Capitolo 12

Il cortile della scuola era sempre molto più grigio dopo che aveva suonato la campanella. L’autista stava accanto al vecchio pullman rosso che veniva utilizzato per le gite. Sia lui che il mezzo sbuffavano fumo bianco nell’aria. Il professor Knudsen era in piedi davanti alla portiera e cercava come sempre i suoi occhiali nello zaino. La classe era sparpagliata, suddivisa nei soliti gruppi. Il bordo del marciapiede era duro come sedile, ma era sempre meglio che stare in piedi. Arthur scorse la playlist: aveva scaricato diverse canzoni nuove che voleva ascoltare, ma non ne aveva ancora trovata una da riascoltare fino alla noia.

Knudsen cominciò a leggere ad alta voce da un foglio e disse qualcosa circa la gita, ma era difficile leggere le labbra di uno che borbottava.

Le ragazze entrarono davanti, i ragazzi dietro. Geir gli fece un cenno di saluto, entrò e si sedette a metà del pullman, e Arthur si gettò sul sedile dietro di lui. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa al vetro.

La voce di Knudsen si propagò con un suono metallico dal vecchio sistema di altoparlanti. «Il viaggio durerà quarantacinque minuti. Per il ritorno, ci incontriamo davanti all’uscita alle quattordici. Ripeto, alle quattordici. Ok, e adesso facciamo l’appello».

Arthur si era quasi addormentato quando venne chiamato il suo nome. Buttò fuori un «Presente».

Geir lo svegliò con un colpo sul braccio.

L’entrata al museo era decorata con bandiere cinesi e norvegesi e con grandi poster raffiguranti gli antichi guerrieri di terracotta. Arthur era già stato in quel museo in precedenza, e sperava che stavolta la mostra sarebbe stata più interessante. Sulla porta a incontrarli c’erano il padre di una delle ragazze della classe e la direttrice del museo. Il padre era vestito casual ma elegante, in jeans, camicia e blazer, e sembrava più giovane di quello che probabilmente era. La direttrice poteva avere quarant’anni, e aveva cercato di vestirsi adeguatamente per l’occasione. Knudsen la salutò con entusiasmo esagerato.

Con voce alta e sottile, la direttrice diede loro il benvenuto. Ripeté in continuazione quale occasione straordinaria avessero, grazie al signor Kristian Eriksen. Arthur sorrise tra sé: il signor Kristian Eriksen nascondeva bene la sua superiorità. Ammiccò a sua figlia Karoline, la quale sfoggiava un sorriso da un orecchio all’altro.

Furono condotti in una grande sala, dove file ordinate di sedie erano disposte davanti a un piccolo podio. In fondo alla stanza c’erano già un bel po’ di persone. Alcune di queste fecero un cenno di saluto eloquente a Eriksen. C’erano manichini rivestiti di antiche armature cinesi, che brandivano la tradizionale lancia. Arthur avrebbe scommesso che fossero copie di armature datate attorno all’anno Mille, ma non ne era sicuro. Le volte in cui si era trovato in quei paraggi, era stato dall’altra parte del muro.

Alla classe fu detto di prendere posto sulle sedie. Eriksen andò dall’ambasciatore cinese, che stava in piedi assieme a suo figlio e ad altri due cinesi. Arthur ricordò di aver letto sull’invito che il figlio si chiamava Pei-Fu. Indossava un completo che sembrava di una taglia più grande, e aveva con sé uno zainetto che stringeva un po’ troppo forte con entrambe le mani.

L’ambasciatore parlava con uno degli altri uomini. La voce era bassa, ma c’era qualcosa di estremamente aggressivo nel suo linguaggio corporeo. Arthur non poté sentire cosa diceva, ma a giudicare dall’espressione del volto l’altro uomo sembrava sia impaurito che arrabbiato, ed era chiaro che l’ambasciatore era scontento di lui. Quando Eriksen li raggiunse, l’ambasciatore cambiò del tutto atteggiamento, sorrise con calore a Eriksen e gli presentò suo figlio. Pei-Fu aveva tutta l’aria di voler essere altrove.

Dopo una breve introduzione, l’ambasciatore cominciò a parlare. Iniziò con alcune frasi fatte sull’importanza per le giovani generazioni di imparare dalla storia. Parlava un norvegese stentato, cosa che indusse uno di quelli seduti dietro, probabilmente Halvard, a scimmiottarlo a bassa voce. Questo provocò quasi uno scoppio di risa dalle retrovie, ma un’occhiata di Knudsen lo soffocò sul nascere.

Della mostra l’ambasciatore sapeva sorprendentemente poco. Sapeva quale periodo era rappresentato, da dove venivano i ritrovamenti più importanti e quali erano le perle della collezione, ma solo perché così c’era scritto sul foglietto che teneva davanti a sé. Strano, pareva irritato e indispettito dalle proprie scarse conoscenze.

«Per finire, vorrei presentarvi mio figlio, Pei-Fu. Ha la vostra stessa età e si è appena trasferito in questo paese. Purtroppo non parla norvegese. Io sono costretto a lasciarvi, ma rimarrà il mio assistente, Chen Hu, così che potrete fare domande a mio figlio».

Tutti applaudirono educatamente. La direttrice ringraziò l’ambasciatore, che scomparve in corridoio insieme a Eriksen. L’assistente era l’uomo che Arthur aveva notato in precedenza. Non era molto contento di dover rimanere a rispondere alle domande di una scolaresca. Knudsen salì sul podio, lo salutò e scambiò qualche parola in inglese, poi salutò Pei-Fu.

«Ok, per le domande o chiedete direttamente in inglese, oppure posso tradurre io per voi, se non siete sicuri di qualche parola» disse Knudsen rivolto ad Arthur e al resto della classe. Poi si girò verso l’assistente. «Forse Pei-Fu vuole cominciare dicendo qualcosa di se stesso?»

Arthur tradusse a mente l’ultima frase in mandarino prima che lo facesse Chen. L’assistente formulò la domanda in modo un po’ diverso da Arthur, che capì comunque con facilità cosa veniva detto. Ma c’era qualcosa di strano nel tono tra di loro, che non riuscì ad afferrare del tutto. Pei-Fu raccontò che si era appena trasferito in Norvegia e aveva cominciato alla scuola internazionale. Si chiedeva se dovesse imparare il norvegese, ma credeva che avrebbe dovuto prima imparare l’inglese.

All’inizio non ci furono molte domande. Geir chiese se leggeva fumetti, Elisabeth volle sapere che musica ascoltava.

Poi fu la volta di Elisabeth. «Avete voti a scuola in Cina?»

Arthur continuò a tradurre mentalmente, ma quando Chen rivolse la domanda a Pei-Fu, dapprima non capì. Si ripeté in silenzio la domanda di Elisabeth e comprese il motivo della propria confusione: l’assistente non aveva fatto la stessa domanda.

Pei-Fu abbassò gli occhi a terra e parlò a voce così bassa che Arthur quasi non riuscì a sentirlo: «Ce la sto mettendo tutta per i voti, e intendo migliorarli».

«Sì, abbiamo i voti a scuola, e sono importanti per poter entrare in certi istituti» disse Chen.

«E tu, cosa ne pensi dei voti?» domandò ancora Elisabeth.

Di nuovo, la traduzione fu completamente sbagliata, e Arthur poté vedere come Pei-Fu lottava per trattenere le lacrime. Era evidente che l’assistente lo faceva apposta, solo per ferire Pei-Fu.

Anche Knudsen si accorse che qualcosa non andava, ma aveva l’aria di non saper che pesci pigliare.

Allora Arthur afferrò lo zainetto di Geir, tirò fuori un foglio e una penna e iniziò a piegare il foglio per farne un ‘Inferno e Paradiso’.1

«Be’?» fece Geir, guardandolo meravigliato. «Cosa stai facendo?»

Arthur saltò su continuando a scrivere, e parlò in fretta e a voce alta. «Professore? Avrei una domanda, ma la vorrei fare direttamente io».

Knudsen lo guardò confuso. «Ah, sì?»

«Ho sempre saputo che ai cinesi piace farsi predire il futuro, così ho pensato che magari potrei mostrare a Pei-Fu un tipico ‘Inferno e Paradiso’, come li facciamo qui in Norvegia» disse Arthur, e sorrise a Pei-Fu.

Era chiaro che Knudsen non sapeva bene cosa dire, e Arthur approfittò della sua esitazione per cominciare. Dall’ultima fila provenirono sbuffi e risatine.

Arthur si avvicinò a Chen tenendo in mano l’origami, e gli domandò in inglese di scegliere un numero. Chen scoccò un’occhiata confusa al professore, che spiegò esitante di cosa si trattava. La scelta cadde sul numero tre. Arthur mosse l’Inferno e Paradiso tre volte, e chiese all’assistente di scegliere ancora. Chen scelse nove. Arthur aprì l’origami e gli mostrò il suo contenuto. L’assistente indietreggiò, guardò Arthur e deglutì, poi fissò ancora una volta il carattere che significava ‘slealtà’.

«Scelga un altro numero» disse Arthur, guardandolo negli occhi.

L’assistente aprì la bocca per dire qualcosa, ma le sue labbra si stirarono in una linea sottile.

Arthur sorrise calorosamente. «Avanti, scelga un altro numero!»

Chen lanciò un’occhiata di sottecchi a Knudsen e poi a Pei-Fu. Lentamente indicò il numero cinque. Arthur gli aprì l’Inferno e Paradiso sotto gli occhi, gli mostrò il carattere per ‘menzogna’, lo richiuse immediatamente, si girò verso Pei-Fu e allungò la mano per salutarlo.

«Ni hao» disse.

Indicando e gesticolando, Arthur riuscì a spiegare a Pei-Fu che doveva scegliere un numero. Quattro movimenti, un nuovo numero, e Arthur aprì l’origami. Un sorriso si allargò sul volto di Pei-Fu, e le parole gli sgorgarono dalla bocca.

Arthur si girò verso Chen con un sorrisetto confuso. «Cosa dice?»

Chen si raddrizzò. Arthur sapeva esattamente perché esitava.

«Chiede se conosci la nostra lingua» tradusse Chen.

Arthur guardò Pei-Fu e scosse la testa. «No, non conosco la vostra lingua. Solo alcuni segni».

Si girò verso l’assistente e gli fece discretamente l’occhiolino.

Su un foglietto scrisse il proprio indirizzo email e lo diede a Pei-Fu. «Magari ci possiamo scrivere più avanti?» Arthur mimò il gesto con le mani, indicando avanti e indietro tra sé e Pei-Fu. «Good luck» disse infine e fece un inchino profondo quanto bastava, solo a Pei-Fu.

Scese dal podio e gettò uno sguardo alla sua classe. Lo fissavano tutti come se non l’avessero mai visto prima. Ad Arthur scappava più che altro da ridere, ma con tutta probabilità avrebbero pensato che fosse pazzo. Avevano le facce pietrificate, colte in una comica espressione tra la curiosità e la sorpresa. Arthur si ficcò l’Inferno e Paradiso in tasca e si sedette.

«Cosa diavolo c’era scritto su quel tuo origami?!» chiese Geir.

Diverse facce si girarono e guardarono Arthur con aspettativa.

«Niente di speciale. Perché?»

«Non scherzare! L’assistente per poco non sveniva!»

Arthur sorrise. «Un piccolo trucco che ho imparato da un amico in rete».

«Dai, sul serio, cosa c’era scritto?»

Arthur si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. Nella stanza c’era uno strano silenzio. Alla fine il prof prese la parola e chiese se c’erano ancora domande, ma nessuno voleva dire altro.

La visita guidata andò molto più in fretta del previsto. Era una delle curatrici a illustrare la mostra, e lo fece con una tale ricchezza di dettagli che si sarebbe creduto fosse stata lei a crearla. Mescolava fatti storici e vita quotidiana in un modo che rendeva le digressioni interessanti al pari della storia stessa. Tutta la classe seguì con interesse.

A causa del traffico pomeridiano, Arthur fu l’ultimo della famiglia a tornare a casa. Quando arrivò, gli altri avevano appena cominciato a mangiare.

«Ciao Arthur, puoi prendere una caraffa d’acqua?» chiese la madre a bocca piena.

Arthur lasciò scorrere l’acqua dal rubinetto mentre si prendeva un piatto dalla credenza.

«In forno c’è della carne. È calda, stai attento» continuò la madre. «Hai avuto una buona giornata?»

«Siamo stati alla mostra al museo, quella sulla Cina» rispose Arthur servendosi della carne.

«Era oggi? Credevo fosse più avanti» disse la madre.

Arthur scosse la testa e si sedette al solito posto.

«Non c’era anche l’ambasciatore cinese con voi?» domandò il padre.

Arthur annuì con la bocca piena.

«Ho sentito dire che Kristian Eriksen ha mosso mari e monti per far arrivare qui la mostra» continuò il padre.

«Ah, sì? E come?» chiese la madre.

«Riuscendo a convincere le persone giuste. Evidentemente è una mostra molto richiesta in giro per il mondo» rispose il padre.

«Chi è sua figlia, me lo ripeti?»

«Karoline» rispose Arthur.

«Quella con i capelli lunghi e biondi?»

Arthur sospirò rassegnato. Quando si trattava di riconoscere nomi e volti, la madre era senza speranza. «No».

«Forse dovremmo andare a vederla» disse il padre.

«La cosa migliore è fare una visita guidata, altrimenti può risultare un po’ noiosa» suggerì Arthur.

Emilie appoggiò rumorosamente la forchetta sul suo piatto, facendo tintinnare la porcellana. «Non ne voglio più» annunciò scivolando giù dalla sua sedia.

«Conosci la regola: nessuno si alza da tavola fino a che tutti non hanno finito» disse la madre.

Emilie sbuffò, si arrampicò di nuovo sulla sedia e guardò irritata Arthur, il cui piatto era ancora quasi pieno.

«Oggi pensavamo di parlare delle vacanze» disse la madre.

I genitori discutevano sempre delle vacanze con loro, ma Arthur e le sue sorelle non avevano delle reali alternative. In estate c’erano sempre due viaggi obbligatori: la visita ai nonni a Bergen e sul Sognefjord, e due settimane in un luogo che non era mai molto lontano dalle frontiere nazionali, nei rari casi in cui uscivano dal paese.

«E dove si va, allora?» domandò Julie.

Il padre sorrise orgoglioso. «Abbiamo pensato alla Scozia».

«La Scozia?» ripeté Julie scettica.

«Abbiamo affittato una grande casa fuori da Edimburgo» continuò il padre.

«Andiamo prima a trovare il nonno e la nonna a Bergen, poi prendiamo l’aereo fino a Newcastle e proseguiamo verso nord in macchina» aggiunse la madre.

«Possiamo andare a Legoland invece che in Scozia?» domandò Emilie.

«No, tesoro, Legoland è in Danimarca, è un altro paese, ma forse possiamo andarci l’anno prossimo» rispose la madre.

«Lo so che Legoland è un altro paese!» esclamò Emilie offesa.

«Legoland non è un paese, è un parco» si intromise Julie con tono da saputella, sospingendo i resti del cibo nel piatto in modo da creare dei disegni nella salsa.

Emilie a momenti saltò su sulla sedia. «Sì, invece! Legoland è un paese, perché Line ci va per le vacanze» strillò. Come sempre, Emilie non era disposta ad arrendersi tanto presto.

«Legoland è un parco in Danimarca, e Line va in Danimarca» disse Julie.

«No, mamma, vero che Legoland è un paese?» Emilie guardò piena di speranza la madre, che scoccò un’occhiata a Julie.

«Legoland non è un paese, anche se il nome contiene la parola ‘land’. Legoland è un parco di divertimenti che si trova in Danimarca, che è un paese».

Emilie rifletté. «E allora perché non possono andare a un parco di divertimenti qui?»

La faccia esasperata della madre fece sorridere Arthur.

«No, non è un comune parco di divertimenti, Emilie» spiegò la madre. «Dopo ti mostro delle foto, se vuoi».

Emilie accettò soddisfatta, e chiese ancora di potersi alzare da tavola. Alla fine le venne concesso, a condizione che mettesse il suo piatto nella lavastoviglie.

«Che ne dite dei piani per le vacanze?» domandò il padre guardando Arthur e Julie.

«Mi sembrano buoni» rispose Arthur.

Secondo Julie poteva andare. Arthur sapeva che finché non si trattava di una gita in montagna con pernottamento in rifugio, tutto poteva andare per lei. Arthur aveva finalmente cominciato ad abituarsi all’idea che sarebbe rimasto vivo quell’estate, ma una parte di lui ancora opponeva resistenza. Non c’era niente che garantisse che la sua trasmutazione non potesse avvenire da un momento all’altro. Anche il pensiero che non dovesse trasmutare mai più gli si era affacciato alla mente, ma aveva cercato di reprimerlo.

Arthur rimise via il cibo. Prese una mela, andò nella sua stanza e controllò la posta. Ogni giorno inviava un breve messaggio a Raven. Era lei che aveva insistito, e lo aveva anche pregato di monitorare attentamente la sua salute. Fino a quel momento, quei ‘giorni omaggio’, come li chiamava lui nei suoi messaggi, non avevano portato con sé altro che stanchezza e mal di testa, cosa che rendeva la parola ‘omaggio’ forse non proprio adatta alla situazione. Raven voleva anche che Arthur si controllasse con l’aiuto di test cognitivi, ma lui si era rifiutato. Perché mai doveva farlo? Se stava per perdere la ragione, se ne sarebbe accorto anche senza test. Raven era come sempre atterrita all’idea che qualcuno potesse svelare il loro segreto.

La serata trascorse scaricando nuovi manga da internet e leggendo libri, oltre agli obbligatori minuti da dedicare ai compiti per casa. Fu solo a sera avanzata che gli venne in mente che ci potevano essere altri Bambini nelle vicinanze di Edimburgo, e scrisse un messaggio a Raven pregandola di controllare. Arthur non aveva niente in contrario a parlare a tu per tu con qualcuno in grado di capirlo.