Capitolo 39
Arthur scorse le pagine che aveva scritto nelle ultime ore. Non contenevano alcun geniale piano di riserva. Anzi, c’era ben poco riguardo a cosa avrebbero potuto fare Raven e Nathaniel in caso qualcosa fosse andato storto. La maggior parte erano descrizioni di ciò che Arthur aveva sperimentato nei ricordi di Paolo. Purtroppo se li ricordava alla perfezione.
Aveva riportato le cose più importanti, ma non aveva scritto più di una pagina per ciascun ricordo. Strano come avesse la sensazione di conoscere davvero Paolo, anche se tutto ciò che sapeva si poteva riassumere in poche pagine. Quello che aveva su Mercer ne riempiva due. Aveva disposto le pagine secondo il tema, così che i ricordi relativi agli stessi argomenti venivano uno di seguito all’altro. Aveva pensato di dargli anche un ordine cronologico, ma non era sempre facile attribuire una data ai diversi ricordi. La Rivoluzione di Ottobre nel 1917, le riserve indiane nel Diciannovesimo Secolo, il regno degli Atzechi nel Cinquecento. Era stata una faticaccia trascriverli tutti, ma c’era riuscito. Il solo guardare le pagine adesso era come tenere gli occhi fissi su una fiamma accesa.
Tutto ciò che aveva a che fare con Yellowstone lo aveva saltato, concentrandosi invece su quello che doveva accadere lì dopo un’esplosione vulcanica. Non ne sapeva molto dei piani di Paolo, ma poteva facilmente rivedere nella memoria la mappa che quest’ultimo aveva disegnato una volta, con il vulcano al centro.
Ragnarök, la fine del mondo. Dai ricordi aveva riconosciuto alcuni luoghi legati ai piani, si ricordava qua e là un nome, frammenti di conversazione che alludevano alla distruzione. Di facce ce n’erano a sufficienza, ma Arthur era pittosto scettico su quanto fosse utile ricordarle. Aveva scritto due pagine sull’uso delle armi biologiche, una pagina su diversi trafficanti di armi e una con informazioni che sperava potessero essere usate per scoprire il network economico di cui si serviva Paolo.
Le ultime due pagine trattavano di quella che sembrava la costituzione di cellule terroristiche in Medio Oriente e in Asia. Non era un lavoro di cui andare molto fieri. Non aveva ancora disegnato tutte le facce, ma era nei suoi piani. L’intera faccenda sembrava del tutto priva di senso. E anche se avesse trovato qualcosa di concreto, cosa ci avrebbe fatto?
Guardò di sottecchi Nathaniel, il quale a sua volta aveva battuto furiosamente sui tasti nel corso delle ultime ore, ma ora sembrava aver finito.
«Come va?» chiese Arthur.
«Ho fame».
«Intendevo dire con la scrittura».
«Mah! Credo di aver finito per stavolta».
«Stai ancora scrivendo su te stesso?»
Nathaniel chiuse il computer e si chinò in avanti. «No. Mi piacerebbe scoprire in che modo sono stato modificato. Forse tu puoi aiutarmi?» Ma poi scosse la testa. «Ma non adesso. Più tardi, quando saremo fuori dall’aereo».
Arthur fu sollevato di evitare quella conversazione in quel frangente. Cosa doveva dirgli? Che non sarebbe mai più ritornato a essere se stesso?
«Mercer ha lasciato un messaggio» disse Nathaniel, porgendogli il telefonino.
Arthur sentì una voce all’altoparlante, ma non ce la fece ad appoggiarci l’orecchio. Invece rimase a fissare Nathaniel, che sedeva calmo in attesa.
Un’altra voce si inserì. Apparteneva a una ragazza, spaventata e confusa. «Nathaniel, dicono che vogliono incontrarti. Io sto bene, ma...» Stava per scoppiare in lacrime. «Dicono che se non vieni mi succederà qualcosa». Dal telefono provennero dei crepitii.
La voce di Mercer era calma. «Hai il resto del giorno per rispondere al messaggio, cioè circa tredici ore. Buona giornata».
Arthur riascoltò il messaggio ancora una volta. Sentì rumori di auto in sottofondo, come se si trovassero accanto a una strada. C’erano anche altre voci, ma era impossibile capire cosa dicevano.
«Cosa facciamo adesso?» chiese Nathaniel.
«Rispondiamo. Scopriamo cosa vogliono».
«E poi dobbiamo trovare un modo per sfruttarlo».
Arthur annuì. Dovevano trovare qualcosa da sfruttare. O qualcuno.
«Aspettiamo il più possibile prima di rispondere, o lo facciamo subito?» chiese ancora Nathaniel. «Cosa si aspettano loro?»
«Non credo che il tempo abbia importanza. Rispondigli adesso, così è fatta».
Ci volevano ancora alcune ore prima di giungere a destinazione. Arthur faceva fatica a star seduto tranquillo. Sarebbe saltato giù col paracadute, se fosse stato possibile. Lo infastidì ancora di più che Nathaniel avesse ricominciato a scrivere.
Andò in fondo all’abitacolo, si stese sul divano e chiamò Raven. Nathaniel gli scoccò una lunga occhiata quando Arthur iniziò la conversazione usando la loro versione modificata dell’antico egizio. Le spiegò la situazione, e ciò che aveva pensato fino a quel momento.
«Una volta arrivato a Yellowstone, non dipendi più da Nathaniel» disse Raven. «La cosa più importante non è uccidere Mercer, ma fermare i loro progetti. Dovresti in ogni caso avere un piano che non includa Nathaniel».
«Forse. Non capisco perché perdono tanto tempo dietro a Nathaniel. Non avrebbero avuto bisogno di fare un bel niente, perciò tutto questo deve pur significare qualcosa».
«Sono d’accordo, ma c’è una cosa positiva in questo. Devono aver paura che voi possiate fermarli, altrimenti perché lo farebbero?»
«Speriamo».
Ma forse c’era un’altra spiegazione. Arthur guardò la tavoletta, che stava ancora sul tavolino accanto al suo sedile. Poteva darsi che a spingerli fosse il desiderio di impossessarsi di quella, e non tanto la paura di essere fermati? Oppure piuttosto era proprio la tavoletta l’unica cosa in grado di fermarli?
«Per tua informazione, ho due botnet sotto controllo. Circa novemila computer sono pronti. Dato che sei stato tu a richiederlo, volevo solo dire che da questa cosa potrebbe scoppiare un gran caos».
«Che genere di caos?»
«Per depistare, metto in circolo dei virus particolarmente aggressivi. Forse possono influenzare altri sistemi».
Arthur sapeva che ‘forse’ non era la parola che in realtà lei aveva pensato di usare. «Ok. Quando credi di poter cominciare?»
«Dovrei essere pronta tra cinque o sei ore, se non succede niente di imprevisto».
«Mandami un sms quando inizi».
«Lo farò. Eshu, non correre rischi inutili. La cosa più importante è la tua sopravvivenza. E ricorda, in keber ebnak khaweeh».5
All’udire quelle parole, Arthur sentì che le labbra quasi gli si stiravano in un sorriso . «Ok, ci sentiamo più tardi. Buona fortuna».
«Speriamo che la fortuna non sia necessaria».
Arthur non era sicuro di essere d’accordo con Raven che la cosa più importante fosse sopravvivere. Lui aveva intenzione di fare tutto il possibile per fermarli, anche se questo avrebbe avuto come conseguenza la sua reincarnazione, o nel peggiore dei casi la sua morte definitiva. Quello era di per sé un pensiero bizzarro, qualcosa con cui non sapeva se era in grado di relazionarsi. Ma Raven forse aveva ragione per quanto riguardava Nathaniel.
Era da un pezzo che Arthur non sentiva il proverbio con cui lei aveva concluso la telefonata, anche se veniva spesso usato nel Network, beninteso, in senso ironico: ‘Quando tuo figlio cresce, trattalo come se fosse tuo fratello’. C’erano troppi fra le loro schiere che consideravano gli adulti alla stregua di bambini. Ma non era proprio così che lui aveva visto Nathaniel. O meglio, in un certo senso l’aveva pur fatto, ma c’era anche dell’altro. Era necessario potersi fidare di lui se dovevano riuscire nell’impresa.
La pioggia scrosciava mentre si dirigevano all’edificio del terminal all’aeroporto di Yellowstone, ciascuno con il proprio zaino sulle spalle e le valigie, che spingevano sulle ruote. Avevano ripartito il contenuto degli zaini in modo che fosse pressappoco identico per entrambi, ma Arthur si accorse che lui portava il proprio molto più facilmente di Nathaniel. Forse era dovuto al fatto che si sentiva come una molla tesa, con tutti i muscoli carichi e pronti. Oppure che Nathaniel era ancora debole.
Di solito Arthur non era in cattiva forma, ma in quel momento avvertiva l’energia come mai prima. Avrebbe potuto mettersi a correre senza problemi. Il Guardiano aveva detto che la tavoletta li avrebbe curati. Era possibile che avesse fatto di più? In quel caso doveva valere anche per Nathaniel. Arthur accantonò quel pensiero. Forse lui era solo ansioso di passare all’azione.
«Cosa facciamo adesso?» chiese Nathaniel.
«Noleggiamo una macchina».
«E poi?»
«Troviamo un hotel per la notte, e del cibo. Riguardiamo tutta l’attrezzatura che abbiamo con noi. Aspettiamo che rispondano al tuo messaggio».
Nathaniel si arrestò e si regolò meglio lo zaino sulla schiena. «Mi serve un po’ di tempo per finire una cosa».
«Che cosa?»
«Un testamento».
Fu una sorpresa, ma Arthur non protestò. «Cosa hai pensato di scriverci?»
«Voglio dividere i soldi tra le mie sorelle di modo che abbiano sempre un gruzzoletto di riserva. Nessuna delle due è molto brava con l’economia».
«Quindi hai bisogno di un avvocato per certificarlo».
«Ce ne sarà pure qualcuno sul posto. Possiamo risolvere la cosa domattina presto. Ci vorrà poco, ho tutto pronto».
Noleggiarono una macchina all’aeroporto. Finirono col prendere una Ford Escape blu scuro. Nathaniel non sapeva dire se fosse un nome adatto o meno. La macchina aveva una quantità di accessori extra, di cui il GPS era l’unico che servisse loro a qualcosa.
Trovarono una stanza a West Yellowstone. Con poco più di mille abitanti, il paesino non rispondeva esattamente alle loro aspettative. Accanto all’hotel c’era un fast food, dove ordinarono degli hamburger che portarono con sé in camera.
Nathaniel sedette sul bordo del letto e guardò Arthur svuotare gli zaini con una mano, mangiando patatine fritte con l’altra. Ogni cosa venne allineata davanti agli zaini.
«Questo cos’è?» domandò Nathaniel, indicando un apparecchio arancione.
«Un contatore Geiger».
Nathaniel non ne sapeva molto di radioattività, tranne che massicce dosi di radiazioni potevano causare una morte dolorosa. Ma la morte non lo spaventava più. Non che desiderasse di morire, ma lo considerava come un possibile risultato degli eventi nel prossimo futuro.
Arthur aveva ordinato quasi tutto in numero doppio. C’erano coltelli, corde, apparecchi radio, occhiali per visione notturna, GPS e quattro barattoli pieni di espolosivo al plastico, vestiti e una montagna di contenitori senza etichetta.
Arthur collocò le armi insieme, lontano dal resto.
«Ok, cominciamo con questo» disse, scegliendo uno dei contenitori.
Quando ebbero rimesso ogni cosa a posto negli zaini erano ormai le due di notte, e avevano ripassato tutto due volte. Nathaniel teneva in mano gli esplosivi per familiarizzarsi con il materiale al tatto. Sembrava quasi come la plastilina che i bambini usavano per giocare, ma non del tutto. Arthur gli aveva insegnato una regola semplice da ricordare per giudicare quanta potenza esplosiva fosse racchiusa in un pezzetto di materiale grande come la palma di una mano. Una cosa era conoscere la formula di Einstein per la relazione tra energia e massa, ma ben altra cosa era immaginare la reale detonazione. Distruggere era troppo semplice.
«Qual è il piano adesso?» chiese Nathaniel.
Arthur era seduto sul letto con una delle pistole in mano. Non avevano ancora parlato delle armi da fuoco. «Credevo che Paolo e Mercer ci avrebbero contattati già da un pezzo. Non ho un solo piano, ne ho molti. Ho stilato una lista delle priorità, in modo che sarà più semplice prendere decisioni mano a mano che cambia la situazione».
Lo stesso aveva fatto Nathaniel. Era come un gioco in cui alcune regole erano stabilite, ma la maggior parte no.
Fece un cenno affermativo verso Arthur, che continuò: «Se hanno una bomba atomica, dobbiamo distruggerla. Senza quella il loro piano crolla. Mercer è il prossimo punto sulla lista, poi Paolo».
«Sai come si distrugge una bomba atomica?»
«Tu perlomeno hai tenuto in mano una delle soluzioni. Ho richiesto delle informazioni al Network. Basta che mettiamo fuori uso il meccanismo di controllo, ed è tutto a posto. Nella peggiore delle ipotesi dobbiamo far brillare la bomba».
Nathaniel raccolse uno dei contatori Geiger e lo accese. «Così possiamo finire per spargere materiale radioattivo in una riserva naturale?»
«Meglio lì che in una città, ma comunque non si diffonderà tanto».
«A quale distanza dobbiamo tenerci per sopravvivere?»
«Non è un problema. Abbiamo detonatori molto avanzati che si possono programmare fino a ventiquattr’ore o far scattare a distanza. O moriamo nell’esplosione stessa, o abbiamo tempo sufficiente per metterci in salvo».
Se si fossero verificate le giuste condizioni, tutto avrebbe funzionato. Nathaniel non credeva che Arthur confidasse che sarebbe stata un’impresa semplice.
«Ok». Arthur sollevò uno degli zaini. «Mettiti questo, che regoliamo le cinghie».
Nathaniel lo indossò e fece qualche passo per provare come se lo sentiva addosso.
«Vorrà dire qualcosa il fatto che non abbiano risposto al messaggio?» chiese, afferrando l’estremità delle cinghie e tirandole.
«Non lo so. Non c’è niente di prevedibile in quello che fanno. Ma non credo che dobbiamo preoccuparci».
«Io non sono preoccupato. So cosa significa e mi ricordo di esserlo stato, ma è tutto. Sembra un sentimento senza senso, non sei d’accordo? Perché dovrei lasciarmi influenzare da qualcosa che forse può succedere? Non ha senso».
Arthur lo guardò per qualche istante. «Forse».
«Tu sei preoccupato? Per me?» chiese Nathaniel. Non ci aveva mai riflettuto prima di quel momento, ma i cambiamenti d’umore di Arthur erano un problema. E poi c’era l’avvertimento del Guardiano. Poteva fidarsi di Arthur? Aveva scelta?
«Tu che cosa credi?» rispose Arthur.
«Credo di sì, ma non so per cosa, o quanto ti influenzi».
Arthur si sedette sul bordo del letto e si stropicciò la fronte. «Non possiamo parlarne domani? Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi».
«Ma certo».
Nathaniel non si sentiva stanco, ma se Arthur non aveva voglia di parlare, non ne aveva voglia punto. Si tolse lo zaino, lo appoggiò al letto e andò in bagno.
Arthur si distese e fissò il soffitto. Il sistema aveva confermato che Paolo era a Yellowstone, nella stessa zona in cui avevano il permesso di compiere perforazioni. Sì, era senza dubbio preoccupato.
Il cellulare emise un bip.
Aprì il messaggio di Raven: ‘Cominciata Fase Uno, tutto è andato secondo i piani’.
In un certo senso era sollevato: significava che non si poteva più tornare indietro. Per un attimo si chiese se avevano fatto la cosa giusta, ma Nathaniel aveva ragione su un punto: non aveva senso preoccuparsi per cose che potevano accadere. O erano già accadute, se era per quello. E come doveva misurarsi con Mercer, come una pattuglia di polizia o un suo equivalente? No, c’era bisogno di qualcuno che prima sparasse, e poi facesse domande.
Arthur si svegliò. Una volta tanto si ricordò un sogno, ma questo sparì quando cominciò a ripensarci. Il letto di Nathaniel era vuoto, così come la sedia dove aveva appoggiato i suoi vestiti. Arthur gettò il piumino sul pavimento e saltò giù dal letto. Nessun biglietto, nessun sms. Non mancava nulla, tranne il pc di Nathaniel.
Prese il cellulare e cominciò a comporre il numero, poi lo buttò sul letto. A che scopo? Entrò in bagno. Il sole del mattino splendeva attaverso la finestra. Arthur la spalancò. Fu grato per l’acqua fredda della doccia.
La macchina stava nello stesso posto. Arthur caricò tutto nel bagagliaio. Quando ebbe finito era affamato, e si stava recando al buffet della colazione quando Nathaniel entrò passeggiando nel parcheggio con il computer sotto il braccio.
«Siamo pronti a partire?» chiese mettendo il pc sul sedile posteriore.
«Perché non mi hai detto che uscivi?»
«Stavi dormendo. Ho dedotto che era meglio se dormivi il più a lungo possibile».
«Ma potevi almeno lasciare un messaggio!»
Nathaniel giunse la mani di fronte a sé. «Sì».
Arthur riabbassò di schianto il bagagliaio e chiuse a chiave la macchina. «Hai sistemato quello che ti serviva?»
«Sì, il testamento è fatto».
«Ok, mangiamo e andiamocene».
Arthur inserì le coordinate della zona nel GPS e richiese le istruzioni di guida. Aveva guardato la cartina e si era fatto un’idea di come avvicinarsi all’area in cui Paolo e Mercer avevano ottenuto il permesso di eseguire perforazioni. Non c’era nessuna attrazione turistica nelle vicinanze, ma la mappa sembrava fatta per dei bambini, così non si fidava. Paolo non aveva trascorso più di un giorno nella zona, quindi Arthur nutriva una piccola speranza che non fossero ancora riusciti a combinare un granché, ma non ne era certo. Dopotutto la data del permesso risaliva a un intero mese prima, e nella peggiore delle ipotesi potevano aver già finito.
Arthur guardò la carta ancora una volta. Il posto si trovava in una valle a cui era possibile accedere scendendo lungo il fianco di una delle alture. C’era solo una strada che vi conduceva, e qualsiasi veicolo probabilmente sarebbe stato individuato anche a grande distanza dalla zona di scavo. L’unica possibilità di arrivare sul posto non visti era entrare nella valle dal lato opposto. La carta indicava un grande bosco che confinava con la zona interessata. Sarebbe stata una valida alternativa, se non fosse stato che era anche l’unica.
Qualunque cosa tramassero Paolo e Mercer, avevano di certo calcolato che Arthur e Nathaniel avrebbero scoperto dove si trovavano e avrebbero tentato di fermarli.
Stavano guidando da quasi un’ora, quando il telefono di Nathaniel prese a vibrare così forte che cadde dal cruscotto.
Arthur lo afferrò al volo e abbassò la radio. «Pronto?»
«Buongiorno» disse Paolo. «Fammi parlare con Nathaniel».
«È occupato».
«Forse dovrei richiamare in un momento più opportuno? Forse dopo che avremo slogato il braccio alla sua cara Emma?» Nella sua voce non c’era l’ombra di sarcasmo.
«E va bene. Un attimo».
Arthur coprì il microfono con la mano. «Accosta. È Paolo. Puoi far finta di essere arrabbiato?»
Nathaniel svoltò di lato e inchiodò i freni. Prese il cellulare senza rispondere alla domanda.
«Sì?» disse, spegnendo il motore.
«Bene, temevo che Arthur non sarebbe stato ragionevole».
«Cosa vuoi?»
«Prima di tutto voglio che tu risponda a qualche domanda. Dove siete in questo momento?»
Nathaniel guardò Arthur, e questi annuì.
«Stiamo andando al Parco di Yellowstone».
«Sapete dove siamo?»
«All’incirca».
Dal telefono provennero dei crepitii, e una voce di ragazza si udì molto più alta di quella di Paolo. «Nathaniel? Sei lì?»
«Sì, sono qui, Emma. Stai bene?»
«Sto...» E la voce sparì.
«Sta bene» disse Paolo, «e continuerà a star bene se farai come ti dico».
«E perché dovrei? Voi avete l’intenzione di uccidere tutti gli abitanti di questo pianeta, quindi che senso ha?»
Fu una risposta inattesa. Per un attimo Arthur considerò di strappare di mano a Nathaniel il cellulare, ma forse la sua imprevedibilità costituiva un vantaggio.
«Io non desidero farle del male, ma posso sempre lasciare che Mercer la interroghi. A te la scelta».
La mano sinistra di Nathaniel tremava, ma lui non sembrò accorgersene. Arthur non aveva idea di cosa gli stesse passando per la testa, ma era grato della calma che conservava, per quanto innaturale fosse.
«Cosa vuoi che faccia?»
«Devi venire qui, da solo. Fa’ scendere Arthur dove vuoi, ma se lo vedo puoi immaginarti cosa accadrà. Adesso dove siete esattamente?»
«Non lo so».
«Vai a Madison, mando qualcuno a prenderti. Porta con te la tavoletta, altrimenti non serve che tu venga. Ti richiamo».
Nathaniel rimise il telefono sul cruscotto. «E adesso cosa facciamo?»
«Devo pensare».
La mano di Nathaniel aveva smesso di tremare, e nulla sembrava indicare che la conversazione avesse prodotto un qualche effetto su di lui, ma Arthur cominciò a dubitare che i piccoli apparecchi facessero il loro dovere. Forse arginavano solo i suoi ricordi dietro una diga, che prima o poi sarebbe scoppiata.
Dunque non volevano loro, bensì la tavoletta.
Chiuse gli occhi e fece rallentare il mondo. Riassunse tutte le problematiche e cominciò a suddividerle. La tavoletta era il problema principale, dato che lui non sapeva cosa sarebbe accaduto se Mercer se ne impossessava. Decise di ignorarlo: se necessario, poteva sacrificare quella assieme a Nathaniel.
Guardò la cartina: non erano lontani da Madison, ma la distanza era maggiore per Paolo, se lui si trovava alla base. Se Arthur fosse riuscito a fermare il loro lavoro, anche solo per un giorno o due, poteva essere sufficiente. Forse. Tutto dipendeva dal successo di Raven. Arthur guardò la cartina ancora una volta.
C’era solo una possibilità.
Arthur uscì dalla macchina, aprì il bagagliaio ed estrasse uno degli zaini. Trovò la pistola e fece girare il caricatore.
Nathaniel lo guardò dallo specchietto retrovisore.
Arthur andò alla sua portiera e la aprì.
Nathaniel stava per uscire dall’auto, ma Arthur lo fermò. «Io scendo qui. Tu prendi la tavoletta e li incontri. Fa’ come ti dicono».
«E tu cosa fai?»
«Meno sai, meglio è. Non puoi raccontare a nessuno ciò che non sai».
Nathaniel annuì, ma ad Arthur parve per un attimo di vedere qualcosa nei suoi occhi. «Ma hai un piano? Io non posso far niente da solo».
«Ho un piano, non scappo. Ok?»
«Ho un’alternativa?»
«È difficile costringerti a guidare da solo».
Nathaniel riaccese il motore.
«Tra l’altro, non hai bisogno di correre» aggiunse Arthur.
«E quanto forte vuoi che vada, allora?»
«Il più piano che puoi senza destare grandi sospetti». Arthur aprì la tasca laterale dello zaino e tirò fuori dei guanti e un coltello, che fissò alla cintura dei pantaloni.
«Vuoi che faccia qualcosa?» domandò ancora Nathaniel.
«No, fa’ solo quello che ti dicono». Arthur richiuse la portiera e fece un cenno d’assenso verso il compagno.
Dopo che la macchina fu ripartita, gli rimase attorno una nuvola di polvere. In lontananza scorse un’automobile venire nella direzione opposta, e sperò che non ne arrivassero altre contemporaneamente, perché allora le cose potevano complicarsi davvero.
Si fece un taglio sull’avambraccio, e il sangue cominciò a colare. Se lo spalmò sulla fronte e sulle guance, poi si imbrattò la faccia anche con terra e sabbia. L’unica cosa che mancava erano delle lacrime, ma quelle proprio non riusciva a spremerle fuori. Si stese a pancia in giù sul ciglio della strada e attese.
I freni stridettero. La macchina si arrestò e venne spento il motore. Si aprì una portiera, e la voce di un uomo disse: «Oh, mio Dio».
Arthur aspettò che l’uomo fosse a pochi metri di distanza, si rotolò sulla schiena, puntò la pistola verso di lui e sparò. Sebbene il proiettile non gli fosse passato nemmeno vicino, l’uomo si accasciò a terra, mortalmente pallido. Il silenzio che seguì fu strano, ma poi una donna gridò. Subito dopo seguì un pianto di bambini.
«Rimani a terra. Se ti muovi, sparo. Capito?»
Arthur puntò la pistola verso la macchina. La donna era seduta davanti, e dietro c’erano due bambini piccoli. La donna stava ancora gridando, ed era sul punto di perdere il controllo.
Arthur si avvicinò alla portiera dell’autista e la indicò con la pistola. «Fuori dalla macchina! Porta con te i bambini, e non accadrà niente».
La donna non reagì. Entrambi i bambini piangevano a dirotto e chiamavano la madre, che era impietrita.
«Non fargli del male!» implorò l’uomo. «Prendi quello che vuoi, ma non fargli del male».
Arthur si girò. «Alzati. Adesso!»
L’uomo si alzò in piedi e guardò pieno di paura Arthur, il quale si allontanò dall’automobile.
«Falli uscire dalla macchina, maledizione!»
Qualcosa cambiò nell’atteggiamento dell’uomo. Corse alla macchina e quasi strappò uno dei bambini dal sedile, poi andò dall’altra parte e aprì la porta. «Liz, fuori dalla macchina. Fuori dalla macchina, adesso!» Appoggiò per terra il bambino e sollevò l’altro dal suo sedile.
La donna sedeva ancora immobile.
La prese per il braccio. «Elisabeth! Fuori!»
Finalmente lei reagì e con lentezza uscì dalla macchina.
Arthur ritornò al lato del guidatore. «Chiudete le altre porte e andatevene!»
L’uomo eseguì, facendo attenzione allo stesso tempo a tenere le mani in alto. «Non sparare. Prendi la macchina, ma non sparare».
Arthur sedette all’interno. Non era esattamente quel che si dice una macchina veloce, ma sarebbe bastata. Accese il motore e mise in prima. Perché non poteva esserci il cambio automatico?
Dallo specchietto retrovisore lanciò un ultimo sguardo alla famiglia ferma sul ciglio della strada. Si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, come molti altri sulla faccia della Terra.
Guardò l’orologio mentre aumentava la velocità. Di tempo a disposizione ne aveva davvero poco, e non ne sarebbe trascorso molto prima che qualcuno passasse di lì, raccogliesse la famiglia, chiamasse la polizia e scattassero le ricerche dell’auto.
Doveva trovarne un’altra. I numeri gli turbinavano in testa: chilometri, velocità e minuti furono calcolati e stimati ancora una volta.
Era contento di non avere la minima idea delle proprie probabilità di riuscita.