniformi, apparentemente ignare di ciò che sta accadendo intorno a loro. Le recinzioni di filo spinato sono alte diversi metri e sembrano non finire mai, proprio come l’abbaiare degli ordini e dei cani.

Tutto si ferma.

Nessuno dice niente, come se restando in silenzio potessero far dimenticare al mondo la loro esistenza. Hanno già sentito parlare di questo posto, glielo leggo in volto. Un uomo, accanto a me, rivolge una preghiera silenziosa a Dio.

I portelli scorrevoli vengono aperti e sbattono con un gran fracasso, facendo sobbalzare tutti.

Un ufficiale comincia a parlarci, ci ordina di disporci in due file. Nessuno oppone resistenza. Potrei mettermi a correre e prendermi un proiettile nella schiena, ma voglio sapere. Devo.

Le porte della doccia vengono chiuse da uomini che hanno già visto l’inferno. Non possono esserci persone innocenti, qui. Non in questa nazione. Non in questo mondo.

Basta così.