Capitolo 28
Il padre lo attendeva nella sala arrivi, con le mani nelle tasche della giacca come suo solito. Aveva un’espressione distante, apparentemente meravigliata, ma Arthur sapeva che registrava tutti i dettagli che gli interessavano. A intermittenza teneva d’occhio l’uscita, e quando vide Arthur piegò le labbra in un sorriso a bocca chiusa, e il corpo perse molta della sua tensione. Arthur lo raggiunse assieme alla hostess a cui era stato affidato. Il padre gli mise una mano sulla testa e gli scompigliò i capelli. Avevano smesso di darsi abbracci qualche anno prima, o meglio, era il padre ad aver smesso.
«Allora, tutto bene?» chiese.
«Sì».
«Il viaggio non è stato come ti aspettavi?»
«Non lo so. Forse».
«Qualche motivo particolare per cui sei voluto tornare a casa prima?» chiese il padre esitante, come se la domanda potesse rivelare qualcosa che lui in realtà non desiderava sapere.
«Be’, la conferenza non era mica solo per me».
Il padre emise un suono che ricordava una risata, e fece un sorrisetto prudente. Arthur sapeva che quello era il figlio che conosceva, e non l’Arthur che aveva scritto un bizzarro saggio ed era andato a Parigi perché era speciale. Anche lui sorrise, ma temeva che sarebbe stato più difficile recitare il ruolo del figlio normale prima di ‘sparire’.
«Se sei contento tu...» replicò il padre con un cenno del capo.
Era una bugia che Arthur avrebbe potuto smascherare anche con l’esperienza di una vita sola.
La madre fu meno sottile nelle sue domande quando arrivarono a casa, e non altrettanto facile da convincere. Era quasi come se intuisse qualcosa e potesse guardargli dentro, ma Arthur dedusse che poteva trattarsi di un rimasuglio dell’ansia risvegliata in lei dopo il primo episodio di malattia. Ben presto li avrebbero informati che lui era morto, e questo l’avrebbe segnata per sempre. Sarebbe stato esattamente come al solito, come centinaia di altre vite che aveva vissuto in precedenza. E allora perché la coscienza gli rimordeva a quel modo?
Mantenne il contatto con Raven e Nathaniel via mail. Il piano era di sparire prima del viaggio in Scozia. Sottrarsi alla vacanza era impossibile, e se Arthur fosse scomparso durante il viaggio questo avrebbe complicato le cose.
Scambiò lunghe mail con Nathaniel, le cui domande portavano a discussioni su tutto, dall’attuale qualità del cibo all’influenza della tecnologia sulla società. La cosa migliore di quelle mail, stranamente, era che discutevano dei ricordi che Arthur aveva rivissuto. Scrivere aiutava Arthur a gestire le sensazioni che questi gli avevano provocato. Le analisi di Nathaniel erano sempre utili perché rendevano più facile pensare ai ricordi come qualcosa che non era accaduto a lui in prima persona. Nathaniel gli suggerì di considerare l’intera faccenda come un gioco, e Arthur capì cosa voleva dire. Il Guardiano otteneva continuamente accesso a nuovi ricordi, ma per la maggior parte erano troppo vecchi perché Arthur desiderasse vederli. A dire il vero anche quelli recenti di rado fornivano informazioni utili, ma nell’insieme formavano un quadro preoccupante. In ogni caso, riviverli costava tempo ed energia.
Non era difficile leggere tra le righe di ciò che scriveva Nathaniel. La cosa strana non era tanto il suo eludere con cura l’incidente, quanto l’evitare anche qualsiasi tema che potesse lontanamente portare a una discussione intorno a quello che era accaduto a Parigi. Arthur non sapeva se lui stesso avrebbe avuto voglia di parlarne. Non gli rimordeva affatto la coscienza per ciò che aveva fatto: quello che piuttosto lo spaventava era la rabbia che era spuntata dal nulla. I pensieri se li ricordava a malapena, ma la sensazione gli si era impressa a fuoco nella memoria. Se non si fosse sforzato di contenersi, avrebbe potuto uccidere quei ragazzi. Non aveva dubbi che fosse un effetto dei ricordi di Paolo. Non sapeva cosa gli piacesse di meno: la mancanza di controllo, o ciò che quella mancanza aveva provocato in lui. Era preoccupato.
Il giorno designato arrivò.
Nathaniel era atterrato a Göteborg, in Svezia, e stava dirigendosi verso il confine con una macchina presa a noleggio. Arthur era seduto in giardino con la madre ed Emilie quando il telefono di casa squillò due volte. La madre rispose ma suonava libero, e non richiamarono. Arthur avvertì lo strano impulso di dire qualcosa. Avrebbe voluto abbracciare entrambe, ma gli sembrava fuori posto. Gli ci volle un’eternità per mettersi la tuta e le scarpe da ginnastica. Disse che non sarebbe stato via per molto. La madre gli ricordò la cena.
Arthur si mise a correre sul viottolo del giardino. Ben presto il sudore iniziò a colargli lungo il corpo.
Vide la macchina a noleggio da molto distante: stava parcheggiata sul ciglio della strada, vuota. Sul sedile posteriore c’era lo stesso zaino che Nathaniel aveva usato a Parigi. Una macchina venne verso di lui. Arthur si spostò di lato, si mise a fare stretching e fissò la vettura: l’autista era un uomo sui trent’anni che non lo degnò di uno sguardo, assorto in una conversazione al cellulare. Arthur scese verso il mare.
Nathaniel era a piedi nudi con i calzoni arrotolati sotto le ginocchia, e lasciava che le onde gli bagnassero i piedi. Le mani in tasca, guardava il mare. Arthur immaginò che alcuni dei loro pensieri fossero gli stessi.
«Ciao».
Nathaniel si voltò di scatto, troppo rapido per nascondere che si era spaventato. Arthur si tolse i vestiti e li gettò a terra in un mucchio.
«È bello qua» disse Nathaniel sedendosi su una pietra. «Molto tranquillo».
«Vuoi venire a fare il bagno?»
Nathaniel scosse la testa. «È freddo. Non so, non mi sembra giusto».
«Non devi vederla così. La mia famiglia ha avuto più tempo con me del previsto».
«Sì, è vero. Ma loro non lo sanno».
Arthur si strinse nelle spalle. Non sapeva se era d’accordo con Nathaniel. Ma in ogni caso non importava.
Corse più veloce che poteva e si gettò contro una piccola onda. L’acqua fredda lo privò in un attimo del calore del corpo. Lo attraversò un brivido, ma poi si sentì bene. Piantò i piedi sul fondo melmoso e sputò fuori l’acqua salata. Aveva atteso a lungo quel momento, ma non gli sembrava come si era aspettato. Fece qualche bracciata, ma non si allontanò di molto. La corrente era davvero forte in quel punto. Fece il morto a galla, lasciandosi sballottare dalle onde. Non gli fece venire voglia di continuare.
Si rese conto che doveva farlo in fretta, come togliere un cerotto. Altrimenti così era solo una lenta tortura.
Il sedile posteriore era grande e spazioso abbastanza per poterci stare disteso. Arthur improvvisò un cuscino con i vestiti che Nathaniel aveva portato, e nascose il corpo sotto una coperta leggera. Nathaniel guidava bene e canticchiava insieme alla radio, quando riconosceva le canzoni. Il cielo era più o meno l’unica cosa che si intravedeva dal lunotto, ma a volte nella visuale si infilava un edificio che conosceva o un pezzo di paesaggio. Alla fine Arthur chiuse gli occhi, ma neppure quello servì. Riconosceva ogni curva, sapeva esattamente dove sarebbe arrivata la successiva. Visualizzava luoghi, persone e situazioni, che cercavano di costringerlo a dire addio. I suoi pensieri si perdevano in tutte le direzioni, e a poco a poco entrò in uno stato che non avrebbe saputo dire se fosse sonno o veglia.
Doveva essersi addormentato, perché erano tracorse delle ore. Nathaniel si fermò in una piazzola di sosta, e Arthur si sedette al suo fianco sul sedile davanti, ben nascosto dietro gli occhiali da sole e il cappellino a visiera che Nathaniel gli aveva comprato. Avevano già passato la frontiera. Lo zaino con l’attrezzatura procurata da Raven era sul pavimento della macchina davanti a lui.
Aprì il passaporto e guardò la propria foto. Il suo sorriso era storto e genuino. Trovò un computer portatile, un telefono cellulare che accese e appoggiò sul cruscotto, un telefono satellitare, una manciata di carte di credito e una chiavetta USB.
Collegò il computer al cellulare, controllò di aver ottenuto la connessione a internet e mandò un messaggio a Raven. Nel suo inbox c’era una mail: era una raccolta di rapporti scritti da Raven per il Consiglio, ma alcuni erano di scarso interesse. Raven aveva iniziato ricerche elettroniche per trovare elementi rilevanti nelle zone in cui aveva soggiornato Paolo. Arthur dubitava che Paolo si fosse lasciato dietro delle tracce. Perlomeno non sembrava da lui.
«Ho fame» annunciò Nathaniel, e spense la radio.
Era la prima cosa che diceva da quando si erano messi in viaggio. Il suono di una voce dentro l’abitacolo sembrò strano. Arthur scosse la testa.
«Ok, ma almeno io devo mangiare tra poco. Ci vorrebbe anche una pausa per sgranchirsi le gambe».
Arthur annuì e ripose il computer nello zaino.
Nathaniel tamburellò con le dita sul volante.
«Ho visto la mia famiglia mentre ero a casa. È stato strano. Non mi sono mai sentito tanto vicino a loro come in quel momento, ma non mi sono mai sentito neppure tanto lontano. Una parte di me quasi mi gridava di raccontare la verità, mentre un’altra parte non poteva fare a meno di vederli come dei bambini».
Arthur sorrise. Lui e Raven erano giunti a conclusioni simili nei riguardi del Network.
«È come se non vivessimo nello stesso mondo» continuò Nathaniel.
Arthur si schiarì la voce, arrugginita dopo ore di silenzio. «Adesso non diventare troppo filosofico. Di solito non aiuta».
«Ma capisci cosa voglio dire? Voi dovete sentirvi così tutto il tempo, no?»
«Di quando in quando. Ma in un certo senso no, per niente».
«Cosa intendi?»
«Non credo che noi siamo legati alle nostre famiglie allo stesso modo in cui tu sei legato alla tua. Non è possibile per noi. Ma capisco cosa provi. La volontà di difenderli con ogni mezzo».
Nathaniel non rispose nulla, ma Arthur sapeva quale domanda non osava porre. La domanda che anche lui stesso si faceva, la domanda che ancora non aveva una risposta: c’era davvero un senso a tutto ciò?
Il silenzio si prolungò, e alla fine assunse la consistenza di una struttura sul punto di crollare. Arthur si schiarì la voce per cominciare a dire qualcosa, ma fu interrotto dal suo stomaco. Sembrò un terremoto dentro il suo corpo, concluso da piccoli stridii come un palloncino che si lascia scappar fuori l’aria.
Si guardarono per un attimo, serissimi.
Poi un sorriso si insinuò sulla bocca di Nathaniel, un sorriso che lui non riuscì a trattenere, e Arthur avvertì lo stesso. Si guardarono di nuovo e scoppiarono a ridere. La risata echeggiò potente all’interno della macchina. Nathaniel aveva le lacrime agli occhi, e Arthur rise tanto che cominciarono a dolergli i muscoli dello stomaco.
«Perché stiamo ridendo?» ansimò Arthur tra i singhiozzi. «Non è divertente».
«Non è divertente?! Dovevi vedere la tua faccia!»
Nathaniel scoppiò nuovamente a ridere. Arthur non fece nemmeno in tempo a scoccargli un’occhiata offesa, che il riso lo riacciuffò. Alla fine riuscirono a fermarsi, rossi in viso e col fiato corto.
Arthur sentì che qualcosa si era allentato. «Credo di rimanere un po’ di stucco certe volte. Non me ne accorgo nemmeno».
«Tendi alla depressione?»
C’era una sfumatura nel tono della domanda di Nathaniel che Arthur non riuscì a identificare.
«Non lo so. Il Guardiano mi aveva avvertito che i ricordi che rivivo possono avere un certo effetto su di me, ma non pensavo che si manifestasse in questo modo».
«Dalle tue descrizioni sembrano incubi. Io non so, ma finché tu non diventi pazzo completo, io sono contento».
«Ah, se è per questo io sono già pazzo, ma mi sta bene».
«Sì, perché no?» ribatté Nathaniel, in un modo che fece dubitare Arthur della verità di quelle parole.
Si fermarono a un distributore di benzina. Divorarono ciascuno il proprio hamburger e comprarono snack e bibite. Nathaniel si prese un enorme sacchetto di dolciumi vari e diverse bottigliette di coca-cola. Arthur si accontentò di latte al cioccolato e focaccine all’uvetta.
Nathaniel collocò strategicamente il sacchetto sul cruscotto e cominciò a servirsi con voracità.
«Nessun diabetico in famiglia?» chiese Arthur.
A tutta prima Nathaniel sembrò sorpreso. «Ti ci metti anche tu adesso? Come se la lagna di Noorah la settimana scorsa non fosse stata abbastanza».
Arthur rise.
Nathaniel alzò gli occhi al cielo e bevve ostentatamente un sorso dalla bottiglia, prima di fare un rutto. «Come mai siete così buoni amici? Non vi assomigliate per niente» continuò, un po’ troppo bruscamente. «Cioè, non volevo dire così, è solo che...»
«Tranquillo» lo interruppe Arthur. «Non sei il primo che me lo chiede, e di sicuro neanche l’ultimo».
Ricordava bene la prima volta che aveva incontrato Raven. Non era stato esattamente l’inizio di un’amicizia. C’erano tuttora poche persone che riuscivano a provocarlo come lei, ma adesso era per altri motivi. Grandi aspettative a volte comportavano delusioni.
«Ci sono molte vie strane che portano all’amicizia. Anche nel Network dicono che siamo una coppia ben strana».
«Quindi tu l’hai incontrata di persona?»
«Qualche volta, in giro per il mondo».
«E cosa ti ha impedito di ammazzarla? Era più grande di te?»
Arthur sapeva che nell’ironia c’era un pizzico di sincerità. Raven aveva una capacità speciale di far sentire le persone come idioti.
«Sotto sotto è buona. Anche se vive in un mondo di sfumature di grigio e agisce di conseguenza, nel profondo di sé ha una visione delle cose più in bianco e nero, in cui io mi riconosco. E poi condividiamo certe...» Arthur rifletté un momento, «... esperienze».
«Lei non mi piace. Ho sempre la sensazione che sarebbe in grado di uccidere chiunque senza batter ciglio».
Arthur non seppe bene cosa rispondere. Con ogni probabilità Nathaniel aveva ragione, ma si poteva dire lo stesso di lui. Però in fin dei conti la questione non era la volontà di usare simili mezzi, ma per quale motivo e con quanta facilità li si usava. In realtà temeva di essere più spietato di Raven, ma era forse un’ironia che Nathaniel non era in grado di cogliere.
Il viaggio fu rapido. Per attraversare la Danimarca e la Germania ci misero meno tempo del previsto, soprattutto perché Nathaniel si divertiva a correre in macchina, e ne aveva noleggiata una con una tale potenza di cavalli che se l’avesse spinta alla velocità massima probabilmente non sarebbe riuscito a controllarla. Arthur era un tantino invidioso. Aveva guidato anche lui, ma non in quel modo. Era quasi ipnotico guardare come il mondo esterno scompariva al loro passaggio. Con Bruce Springsteen allo stereo – scelta di Nathaniel – sorpassavano una macchina dopo l’altra, e di rado venivano sorpassati.
Per esercitarsi, Arthur rallentò la velocità del mondo e si domandò come sarebbe stato guidare quando il mondo andava a velocità dimezzata. Lui non aveva alcun problema a coordinare il corpo, ma poteva trasmettere quella facilità ai movimenti dell’auto? Forse era un bene che non potesse fare la prova. Perlomeno non ancora.
Mentre facevano una pausa, si collegò a internet: la tentazione di controllare i giornali norvegesi era troppo forte. La sua sparizione aveva fatto notizia, ma ormai era stata relegata in fondo alla pagina per far posto alle catastrofi del giorno, eventi sportivi e insulse dichiarazioni di politici.
‘Ragazzo presumibilmente annegato’ diceva il titolo.
Non c’era nessuna foto né nome, ma avevano trovato i suoi vestiti. Qualcuno si era procurato la dichiarazione di un abitante del luogo sulle correnti in quel punto e su quanto forti potessero essere. Non una parola sulla famiglia.
Arthur chiuse internet e aprì uno dei file mandati da Raven. Era un rapporto che riguardava la ricerca sull’uso di armi biologiche. Il rapporto era vecchio, datato 4 agosto 1978, ciascuna pagina stampigliata con Top Secret, ma senza alcuna indicazione circa quale fosse l’agenzia investigativa a cui apparteneva il documento. Però a giudicare dalla lingua, era facile capire che il testo fosse stato scritto da un britannico. Il contenuto non era certo confortante: la lista delle ricerche presumibilmente in corso nel mondo riempiva due pagine intere. Il rapporto concludeva che la convenzione del 1972 sulle armi biologiche non era stata rispettata, ma che la ricerca appariva in calo, per motivi più pratici che politici o umani.
«Cosa stai leggendo?» chiese Nathaniel. «Ti sento sospirare sotto la musica».
«Niente di nuovo. Solo una conferma che non tutta la creatività è del tipo buono».
«Quindi nessuna nuova informazione su... Paolo?» Nathaniel pronunciò il nome come se fosse stato pericoloso dirlo a voce troppo alta.
«No». Arthur spense il computer e lo infilò nello zaino.
«Qual è il piano dopo che arriviamo a Parigi?» domandò Nathaniel rimettendosi sulla strada.
«Raven ha qualche idea».
«Chi?»
Arthur sentì la propria voce echeggiare nella sua testa. «Noorah è Raven, è quello il suo vero nome».
«Ah. E qual è il tuo, allora?»
Arthur stava per rispondere, ma Nathaniel lo prevenne. «Eshi, vero? Nel libro c’era scritto qualcosa di simile. Eshi, Esho».
«Eshu».
«Eshu» ripeté Nathaniel, cercando di imitare la pronuncia di Arthur. «Eshu. E cosa significa?»
Arthur fu infastidito dalla domanda, anche se cercava di non darlo a vedere. «È il nome di un dio».
Cercò di dirlo come se stesse rispondendo a chi gli aveva domandato di che colore era una macchina di passaggio, ma la voce lo tradì.
Nathaniel emise un suono a metà tra la risata e la sorpresa.
«Che Noorah, ehm, Raven, fosse affetta da megalomania, me lo sarei quasi aspettato, ma non da te!» esclamò, in tono canzonatorio.
«Tutti gli altri nel Network hanno nomi così».
«Cioè avete tutti nomi di dei?»
Arthur non ebbe bisogno di guardare Nathaniel per sapere che espressione avesse in faccia. La sua voce diceva già tutto. «Non tutti, ma molti. Raven è una delle eccezioni».
«Meraviglioso, una banda di bambini con manie di onnipotenza! Allora il vostro leader si chiama semplicemente Dio? Forse posso incontrarlo. Puoi portare a Dio i miei saluti?»
Arthur decise di non dire nulla.
«Perché il nome di un dio? Che tipo di dio è Eshu? Per caso sei il dio della salvezza del mondo? Sarebbe incredibilmente azzeccato».
«No, purtroppo. C’è una storia anche troppo lunga dietro il mio nome. E purtroppo il mio dio preferito esiste solo nella mia personale religione».
«Hai una religione tua?» Nathaniel sembrò scettico.
«No, no. Ho un ipotetico dio preferito. Il dio delle piccole cose significative».
«Il dio delle piccole cose significative?»
«Sì, dovrebbe esistere un dio del genere».
«E quali sono le piccole cose significative?»
«Possono essere tante e diverse. Per esempio il sorriso che ti fa capire che sei innamorato. O l’idea improvvisa che ti rivela il senso di qualcosa. Piccole cose».
«E che mi dici del piccolo sasso in cui inciampi, così cadi e ti rompi un braccio?»
«Oppure quei piccoli commenti pieni di disprezzo che rovinano l’idea migliore del mondo prima che possa essere realizzata» continuò Arthur.
Nathaniel annuì infervorato. «Non esiste una religione con un dio così? In caso contrario, dovremmo fondarla».
«Già, perché no? Ma allora abbiamo bisogno di una professione di fede» ribatté Arthur, mezzo scherzando.
Nathaniel ruotò le spalle, raddrizzò il collo e si schiarì la voce dandosi un’aria solenne. «Crediamo nelle casualità e nel destino, crediamo che perfino l’azione più insignificante possa avere le più grandi conseguenze. Dobbiamo perciò esaminare tutte le nostre azioni, sia grandi che piccole, così che ci guidino sulla via stretta, anzi no, sulla via della casualità».
Arthur si accarezzò il mento con aria di sfida. «Prevedo un problema».
«Ah, sì?»
«I credenti moriranno di una morte lenta e dolorosa, incapaci di compiere qualunque azione, terrorizzati dal pensiero che perfino un loro minimo movimento possa portare alla fine del mondo».
«Ma con la stessa logica possono anche creare il paradiso in Terra» obiettò Nathaniel.
«Saresti disposto a fare testa o croce, testa è paradiso e croce è inferno? Correresti il rischio?»
Nathaniel sbuffò. «La tua mancanza di critica costruttiva è stata notificata. Come punizione devi rispondere alla domanda iniziale: che tipo di dio è Eshu?»
Arthur piegò la testa in un piccolo inchino. «Eshu è il dio di una religione che ebbe origine in Africa, dove per la prima volta la conobbi. Ma si trova anche nei Caraibi e in altri luoghi del mondo».
«E di che cosa è il dio?»
«Di tante cose, dipende, ma per me è il dio del caos».
Nathaniel inarcò le sopracciglia. «Caos? C’è qualcosa che dovrei sapere?»
«Niente panico, non ho scelto il mio nome in funzione di quello. Piuttosto è in relazione con il modo in cui ho scoperto il Network per la prima volta».
«Ma insomma, come ti devo chiamare?»
Arthur lo guardò serio. «Bond. James Bond».
«Shaken and disturbed?»
Entrambi sorrisero di se stessi.
«E così anche il cattivo senso dell’umorismo non cambia a dispetto di molte migliaia di anni» constatò Nathaniel scuotendo la testa.
«È una costante umana» replicò Arthur.
«E io che credevo fosse un aspetto del carattere» continuò Nathaniel.
Arthur allargò le braccia in un gesto teatrale. «Tu sei giovane e sciocco, cosa puoi sapere?»
«Che sono giovane e sciocco. Qual è la tua scusa?» Nathaniel fissò Arthur con uno sguardo che attendeva impaziente una risposta.
Arthur si limitò a rimanere a bocca aperta, per un tempo troppo lungo.
«Si direbbe che tu sia stato contagiato da Raven» disse alla fine con una smorfia alterata.
Nathaniel rise. «Lo prendo come un complimento».
Mise una marcia in meno e lasciò ancora una volta che il motore dimostrasse per cosa era stato creato. L’accelerazione si trasmise alla loro colonna vertebrale quando sfrecciarono oltre due automobili.
«La prossima volta prendiamo un cabriolet» mormorò Nathaniel rivolto più che altro a se stesso.
Arthur alzò il volume della musica e si appoggiò comodamente al sedile. Neppure lui avrebbe avuto nulla in contrario a un cabriolet. Era di sicuro una delle voci da aggiungere alla lista di cose che desiderava fare quando sarebbe arrivato il momento.