Capitolo 19

Lo svegliò la luce. Il riverbero rosso gli bruciava le palpebre inviandogli piccole ondate di nausea attraverso il corpo. Cercò di girarsi dall’altra parte, ma né la testa né il corpo gli obbedirono. La bocca era secca e senza vita, le labbra incollate. Quando le schiuse sentì aprirsi dei piccoli tagli. Il suono che emise non somigliava neanche lontanamente a una parola.

Controvoglia, aprì gli occhi: c’era meno luce di quello che si era aspettato, ma in compenso faceva più male. L’indolenzimento provocato dalla cannula sul dorso della mano gli aveva già fatto capire che si trovava in un ospedale. Non c’era nessuno nella stanza, cosa che lo stupì. A giudicare dalla luce che entrava dalla finestra, la giornata doveva essere circa a metà. Alla sua sinistra c’era una sedia su cui Arthur riconobbe la giacca della madre. Da quanto tempo si trovava lì? Aveva più sete che fame, anche se la flebo gli iniettava del liquido direttamente nel sangue. Più di tutto era stanco.

Si ricordava ogni cosa.

Il solo pensiero fece riaffiorare sensazioni che Arthur non voleva rivivere, ma non riuscì a evitarlo. Come era possibile odiare tanto? Com’era concepibile vivere con un simile odio e vuoto interiore senza diventare pazzi? Non poteva ricordarne il nome, anche se l’aspetto del ragazzino era più vivido nella sua memoria perfino del suo stesso. Strano: ricordava ogni minimo dettaglio con insolita chiarezza. Sapeva che esistevano persone dalla memoria perfetta, ma se era così che ricordavano le cose, dovevano viverla come una maledizione. Arthur stesso aveva odiato qualcuno attraverso i secoli, ma mai come faceva quel ragazzino. Quello era un odio per tutto e tutti, incluso se stesso. Un odio talmente divorante che Arthur si sarebbe rifiutato di credere alla sua esistenza, se non l’avesse sperimentato.

La madre entrò nella stanza fissando il telefonino che teneva in mano. Arthur sollevò la mano e si sforzò di sorridere, ma entrambe le cose gli fecero male. Lei sollevò gli occhi. L’espressione del suo viso gli disse tutto ciò che doveva sapere. Era sollevata, ma non era stata atterrita. Gli prese la mano e si sedette sulla sedia, e sembrò che alternasse la ricerca di qualcosa da dire allo sforzo di trattenere le lacrime.

«Sete» disse Arthur nel tono infantile che usavano per scimmiottare Emilie.

La madre proruppe in un sorriso, ridendo e singhiozzando un poco al tempo stesso. «Adesso li chiamo, aspetta solo un po’». E tirò la cordicella a fianco del letto.

«Come ti senti?»

«Ancora sete» rispose Arthur, stringendole la mano.

«Questo l’abbiamo stabilito. Ma per il resto?»

«Come se qualcuno mi avesse infilzato con un grosso ago, mi avesse fatto camminare per venti ore in montagna e avesse detto al mio cervello che la luce del sole fa male agli occhi. Potrei star meglio».

La madre scosse la testa. «Non fai mai le cose a metà, tu. Se devi ammalarti, ti ci metti d’impegno».

«Posso dare la colpa alla mia educazione?»

«Allora piuttosto puoi cominciare ad assomigliare a tuo padre, mi sembra».

Arthur sollevò le sopracciglia e guardò la madre con aria interrogativa, ma non senza l’ombra di un sorriso all’angolo della bocca.

«Non c’è bisogno che tu ripeta questa frase quando arrivano gli altri» aggiunse la madre facendo l’occhiolino.

«Per quanto tempo sono rimasto qui?»

«Da ieri».

Un uomo giovane si presentò alla porta, sorridendo un po’ troppo. «Ma guarda un po’. Buongiorno, signori!»

«Ha sete, potremmo avere un bicchier d’acqua?» chiese la madre.

«Ma certo, vado anche a chiamare il dottore».

«Grazie».

Arthur si tirò su a sedere. La madre gli sistemò un cuscino dietro la schiena.

«Che problema ho?»

«Eri estremamente disidratato quando sei arrivato qui. Hanno fatto degli esami per scoprire il perché e, be’, vedremo cosa dicono».

«Quanto tempo devo restare qui?»

«Non pensare a questo, tesoro».

Arthur si ricordò le ultime parole del Guardiano. Quella situazione era causata da qualcosa collegato al ricordo, giusto? Prima o poi avrebbe avuto una risposta, ma stare all’ospedale comportava una serie di problemi. Gli esami avrebbero rivelato qualcosa di insolito in lui? Alcuni dei Bambini in precedenza avevano temuto che vi fosse qualcosa di strano nella loro fisiologia, dato che non si ammalavano mai e i corpi si sviluppavano comunque. Arthur sarebbe guarito, secondo il Guardiano, ma a pensarci bene gli aveva dato anche un avvertimento. Quella era l’unica vita che aveva come adulto.

Doveva scoprire cosa gli stava succedendo, e tornare dal Guardiano il più presto possibile. Ma non se una delle possibili conseguenze era la sua morte.

«Come sta Julie?» domandò.

«Si è spaventata, ma adesso sta bene. Stanno venendo qui tutti».

C’erano un po’ di cose che Arthur aveva voglia di chiedere a Julie, ma aveva la sensazione che la sorella non sarebbe comunque stata in grado di rispondere.

 

 

Il medico era una donna poco al di sotto della cinquantina che non amava fare conversazione. Visitò Arthur in fretta senza dire una parola, poi tirò fuori la cartella clinica e cominciò a fare domande: cosa aveva mangiato, se di recente era stato malato, se qualcuno a scuola o a casa era malato, se era stato in qualche luogo insolito.

Alla fine la madre la interruppe e chiese quanto rilevanti fossero quelle domande. Arthur suppose che la dottoressa fosse confusa perché non avevano trovato nulla che potesse spiegare il motivo della sua disidratazione.

«Crediamo che abbia contratto un virus» disse la dottoressa, con un tono che indicava che quella visita era più una formalità che una premura. «Ma può tornare a casa domani. Lo teniamo qui ancora una notte in osservazione». E sparì dalla stanza tanto in fretta quanto c’era entrata.

«La normale cortesia non è normale qui?» domandò Arthur scoraggiato.

La madre per un attimo fissò il muro. «Fintantoché fa il suo lavoro, per quanto mi riguarda può pure alzarsi con entrambi i piedi sbagliati. Ma come vita non è un granché». Poi lo guardò meravigliata. «A proposito, non l’aveva già detto qualcuno?»

«Detto cosa?»

«Quella storia della normale cortesia? L’ho già sentita».

Arthur si strinse nelle spalle.

 

 

Il padre e le sorelle avevano con sé cose da leggere e dolciumi: due libri, due riviste e un grande sacchetto di caramelle gommose dolci e salate. Emilie non era molto a suo agio nel vedere Arthur in un letto d’ospedale, ma le passò quando ebbe il permesso di sedersi sul letto e scoprì che poteva rubacchiare qualche caramella.

Julie fissò sgomenta la flebo nel braccio del fratello.

«Non è pericoloso, e i dottori dicono che non succederà di nuovo» la tranquillizzò Arthur, e guardò la madre per un attimo. «Ma è un bene sapere che sono in buone mani. Caramelle?» Allungò il sacchetto a Julie, che sorrise cauta e rovistò fino a pescare la sua preferita, che evidentemente sapeva essere da qualche parte sul fondo del sacchetto.

«Cos’hanno detto veramente i dottori?» domandò il padre, guardando la madre.

«Dopo» rispose lei, dando al marito un bacio leggero sulla bocca.

«Bleah» fece Emilie, arricciando il naso.

Rimasero fino alla fine dell’orario di visita. La madre avrebbe voluto passare la notte in ospedale, come la precedente, ma Arthur le aveva assicurato almeno dieci volte che non era necessario. Era meglio così, dato che lui aveva intenzione di scoprire come stavano le cose il più presto possibile. Non sapeva con sicurezza in quale stato appariva mentre comunicava con il Guardiano, ma sperava di avere l’aspetto di uno che stava semplicemente dormendo. In caso contrario, era meglio che lo scoprisse un infermiere piuttosto che sua madre.

 

 

Aveva già cominciato ad analizzare il ricordo mentre la sua famiglia era là. C’erano dei dettagli che notava per la prima volta adesso, come se la sua attenzione non fosse stata sufficiente quando aveva sperimentato il ricordo. L’accento di Mercer, il modo in cui si muoveva, il rimanente contenuto della valigia, il giornale gettato sulla sedia, i titoli, la data e l’anno: 1975. Sudafrica. Lui a quell’epoca si trovava in Cile.

Non dubitava più di quello che aveva detto il Guardiano: c’era uno di loro che intendeva distruggere il genere umano. Arthur non era un esperto di ricerca sui virus, ma ne sapeva abbastanza per conoscere il virus Marburg. Guerra biologica. Rabbrividì al solo pensiero. Molti dei Bambini avevano i loro settori speciali, o lavori, come insistevano a chiamarli. Era diventato facile, ora che le informazioni erano così disponibili. Alcuni di loro erano al livello dei migliori esperti mondiali, altri li avevano sorpassati già da tempo, perlomeno per quel che riguardava i quesiti teorici. L’idea che uno di loro stesse usando le proprie capacità per far ricerca su un virus con l’intenzione di provocare il maggior danno possibile era a dir poco spaventosa.

Arthur passò in rassegna tutto ciò che sapeva. Il ragazzo del ricordo aveva una motivazione, anche se non capiva cosa potesse provocare un simile odio. Aveva aiuto e soldi. Questi ultimi erano semplici da procurare, quando si aveva a disposizione il tempo illimitato dei Bambini, ma era l’aiuto a preoccuparlo. In che razza di modo era coinvolta quella donna? Arthur non aveva dubbi che lei sapesse di Bian Shen. C’era qualcosa nel tono tra i due che indicava rispetto, ma anche sottomissione da parte di lei. Arthur supponeva che Mercer in quell’episodio del 1975 avesse circa trentacinque anni, ma avrebbe potuto essere sia più giovane che più vecchia. Cosa avevano fatto lei e il ragazzino negli anni che erano intercorsi?

D’improvviso ricordò le parole del Guardiano: «Prelevare uno di voi dal ciclo è la mia ultima risorsa».

La nausea minacciò per un attimo di travolgerlo, ma Arthur si distese sul letto, con la testa ben appoggiata al cuscino, e chiuse gli occhi. Le immagini arrivarono ancora più rapide della volta precedente, e lui si ritrovò sull’altopiano.

Anche il Guardiano era lì, ma c’era qualcosa di diverso in lui, che Arthur non riuscì a definire con esattezza.

«Ti piace davvero questo posto» disse il Guardiano.

«Cosa vuoi dire?»

«Visto che mi chiedi sempre di venire qui».

«Non è il luogo d’incontro, questo?»

Il Guardiano scosse la testa e sorrise. «Il luogo d’incontro è dove tu vuoi che ci troviamo. Dipende da te».

«Posso modificarlo quando voglio?»

«Sì, puoi fare quello che vuoi».

Arthur non si sentiva a suo agio sull’altopiano. Chiuse gli occhi e provò a immaginarsi un luogo in cui si sentiva sicuro. L’aria calda lo colpì come una forte spanciata, e di colpo udì suoni che non sentiva da un’eternità. Aprì gli occhi e lasciò vagare lo sguardo sulla savana. Tutti i rumori provenivano dalle sponde di un lago lì vicino, dove c’erano branchi di animali di varie specie. L’orizzonte tremolava lontano, come se il mondo fosse un apparecchio televisivo che non riceveva bene il segnale. I dettagli erano così numerosi che gli venne il dubbio se davvero si ricordava tutto questo, o se aveva supplito con la sua fantasia. Quella era senza dubbio l’Africa, ma Arthur non aveva idea di dove fosse di preciso.

Il Guardiano si materializzò al suo fianco.

«Perché sei diverso dall’ultima volta?» chiese Arthur.

«Sono diverso ogni volta, perché sono in primo luogo un prodotto delle tue aspettative».

«Ma come potevo avere un’aspettativa di qualcosa che non sapevo esistesse?»

«Hai sempre saputo di me, ma non avevi accesso ai ricordi».

Arthur diede un calcio a una pietra. «Sai perché stanotte sono quasi morto?»

Il Guardiano raccolse un filo d’erba, ne masticò un pezzetto e guardò in direzione di alcuni ippopotami che stavano sdraiati sulla riva non lontano da loro. «Saresti comunque sopravvissuto, anche senza il soccorso medico, ma i sintomi erano una reazione a un uso spropositato delle tue capacità. In più, alcune reazioni inconsapevoli, chiamiamolo pure il tuo inconscio, hanno contrastato le sensazioni che hai provato durante il ricordo. Il tuo cervello non ha finito di svilupparsi, e per questo motivo hai avuto una reazione».

Arthur non sapeva bene cosa dire, ma la conclusione era abbastanza chiara. «Ok. Quindi io ho un cervello che sta cambiando. Ci sono altre cose che dovrei sapere?»

Il Guardiano lo guardò e strizzò un occhio. Cosa volesse significare di preciso quel gesto, Arthur non lo capì. Sebbene il Guardiano fosse una macchina tecnologicamente avanzata, sembrava avere problemi a relazionarsi con le persone in modo normale.

«No. Non ti accorgerai di nulla fino a quando tutti i pezzi del puzzle non saranno andati a posto, per dirla così».

«Pezzi del puzzle?»

«Non è il giusto modo di dire? Credevo che fosse un’espressione in uso da voi».

«Dimmi solo cosa succederà quando tutti i pezzi saranno a posto».

«Si sono verificati dei cambiamenti in te dopo che hai compiuto quattordici anni. Hai già sperimentato la possibilità del contatto con me, e del trasferimento dei ricordi. A poco a poco ti accorgerai anche che i tuoi sensi saranno diventati oltremodo acuti. Ci sono anche altre cose, ma ne possiamo parlare... più avanti».

Arthur non era sicuro se il Guardiano davvero non ne sapesse di più, o se ritenesse che il resto non fosse importante in quel momento.

«E quando andranno a posto i pezzi, allora?»

Il Guardiano si strinse nelle spalle. «Difficile a dirsi. Fra le tre e le sei settimane, forse».

La precisione non era evidentemente una delle funzioni di cui era dotato il Guardiano.

Arthur raccolse una pietra da terra e la ripulì dalla polvere, poi la lanciò in aria un paio di volte. «Stammi a sentire. Se io devo collaborare con te, devi darmi le informazioni di cui ho biosgno per fare quello che vuoi che io faccia. Non puoi aspettarti che io cominci a correre in giro per il mondo per trovare questo ragazzino senza avere almeno un’idea di cosa mi stia accadendo. E poi non capisco bene come pensi che io possa riuscire a trovarlo».

Anche il Guardiano raccolse una pietra da terra e la guardò con attenzione. «Oltre a quello che già ti ho detto, diventerai più intelligente. Ma con ogni probabilità non te ne renderai del tutto conto, perché avverrà per gradi. Piuttosto, ci saranno altre cose che cambieranno radicalmente rispetto a oggi. Una di queste sarà una nuova abilità, che si può descrivere come controllo della propria percezione temporale. Sarai in grado di modificare la velocità del tempo soggettivo di cui fai esperienza, o in parole più semplici penserai più in fretta. Molto più in fretta. Il tuo corpo però non può reggere quel ritmo, e ciò può comportare problemi. Vedremo. Non l’ho mai visto nella realtà». Il Guardiano fissò assente la pietra che teneva in mano. «È ovviamente l’abilità che stai usando ora, solo che la puoi utilizzare nel tempo stesso in cui stai facendo altre cose. Ah, e poi potrai volare».

«Volare?!»

«No, stavo scherzando».

Arthur non sapeva cosa pensare. Un’intelligenza artificiale poteva essere pazza? Era anche un po’ deluso che fosse solo uno scherzo, e ciò lo stupiva. Forse aveva nutrito un sogno infantile di qualcosa di ancora più grande. Ma il tempo soggettivo sembrava un concetto sia bizzarro che interessante. In ogni caso, non capiva come tutto ciò avrebbe potuto aiutarlo.

«Non mi hai detto niente su come farò a trovare questo ragazzino».

«È qui che entrano in gioco i ricordi. Speravo che tu avresti potuto trovarlo aiutandoti con quelli».

Arthur strinse la pietra così forte da farsi male. «No, grazie, basta con quelli. Li puoi tenere per te».

«No, io sono in grado di ispezionare i vostri ricordi solo in maniera superficiale: non ho la possibilità di riviverli come puoi fare tu. Io comprendo solo le parti, non il tutto. È per questo motivo che ti ho risvegliato. Per questo, e per il fatto che tu puoi influenzare il mondo, cosa che io non posso fare».

«E allora dammi le parti».

Il Guardiano si mise le mani sulla schiena e cominciò a camminare su e giù. «Non servirebbe. Io posso selezionare le parti che ritengo rilevanti, ma tu devi per forza sperimentarle. Se il Bambino dev’essere fermato, devi entrare nella sua testa, capire come pensa».

Arthur chiuse gli occhi. Avrebbe potuto ingoiare tizzoni ardenti, e ciononostante si sarebbe sentito meglio.

«È un problema?» domandò il Guardiano.

«Sì, è un problema».

«È per questo che ti sei opposto ai ricordi?»

«Quel bambino è un pazzo furioso».

Il Guardiano si sedette. «No, non è pazzo, me ne accorgerei. Se smette di pensare razionalmente, è facile vederlo».

«Non intendo questo. Mi riferisco ai suoi sentimenti. È pazzia pensare come lui».

«Perché?»

«Quel Bambino odia se stesso e il mondo in maniera del tutto irreale. Come possa pensare e agire in modo razionale, per me è un mistero. L’ho sperimentato per un attimo, e ancora non posso pensarci senza sentirlo in tutto il corpo. Lui, io, desideravamo morire. Potevi minacciare di uccidermi, e ti avrei ringraziato con tutto il cuore».

«Posso aiutarti con i sentimenti».

Arthur pensò di aver sentito male.

«La mia conoscenza del cervello umano non è completa, ma presumo di saperne abbastanza per aiutarti su questo punto. Troveremo una soluzione».

Arthur scagliò la pietra con forza sopra la savana. «Non ho alcuna intenzione di rivivere ancora un singolo ricordo».

Il tono del Guardiano cambiò di colpo. «E invece lo farai».

Arthur si raddrizzò automaticamente. Gabriel era l’unico dei Bambini ad avere la stessa capacità: ti faceva capire quando ti comportavi in modo infantile.

«Non ti ho scelto a caso» continuò il Guardiano. «Tra tutti i Bambini sei tu il più adatto a questo scopo, per svariati motivi. Lo farai, perché sai che è la cosa giusta da fare».

Arthur aprì la bocca, ma non trovò le parole.

Il Guardiano ritornò se stesso. «Dunque, cominceremo l’allenamento non appena sarai di nuovo a casa. A poco a poco imparerai ad affrontare i sentimenti. Ma ok, niente ricordi per un po’. C’è qualcos’altro che vuoi sapere?»

C’era qualcosa che non voleva sapere?

Ma una cosa lo preoccupava più di tutto. «Chi è Mercer, e come mai ha a che fare con il Bambino?»

«Il bambino si fa chiamare Paolo. Non so come quei due si siano incontrati».

«Perché no?»

«Ho accesso solo a una minima parte della sua memoria, quindi posso analizzare solo ricordi casuali. La maggior parte sono troppo vecchi per avere una qualunque rilevanza».

«Ma come la mettiamo con quell’odio? Deve avere una causa. L’odio, evidentemente, è la ragione per cui vuole distruggere l’umanità. Scoprirne il motivo è l’unico modo per fermarlo».

«Alla lunga sì. In questo momento però non abbiamo tempo per pensarci».

Arthur si sporse in avanti e guardò il Guardiano. «Non abbiamo tempo? Cos’è che non mi hai detto?»

«Circa il 98,3 percento, credo. Non posso mostrarti altri ricordi qui sui due piedi, ma posso affermare che Paolo ha pensato di usare tutte le armi possibili per eliminare ogni singolo essere umano dalla faccia della Terra, e con ogni probabilità è già nella fase finale dei suoi piani. Non chiedermi come sono arrivato a questo: te lo mostrerò, ma non ora. Tutto ciò che desidera è morire, e ho paura che possa riuscirci».

Arthur comprese cosa voleva dire il Guardiano. Era uno dei dibattiti che si erano accesi nel Network all’inizio: i Bambini avevano discusso l’eventualità che potessero morire sul serio. Reincarnazione dopotutto non significava vita eterna. Se non si trovava un essere in cui rinascere, il sistema crollava. Se una meteora avesse colpito la Terra distruggendo ogni forma di vita, anche i Bambini sarebbero morti. Su questo la maggior parte di loro era d’accordo.

«Dio mio» esclamò Arthur. «E se Paolo fa parte del Network? Allora magari lo conosco!» Si maledì per non averci pensato prima.

«Ne dubito. Ho controllato, e nessuno di quelli che utilizzano il Network in tempi moderni è questo Bambino. Ma può essere venuto a conoscenza del Network prima, e poi essersene allontanato».

Arthur era confuso. «E perché l’avrebbe fatto?»

«Se è per questo, c’è più d’uno di voi che lo fa. Non a tutti interessa avere contatti con gli altri».

«Ho sentito voci sull’esistenza di Bambini così, ma questo Paolo vorrà pure aver accesso alle risorse del Network? Per non parlare del nostro livello di conoscenza».

Il Guardiano non aveva alcuna risposta.

«E dimmi, qual è la probabilità che uno di noi casualmente sparisca dal tuo sistema, o come vuoi chiamarlo, e che questa persona voglia ammazzare tutti quanti?»

«Credo che sia pari allo zero». Il Guardiano sembrava soddisfatto, ma Arthur ebbe l’impressione che si aspettasse che fosse lui a continuare.

«E questo non suggerisce forse qualche scenario inquietante?»

«Probabilmente non tanti quanti ne immagini tu».

«Cominciamo con i tre più scontati. O c’è qualcosa che non va nel sistema, o lui l’ha violato, o qualcuno l’ha aiutato a farlo».

Il Guardiano annuì, sempre soddisfatto. «E tu per quale propendi?»

Arthur allargò le braccia. «Questo non è un reality show! Non puoi dirmelo e basta?!»

Il Guardiano ridacchiò. Arthur sentì i pugni che si serravano.

«Non è possibile che abbia violato il sistema, ed è improbabile che qualcuno l’abbia aiutato dall’esterno. Posso solo supporre che tutto sia dovuto a un guasto del sistema». Il Guardiano sollevò la mano nell’attimo in cui Arthur stava per cominciare a parlare. «È improbabile perché chi possedesse una tecnologia tanto avanzata da eludere i sistemi di sicurezza e apportare simili modifiche sarebbe anche in grado di cancellare la Terra premendo un grande bottone rosso, per così dire. È impossibile perché la tecnologia che permetterebbe a una persona di arrivare a far questo si trova a un numero imprecisato di millenni nel futuro».

«E se i nostri cari creatori avessero deciso di divertirsi con un bel giochetto?»

«Non impossibile, ma improbabile. Non è nella loro natura sperimentare in quel modo».

Arthur non sapeva se mettersi a ridere o a piangere, ma a quel punto non ne poteva più. Scomparve dalla savana e tornò in ospedale. Erano trascorsi solo pochi minuti, ma sembravano delle ore. Il sonno giunse immediato.

E in sogno lo attendevano ancora altre domande.